LE LINGUE DEL FUMETTO IN ISOLE REMOTE E MONDI ALIENI

LE LINGUE DEL FUMETTO IN ISOLE REMOTE E MONDI ALIENI

In tanti classici del fumetto troviamo non solo personaggi che visitano valli perdute o isole remote, ma anche eroi che viaggiano nello spazio interplanetario e che incontrano popoli extraterrestri, come Buck Rogers o Flash Gordon, o che viaggiano in lungo e in largo nel tempo incontrando popoli dei più diversi periodi e paesi, come Brick Bradford, senza che sembrino avvertire alcun problema nel comunicare, come se i popoli di mondi diversi per assurdo parlassero la stessa lingua.

Qui il problema linguistico è stato semplicemente rimosso e ignorato, in modo da concentrarsi sulla storia, ma così facendo il realismo e la verosimiglianza della storia stessa ne risente, poiché il lettore percepisce che “non si fa sul serio”.

In pratica, i fumetti di una volta riproducono quanto accade in una storia del bambino sognatore Little Nemo realizzata da Winsor McCay nel 1910, dove, in quello che si potrebbe quasi considerare il primo fumetto di fantascienza, Nemo vola sul pianeta Marte in dirigibile trovando un mondo in cui tutti parlano inglese.

Ciò è accettabile quando, come in questo caso, si tratta di un sogno, ma nella realtà le cose non dovrebbero andare così.
Certi autori di fumetti si sono quindi posti il problema di come far parlare i popoli stranieri o alieni, le cui lingue non potevano conoscere o che avrebbero dovuto inventarsi. Un escamotage abbastanza comune consiste nel trovare una spiegazione di comodo per il fatto che i diversi popoli riescano a capirsi senza sforzo.

Tipica dei vari modi in cui il problema viene spesso risolto nella fantascienza è la striscia intitolata all’ufficiale dell’aeronautica inglese Jeff Hawke, creata da Sidney Jordan nel 1954. Nei primi episodi tutti gli alieni sono telepatici, il che risolve ogni problema di comunicazione.

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In seguito, con il proliferare nella serie, di tanti popoli alieni uniti in una vera e propria Federazione dei Pianeti, divenne chiara l’esistenza anche di una sorta di esperanto intergalattico.

Infine, per comunicare con i primitivi terrestri, che a volte sono così mentalmente limitati rispetto agli alieni da non riuscire a captarne i messaggi telepatici, in alcuni episodi vediamo che certi viaggiatori extraterrestri dispongono di meccanismi che fanno da interpreti simultanei.

Si tratta di traduttori universali più efficienti e precisi di qualunque interprete umano. Se ne trova un esempio anche nella serie di Lanterna Verde (la seconda versione iniziata nel 1959 da John Broome e Gil Kane).

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Qui è l’anello energetico in dotazione a un corpo di agenti intergalattici a fungere, tra l’altro, da traduttore simultaneo per le lingue parlate da alieni che non solo vengono da differenti settori dell’Universo.

 

Altre lingue oltre il mare, il tempo e lo spazio

In un certo senso anche le isole sconosciute e inesplorate possono essere paragonate a mondi alieni, a volte possono esserlo anche per l’originalità della loro fauna e flora. Soprattutto risulteranno piuttosto ostici gli idiomi parlati dai loro abitanti.

Così in molti fumetti può capitare, anche solo per poche nuvolette, che siano immaginate delle frasi di lingue inventate parlate da popoli isolati dal mondo esterno, come in un paio di storie di Topolino del 1961 scritte e disegnate dal veneziano Romano Scarpa.

In “Topolino nel Favoloso Regno di Shan-Grillà”, Topolino visita una valle isolata dal clima temperato incassata tra altissime montagne in mezzo a una regione inesplorata del Polo Nord.

È una parodia della felice terra di Shangri-La, apparsa nel romanzo Orizzonte perduto pubblicato dallo scrittore James Hilton nel 1933 e nell’omonimo film che ne fu tratto nel 1937 dal regista Frank Capra, anche se l’originale era collocata tra le regioni altrettanto innevate delle montagne del Tibet.

La lingua degli abitanti della sua versione umoristica, che dagli abiti e dai tratti somatici si direbbero di stirpe mongolica o himalaiana come nell’originale, è così incomprensibile da essere resa da Scarpa con inintelligibili ghirigori sempre diversi, più simili a scarabocchi che a lettere di un alfabeto.

