L’ESSERE-PER-LA-MORTE DI HEIDEGGER NEI FILM HORROR

HEIDEGGER NEI FILM HORROR

Scrive il filosofo tedesco Martin Heidegger in Essere e tempo: “L’anticipazione svela all’Esserci la dispersione nel Si-stesso, sottraendolo fino in fondo al prendente cura avente cura, lo pone innanzi alla possibilità di essere se stesso, in una libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si, effettiva, certa di se stessa e piena di angoscia: la libertà per la morte”.

Potrà sembrare una forzatura voler “utilizzare” il pensiero del più importante filosofo del Novecento per la lettura di alcuni film dell’orrore che appartengono a un periodo in particolare, collocato all’incirca tra gli anni settanta e gli anni ottanta. Eppure si sa che Heidegger ebbe dei buoni rapporti con i surrealisti, molto vicini al mondo artistico e letterario del fantastico. Comunque, se forzatura deve essere, che lo sia fino in fondo, a costo di manipolare, oltre al sommo pensatore, tutta una serie di pellicole che, peraltro, si possono apprezzare anche come semplici opere cinematografiche di puro intrattenimento, senza che questo ne scalfisca il valore.

Ancora Heidegger: “La morte è la possibilità più propria dell’Esserci. L’essere per essa apre all’Esserci il poter-essere più proprio, nel quale ne va pienamente dell’essere dell’Esserci. In essa si fa chiaro all’Esserci che esso, nella più specifica delle sue possibilità, è sottratto al Si; cioè che, anticipandosi, si può già sempre sottrarre a esso. La comprensione di questo «potere» rivela la perdizione effettiva nella quotidianità del Si-stesso”.

Il “poter-essere più proprio” (il Ci) dell’essere-per-la-morte equivale, banalizzando forse (ribadiamo: forzando), a una presa di coscienza, da non intendersi in ogni caso come semplicemente sociale o politica (che al limite possono derivare da essa). Se volessimo azzardare un’interpretazione del concetto di Heidegger, potremmo ritenere la presa di coscienza come uno shock, che riecheggia e si prolunga nell’angoscia del brano di Essere e tempo riportato all’inizio.

Arriviamo quindi al nocciolo della questione, e cioè a come in alcuni film dell’orrore l’essere-per-la-morte venga adombrato all’interno degli elementi e dei meccanismi filmici basilari. Uno dei quali è ovviamente il Mostro, colui che porta la morte in un contesto altrimenti tranquillo. In senso heideggeriano, il contesto tranquillo nel quale si svolge la vicenda è il Si, e il mostro porta la morte, produce lo shock, quindi l’angoscia che pone il personaggio dinanzi al poter-essere più proprio, all’EsserCi, all’essere-per-la-morte. Prendiamo Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre), diretto da Tobe Hooper nel 1974.

I giovani protagonisti vengono uccisi uno a uno dalla famiglia di pazzi cannibali e, in particolare, da Leatherface, finché resta solo una ragazza, Sally, che viene torturata e rischia di fare la stessa fine degli amici, ma riesce a fuggire. Gli orrori ai quali ha assistito le procurano la situazione emotiva necessaria, l’angoscia e l’anticipazione che isola l’esserCi dal Si e gli apre la possibilità dell’essere più proprio. La presa di coscienza sfocia nella risata finale, isterica e liberatoria nonché nel suo allontanarsi a bordo del furgoncino (anche se lo spettatore non saprà mai se il soccorritore l’ha tratta davvero in salvo). Volendo forzare ulteriormente ecco che l’immagine di Leatherface che, urlante, brandisce e solleva la motosega mentre la vittima predestinata fugge, diviene la “costante e radicale minaccia” di cui scrisse Heidegger.

Alcuni dei film successivi di Tobe Hooper sembrano andare nella stessa direzione: Il tunnel dell’orrore (The Funhouse, 1981), in particolare. Il parco dei divertimenti nel quale è ambientato può essere considerato un buon tramite scenografico e visivo del “chiasso”, della “rumorosa equivocità della chiacchiera” e della “pubblicità del Si” heideggeriani. Anche in questo caso l’unica che riesce a sopravvivere al mostro che si aggira nel tunnel degli orrori è una ragazza. Dopo essere riuscita a ucciderlo, Amy esce dal tunnel: la risata dell’automa all’ingresso provoca in lei, mentre si allontana, un pianto irrefrenabile. Il suo guardarsi intorno senza che sembri vedere nulla di ciò che la circonda, richiama alla memoria la frase di Heidegger: “Lo spaesamento si rivela autenticamente nella situazione emotiva fondamentale dell’angoscia”.

Pur se in maniera meno evidente, anche in Poltergeist – Demoniache presenze (Poltergeist, 1982) Hooper sembra evocare l’essere-per-la-morte di Heidegger. La scena finale, nella quale la famiglia protagonista va ad abitare nella nuova casa e lascia il televisore fuori dalla porta, è il simbolo di una presa di coscienza e della sottrazione al Si.

L’horror più sottilmente heideggeriano è comunque Halloween – La notte delle streghe (Halloween), diretto da John Carpenter nel 1978. All’interno ne troviamo i punti cardine. La chiacchiera del Si nella parte iniziale, con le tre ragazze che si preparano per la notte di Halloween. Il Mostro che produce l’angoscia, la fuga (deiezione) e infine la presa di coscienza dell’essere-più-proprio. La sequenza finale, con il pianto in questo caso tutt’altro che liberatorio di Laurie, consapevole che il mostro non è stato affatto sconfitto (lo legge nello sguardo del dottor Loomis) è del tutto esplicativa.

Altri film potrebbero essere letti in questa maniera, film molto diversi tra loro come il fantascientifico Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg, Scanners (1980) di David Cronenberg, Shining (1980) di Stanley Kubrick, Re-Animator (1985) di Stuart Gordon e Nightmare – Dal profondo della notte (1984), di Wes Craven, nel quale il sogno è la “chiamata in cui consiste la coscienza”.

Tuttavia, in alcuni casi, l’orrore scatenato può essere un modo per allontanare l’angoscia, la paura della morte. Come ha scritto Heidegger: “L’essere-deiettivo-per-la-morte quale diversione di fronte ad essa. Muovendo dal davanti-a-che della fuga”.
Non sembra che un’intenzione del genere possa essere attribuita ai titoli citati, poiché in quelli di Hooper e in Halloween c’è una fuga (un voltare le spalle) ma nel finale c’è una stasi, e il pianto delle ragazze (o il televisore in Poltergeist) testimonia appunto una presa di coscienza in atto.

Però Alien (1979) di Ridley Scott, o film per certi versi simili quali Terminator (1984, James Cameron) e The Hitcher – La lunga strada della paura (1986) di Robert Harmon, possono essere interpretati in modi opposti. In Alien, Ripley scaccia l’alieno (l’alienazione del Si) e resta con il suo essere più proprio. Ma potrebbe valere anche il contrario: l’alieno rappresenta il Ci, che Ripley espelle per paura del suo essere più proprio.

 

 

Scrivi un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.I campi obbligatori sono evidenziati con *

Dichiaro di aver letto l'Informativa Privacy resa ai sensi del D.lgs 196/2003 e del GDPR 679/2016 e acconsento al trattamento dei miei dati personali per le finalità espresse nella stessa e di avere almeno 16 anni. Tutti i dati saranno trattati con riservatezza e non divulgati a terzi. Potrò revocare il mio consenso in qualsiasi momento, integralmente o parzialmente, con effetto futuro, ed esercitare i miei diritti mediante notifica a info@giornalepop.it

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>

*