IL NOIR DI ABEL FERRARA IN 7 SEQUENZE

IL NOIR DI ABEL FERRARA IN 7 SEQUENZE

La sarta muta Tana di Abel Ferrara è vittima, nel giro di poche ore, di una violenza carnale e di un tentativo di rapina. Dopo aver ucciso il secondo aggressore con un ferro da stiro e averne fatto a pezzi il cadavere, comincia a eliminare ogni uomo che le capita a tiro.

È il secondo film diretto da Abel Ferrara. Il primo vero lungometraggio, The Driller Killer, del 1979. Non arrivò mai nelle sale italiane.

L’angelo della vendetta (Mrs. 45) venne distribuito nel 1981 e si rivelò una piacevole sorpresa. Un thriller a basso budget che riprende l’idea del film d’esordio di Ferrara, la follia che spinge un uomo a uccidere ripetutamente. Qui però la protagonista è una giovane donna, Tana (interpretata dalla diciottenne Zoe Tamerlis). Una spruzzata di erotismo (sul quale anche la splendida ma ingannevole locandina puntava non poco), non particolarmente accentuato comunque e di certo tutt’altro che eccitante, spinse alcuni addetti ai lavori a tentare paragoni con un paio di film di Brian De Palma, segnatamente Vestito per uccidere (uscito l’anno precedente) e Le due sorelle. In entrambi i casi, problemi psichici con slittamenti nelle patologie legate alla sessualità.
Non a caso, forse, nel 1984 sia De Palma che Ferrara dirigeranno Melanie Griffith ancora in due mistery di matrice sexy, rispettivamente Omicidio a luci rosse (Body Double) e Paura su Manhattan (Fear City). I risultati artistici risulteranno diversi, ma questo è un altro discorso.

In ogni caso, è abbastanza evidente che l’industria puntava su Ferrara per farne un altro potenziale realizzatore di film di genere, capace di abbinare altissima qualità e buoni incassi. Tentativo vano, perché l’autore di Il cattivo tenente (Bad Lieutenant, 1992) e Fratelli (The Funeral, 1996) seguirà progressivamente un percorso alternativo e marginale, più vicino (nelle intenzioni) a certo cinema europeo: con esiti non sempre brillanti, per essere onesti.

Col senno di poi, però, già in L’angelo della vendetta si intuiscono le idee non proprio allineate che Ferrara svilupperà in seguito. Poiché la ricerca della suspense non è per nulla insistita e il regista sembra guardare più al cupo dramma metropolitano Taxi Driver (1975) di Martin Scorsese, che alle non sempre elaborate trame gialle o agli incubi horror dei molti giovani registi statunitensi in quegli anni in rampa di lancio. La digressione nella quale Tana, nel corso dei suoi vagabondaggi in cerca di vittime, incontra il marito tradito interpretato da Jack Thibeau (caratterista lanciato da Don Siegel in Fuga da Alcatraz e che poi sarà in 48 ore, The Hitcher – La lunga strada della paura e in molti altri grandi film americani) e ascolta la sua storia prima di tirare fuori la calibro 45 da sterminatrice notturna, è un chiaro rimando al capolavoro interpretato da Robert De Niro. E, in fine dei conti, la giovane donna muta che si trasforma in giustiziere non è molto distante dal tassista Travis, disadattato e solitario, che vorrebbe ripulire New York dalla feccia.

Al malinconico, tragico, spietato pessimismo di Scorsese, Ferrara aggiunge un tocco grottesco, malsano, corrosivo, che ricorda certi memorabili titoli di Roman Polanski (Repulsion, Rosemary’s Baby, L’inquilino del terzo piano).

Si tiene distante dall’azione pura e dal poliziesco (come ne Il giustiziere della notte ed epigoni vari) e pure dagli eccessi granguignoleschi e splatter (da lui stesso praticati in The Driller Killer) molto in voga in quegli anni, preferendo creare un climax angosciante che non rinuncia all’ironia macabra. Il culmine lo raggiunge nella scena della festa in maschera, alla quale Tana si presenta vestita da suora (il tema religioso sarà poi una costante per Ferrara e per il suo sceneggiatore Nicholas St. John). Gli scarni dialoghi fanno a pezzi l’ambiente artistico/underground newyorchese e il ralenti (altro riferimento a De Palma e alla celebre e molto più virtuosistica sequenza del massacro al ballo di fine anno in Carrie – Lo sguardo di Satana?) non fa che fissare in maniera indelebile e definitiva il greve cattivo gusto del mondo che sta mettendo in scena, vero trait d’union che lega ogni fotogramma del film (molto più della violenza), non si sa quanto consapevolmente contrapposto alla purezza angelica di Tana (tra l’altro sintomatico in questo senso il fatto che a ucciderla sia una donna, e proprio la più smaliziata tra le sue colleghe). Enigmatico e perfido l’epilogo, nel quale l’anziana vicina piange il cagnolino (la cui foto incorniciata è posta accanto a quello del marito morto), che lei crede sia stato ucciso da Tana. Ma il cane è vivo, e trotterellando si avvicina alla porta di casa. Come dire che l’angelo della vendetta era capace di impallinare uomini a dozzine, ma non di eliminare un povero animale indifeso.

1 commento

  1. […] essere considerato un sequel del film del 1956, se non fosse ambientato vent’anni dopo. Nel 1993, Abel Ferrara gira Ultracorpi – L’invasione continua (Body Snatchers), molto diverso sia dai lavori […]

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