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In una prima didascalia l’autore si scusa scherzosamente di non poterli tradurre, poiché è una lingua sconosciuta anche a lui, ma alla fine della storia si decide a tradurne alcune frasi, sempre però in didascalia, senza quindi rinunciare al gioco linguistico di far parlare in modo del tutto incomprensibile il popolo della sua Shan-Grillà.

In circostanze simili una scrittura altrettanto inventata, ma dai caratteri più piccoli e un po’ più raffinati, che rappresentava la “lingua dell’antico Katai”, cioè una sorta di cinese antico, era apparsa nella storia di Carl Barks del 1954 “Avventura nella valle di Tralla-La”, uscita in Italia nello stesso anno con il titolo “Zio Paperone e la dollarallergia”.
Anche in quel caso la terra di Tralla-La, o Trulla nella prima versione italiana, nascosta tra i monti dell’Himalaia, era ispirata anche nella sua collocazione alla Shangri-La creata da James Hilton.

In un’altra storia di Scarpa sempre pubblicata nel 1961, “Topolino e la Fiamma Eterna di Kalhoa”, l’autore si limita a inventare delle frasi nel nostro alfabeto composte da semplici parole dalle vaghe sonorità polinesiane, per rappresentare il linguaggio degli abitanti dell’isola dal cui sottosuolo sgorga la fiamma inestinguibile del titolo, che è ispirato al fumetto di di Cino e Franco del 1933 “La Misteriosa Fiamma della Regina Loana”, e di conseguenza al romanzo “La Donna Eterna” di Henry Rider Haggard.

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Una famosissima isola della letteratura è l’Isolachenoncè inventata a teatro dal commediografo James Matthew Barrie per il suo “Peter Pan”, poi riadattato come romanzo con il titolo “Peter Pan e Wendy”.
Qui a parlare una lingua immaginaria dovrebbe essere l’immaginaria tribù degli indiani Picaninny che vi abitano, ma nel libro l’autore ne cita una sola parola, squaw, che è tutto tranne che inventata, anche se scherzando le attribuisce il significato un po’ anomalo di “vecchia mia”.

A rimediare ci pensò il fumettista francese Regis Loisel nella sua versione di Peter Pan, pubblicata in sei episodi usciti dal 1990 al 2004. Non è un adattamento dell’opera di Barrie, ma il racconto delle origini di Peter e dei bimbi perduti narrate in chiave adulta, a metà tra il crudo realismo dei melodrammi alla Dickens e le storie sexy tipiche del fantasy francese.

Nel fumetto di Loisel vediamo in quali poveri quartieri di Londra viveva Peter, come e perché incontrò la fata Campanellino che lo condusse volando sull’isola, per quali frustrazioni e risentimenti imparò a combattere ferocemente e perché fu felice di dimenticare il passato e smettere di crescere. Come perse sua madre e come prese il nome di Pan, come mozzò la mano a Capitan Uncino gettandola in pasto al Coccodrillo e naturalmente come conobbe la principessa indiana Giglio Tigrato, che l’avrebbe sposato se lui non l’avesse rifiutata come qualunque ragazzino schizzinoso di fronte a chi tenta di baciarlo.

Per far parlare Giglio Tigrato e gli altri indiani Picaninny, Loisel ha inventato una vera e propria lingua su misura, dalle sonorità vagamente amerinde, benché limitandosi a un numero di vocaboli non troppo vasto e dal senso difficilmente decifrabile.

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Tra le poche espressioni chiaramente tradotte o dai significati abbastanza intuibili della lingua Picaninny, troviamo nao (no), tyomah (sirena), papai (padre), Tigra Li (Giglio Tigrato), i wo mah (io voglio sposare), yet (sì), tao (tu), haona thao (arrivederci e grazie) e in qualcuna si può intuire una vaga derivazione dall’inglese o forse anche dal francese, ma sempre opportunamente camuffati sotto forma di lingua indiana.

Di gran lunga molto più articolata, verosimile e accuratamente costruita è la lingua dell’immaginario popolo Ozu che abita l’isola di Attabar Teru, collocata in un imprecisato punto delle Indie Occidentali dallo sceneggiatore inglese Alan Moore nella serie Tom Strong, pubblicata dal 1999 con i disegni di Chris Sprouse.

Rovesciando i pregiudizi razziali e probabilmente rifacendosi anche alle culture che vedono certe droghe naturali come fonti di benessere psicofisico, Moore immagina che gli ozu, di pelle nera, siano diventati più intelligenti e longevi di ogni altro popolo al mondo nutrendosi di una radice chiamata Goloka.

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La loro lingua deve quindi essere in grado di esprimere anche concetti molto complessi e raffinati, benché l’autore non aiuti sempre i lettori a decifrarla. Ma fin dal primo episodio alcune frasi e parole dalle vaghe sonorità africane vengono tradotte più o meno letteralmente, come huda (salve), oroti (madre), atari (padre), weh-wah (bambino), gamogan (morti), kumba (grazie), okabu (addio), tahomeh (benvenuto). Mentre Chukulteh è il nome con cui gli ozu chiamano il Grande Essere identificato con tutto ciò che esiste.

Tra i pronomi risulta abbastanza chiaro il significato dei termini su (io, me), teh (tu, te, voi), teo (lui), temo (loro). Tra i verbi si possono citare etes (essere), chimiri (aiutare), euleh (pregare), ovoru (amare), teko (dire), ma solo del verbo essere si individua una precisa coniugazione, distinguendo le parole suro (io sono), etes (sei, siete, essi sono), ete (è).

Come in inglese gli articoli determinativi sono indicati da un solo termine, che in questo caso è mi, mentre l’articolo indeterminativo è on. Tra gli aggettivi possessivi si distinguono suro (mio), ton (tuo), ten (vostro). Notare che lo stesso termine che significa mio coincide anche con la prima persona del verbo essere, come se in questa lingua, appartenente a un popolo dalla coscienza particolarmente evoluta, ciò che si possiede si identificasse non tanto con ciò che si ha, quanto piuttosto con ciò che si è. Congiunzioni e altre particelle del discorso della lingua Ozu sono o (e), e (che), ko (chi), fos (a).

A volte dal contesto si può intuire il senso di altre parole ozu, come lepsma (presto), jumba (attento), ara (sotto, giù), orotu (signora), ataru (signor). Questi ultimi due termini, chiaramente derivati da quelli che significano madre e padre, precedono i cognomi proprio come nella terminologia cittadina più borghese, indicando che gli ozu non sono per nulla selvaggi come l’uomo civilizzato più superficiale potrebbe supporre.

Infatti nonostante il loro intelletto superiore, dato il clima tropicale di Attabar Teru, il succinto abbigliamento degli ozu non si differenzia dai tipici costumi tribali tradizionali dei popoli africani e anche le loro abitazioni sono semplici capanne.

A parte l’introduzione dell’energia elettrica nel loro villaggio a opera di Tom Strong (il figlio di un inventore tanto brillante quanto radicale, che dopo essere rimasto orfano è stato adottato dal popolo di Attabar Teru) e alcune conseguenti concessioni alle più utili comodità moderne, sembra insomma che gli ozu non abbiano ritenuto per niente intelligente sviluppare una società tecnologica o un’economia capitalistica, come se l’autore volesse così polemizzare contro la presunta superiorità della civiltà occidentale.

Ma l’ozu non è l’unico esperimento linguistico messo in atto da Moore sugli albi di Tom Strong. In altri numeri della stessa serie, chiaramente ispirata alle avventure fantascientifiche di Doc Savage, l’eroe dei pulp degli anni trenta, troviamo mesoamericani ipertecnologici di altre dimensioni la cui lingua è rappresentata con ideogrammi precolombiani, e delle misteriose creature umanoidi che vivono immerse nelle fiamme del centro della Terra che parlano una lingua costituita da monosillabi.

Di quest’ultimo idioma si può intuire o dedurre vagamente il senso soltanto di poche parole, come pun (io), pul (me), tem (te), sha (essere), fe (fare), map (toccare), mek (volere, amare), ma sembra plausibile che anche in questo caso Moore abbia costruito tutte le frasi con una certa cura, pur senza spiegarne nei dettagli i significati.

Sempre a proposito di isole, uno dei primi romanzi in cui uno scrittore si è preoccupato di inventare parole in lingue immaginarie è il celebre “I Viaggi di Gulliver” dell’autore satirico irlandese Jonathan Swift, in cui al pari di altri pianeti le terre oltremare su cui di volta in volta naufraga il protagonista ospitano popoli diversi dai comuni terrestri, pur evocando in modo amplificato qualità o difetti umani, in parte anche simboleggiati dalle particolarità fisiche di quei popoli.

Infatti Lillipuziani e Blefuschiani sono uomini piccoli sia nel fisico che nel pensiero da farsi la guerra per i motivi più futili, mentre gli abitanti di Brobdingnag sono giganti tanto fisicamente quanto moralmente e condannano con decisione l’uso di armi distruttive.

Naturalmente anche nelle versioni a fumetti di Gulliver, come quella di Renata Gelardini disegnata da Lino Landolfi per la rivista per ragazzi Il Giornalino (raccolta in volume nel 1994), ritroviamo le parole delle lingue immaginarie incontrate e con il tempo apprese dal dottor Lemuel Gulliver, alcune dal significato dubbio, come le espressioni lillipuziane Hekinah Degul, Tolgo Phonac o Landro Déhulsan, e altre il cui significato viene approssimativamente spiegato, come i soprannomi attribuiti a Gulliver, che in Lillipuziano è detto Quinbus Flestrin (Uomo-Montagna) e in Brobdingnaghiano Grildrig (Piccolo Nanetto).

Mentre la versione di Gelardini e Landolfi si rivolge ai ragazzi, tagliando le parti più satiriche e provocatorie del testo originale di Swift, che in effetti non era un libro per bambini, un altro autore di fumetti italiano, Guido Crepax, nella sua serie I viaggi di Bianca realizzata tra 1981 e 1982 ha disegnato delle versioni spaziali e parzialmente erotiche, eppure nello spirito tutto sommato più fedeli, dei viaggi di Gulliver, utilizzando al posto del protagonista del libro una delle sue tipiche e disinibite eroine femminili.

La Bianca di Crepax è qui un’esploratrice del futuro che invece di naufragare su isole sconosciute sbarca su altri pianeti. L’autore ricrea quindi i minuscoli Lillipuziani e i giganti di Brobdingnag sotto forma di popoli alieni che, come nel romanzo, parlano lingue più o meno incomprensibili di cui ancora una volta i vocaboli sono direttamente ripresi dal testo di Swift. Anche gli abiti di questi extraterrestri dalla varia statura sono peraltro molto simili a quelli di europei del Settecento, ovvero dell’epoca dello scrittore irlandese.

Ogni volta anche Bianca impara la lingua delle genti locali, a cui Crepax da appassionato linguista ha aggiunto anche qualche parola di sua invenzione ma nello stesso stile, pur senza chiarirne i significati se non quando questi erano tradotti già nel libro, come la frase Lumos kelmin pesso desmar lon Emposo (Giurare pace con lui e il suo Reame) fedelmente e opportunamente citata, senza che comunque se ne possano trarre troppe indicazioni utili a comprendere la grammatica e la sintassi del Lillipuziano.

Nell’ultimo viaggio, disegnato nel 1982, anche Bianca come Gulliver incontra un popolo di cavalli sapienti che parlano attraverso articolati nitriti, chiamano sé stessi Houyhnhnm e chiamano Yahoo i disgustosi esseri umani semibestiali del loro pianeta.

Anche qui Crepax si trova a dover aggiungere vari termini nei particolari idiomi locali, ma neanche in questo caso ha tradotto molte parole della lingua dei due popoli, che indirettamente rappresentano quanto vi è nell’umanità di più nobile (l’elegante bellezza e saggezza dei cavalli) e di più ignobile (l’egoismo e la bestiale violenza dei bruti umanoidi), una netta diversità di indole simboleggiata anche dalla differenza tra gli educati nitriti degli uni e i feroci e aggressivi grugniti degli altri.

A proposito di lingue parlate da cavalli sapienti, il libro di Swift deve aver ispirato in questo senso anche il grande umorista Benito Jacovitti, quando nella sua storia del 1956 Pippo preistorico creò un popolo di cavalli che aveva sviluppato una sua civiltà sulla Terra di un milione di anni fa e che naturalmente parlava un idioma equino fatto di nitriti, sul tipo di hippiaié e hippiaiò, che dall’anno seguente sarebbero stati abbondantemente usati anche da Trottalemme, il cavallo parlante del suo Coccobill.

Il fantasioso linguaggio dei cavalli, non è del resto che uno dei tantissimi buffi idiomi che Jacovitti ha inventato nel corso della sua carriera, come quello dei cavernicoli presenti nella stessa storia, che tra tanti incomprensibili ‘nghé e gnauk infilano qualche volta nei loro discorsi delle parole dal senso più chiaro, in gergo milanese o romanesco, quel tanto che basta per farsi capire, o come i linguaggi parlati nella storia del 1948 L’onorevole Tarzan dagli animali feroci, che solo il loro “presidente” Tarzan capisce, o dalla tribù africana dei Panzoni.

Quest’ultima è rappresentata nel modo più politicamente scorretto, oggi si direbbe ai limiti del razzismo, sia dal punto di vista fisico sia da quello linguistico (pieni come sono i loro discorsi di semplicistici bugubù o bobobò), ma erano altri tempi e non è che i cacciatori bianchi facciano figure migliori.

Tra le tante cose di cui Jacovitti rideva facendone la parodia, non poteva mancare un filone importante della narrativa popolare come quello fantascientifico e quindi tra i tanti linguaggi jacovitteschi non potevano naturalmente mancare quelli alieni, come l’oscuro idioma parlato dai buffi marziani da lui inventati nella sua storia Gionni Galassia, realizzata tra il 1957 e il 1958.
La loro lingua è a base di espressioni strambe ma ben articolate, tra l’infantile e il goliardico, come gnàcci-kuki, ciccicaié, sba kittò o circibà, parole che l’eroe della storia potrà capire solo grazie al solito e utilissimo traduttore universale, detto dai Marziani basbò.

Problematiche linguistiche aliene sono al centro anche di un’altra storia di Jacovitti del 1960, Pippo e il Cirlimpacco, in cui il celebre terzetto degli amici Pippo, Pertica e Palla incontra un visitatore extraterrestre il cui strambo ed enigmatico idioma è reso intelligibile solo da un ennesimo traduttore universale, anche se verso la fine si arricchisce di qualche termine dialettale nostrano che ne rende un po’ più chiaro il senso.

Altrettanto incomprensibili e se possibile ancora più strampalate sono le lingue aliene inventate da Jacovitti per la storia del 1965 Microciccio Spaccavento, in particolare quelle dei Gorgoni del pianeta Gorgo e dei Kronzi del pianeta Kronz, a cui si aggiungono quelle di almeno altre cinque o sei razze di extraterrestri, compresi anche dei Marziani diversi per aspetto e linguaggio da quelli dello stesso autore di sette anni prima.

In questa storia risulta evidente come, pur non curandosi di dare un senso preciso alle parole aliene che inventava, Jacovitti riuscisse brillantemente a escogitare per ogni specie più o meno umanoide un diverso idioma caratteristico, nettamente distinto dagli altri per suoni e forme ricorrenti.

Così anche se nessuno è in grado di dire cosa diamine significhino, certe parole lunghe e piane come tukambesci, troma-zikka o varvassina sono per esempio tipiche dei Gorgoni, mentre altre parole un po’ più semplici, tronche o accentate come tini tini, nagh, kot, clàpt o gneffrù sono invece altrettanto tipiche dei Kronzi.

Da parte loro i marziani del 1965 (o meglio del 2965, visto che la storia era ambientata mille anni nel futuro) si esprimono con termini ancora diversi, come zuan kalandòppera o svarr-ganibò. Quest’ultimo esempio ci fa notare come Jacovitti, anche se probabilmente neppure sapeva cosa stesse facendo dire ai suoi vari alieni, certe volte si preoccupava, o per meglio dire si divertiva, a indicare anche gli accenti precisi con cui leggere le sue buffe parole inventate, ulteriore segno di un divertissement linguistico realizzato con una certa cura.

Quelli in cui sarebbe stato necessario trovare ancora più spesso il modo di rappresentare lingue di altri pianeti, sono però gli albi a fumetti americani, pieni come sono fin dalla fine degli anni trenta di supereroi e popoli alieni.

Limitandosi alla sola produzione della storica casa editrice Dc Comics, si va dal pianeta Krypton, su cui è nato Superman, al pianeta Rann visitato continuamente dal pendolare dello spazio Adam Strange, fino al pianeta Thanagar abitato dagli Uomini Falco… ma il caso di Krypton è per così dire il più paradossale: li vedremo tutti in un prossimo articolo.

 

(Da Segreti di Pulcinella).

 

 

 

1 commento

  1. Un articolo non è certo un’enciclopedia e sarebbe assurdo pretendere completezza, tuttavia mi sento di ricordare alcune vignette del celeberrimo “Asterix e Cleopatra”, in particolare l’interrogatorio di Obelix all’armatore che non ha portato i materiali per il cantiere.

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