INTERVISTA A ERNESTO GASTALDI

INTERVISTA A ERNESTO GASTALDI

Nato nel 1934 a Graglia (in provincia di Biella), Ernesto Gastaldi, tra il 1960 e il 1980, ha lavorato a oltre cento film diventando uno tra i più importanti sceneggiatori del genere giallo e del noir. Inoltre, Gastaldi è stato regista e scrittore.

Ernesto Gastaldi, come si è avvicinato al mondo della scrittura cinematografica?
Pensavo di fare lo scrittore e scrivere per il cinema mi parve l’unica strada per cominciare a scrivere senza morire di fame.

Nei primi anni sessanta ha scritto due film del terrore, “Licanthropus” (1961) di Heusch e “L’orribile segreto del Dr. Hichcock” (1962) di Freda. Ce ne può parlare?
“Licanthropus” è stato forse il primo vero copione professionale, nel senso che ero diventato un professionista. Avevo fatto scuola e negritudine sotto Ugo Guerra e ora ero pronto per il “mestiere”. Quel film segnò anche il mio incontro con Alan Collins, ossia l’attore Pigozzi, che anni dopo avrei utilizzato in alcuni dei miei film. Per “L’orribile segreto”, invece, ormai navigavo da solo e scrivevo senza protezione. Mi chiamarono i produttori Donati e Carpentieri: volevano un giallo horror con qualcosa di nuovo, scrissi un soggetto che si intitolava “Spectarls” sulla necrofilia. Ai due produttori piacque e mi fecero scrivere la sceneggiatura. A copione finito e pagato, chiamarono Riccardo Freda, offrendogli la regia: “Non sappiamo se te la senti… sai, è un argomento delicato… necrofilia”. Riccardo fece spallucce, prese il copione e confessò: “Sto con Gianna Maria Canale che mi costa un frego di soldi. Giro anche le pagine gialle…”. Adesso è normale leggere articoli dei critici che analizzano il travaglio artistico di Freda per approdare a quel film diventato un cult.

“Marte dio della guerra” (1962) di Marcello Baldi, è un fantasy-mitologico?
Forse, ma quando lo scrissi non potevo definirlo così. Ugo Guerra mi aveva portato da Pugliese, un suo amico produttore, perché lo salvassi da un grave imbarazzo: aveva preso dei soldi di acconto sostenendo di avere avuto un’idea clamorosa, nuova, oltre i soliti film mitologici di Ercole, Maciste eccetera che andavano allora. C’era solo un dettaglio: non aveva avuto nessuna idea. Pugliese ardeva per sapere e Ugo mi lanciava occhiate disperate. Nel mio cervello balenò un meme seminvolontario: “Tu guarda in che casino s’è messo Guerra. Mo’ manco Dio… manco dio… Guerra?”. Sorrisi ai produttori e annunciai che avevamo pensato a “Marte il dio della guerra”. Ugo prese la palla al balzo con l’eleganza che lo distingueva e firmammo quel giorno stesso il contratto.

Sulla sua attività come regista vorrei fare chiarezza. A me risulta che lei ha diretto quattro film da solo: “Cin… cin… cianuro” (1968), “La lunga spiaggia fredda” (1971), “La fine dell’eternità” (1984) e “L’uovo del cuculo” (1992). E due insieme a Vittorio Salerno: “Libido” (1965) e “Notturno con grida” (1981). È così?
Sì. “Notturno con grida” è una specie di seguito di “Libido”.


Gastaldi, com’è nata la collaborazione con Vittorio Salerno, fratello del grande attore Enrico Maria?
Un amico mi presentò un ragazzino con i capelli rossi e i baffetti, Vittorio, fratello del famoso attore. Voleva fare un film, “L’abete”, in cui si raccontava del portiere di un palazzo che conservava l’albero di Natale e questo cresceva, cresceva… così il portiere comincia a chiedere il permesso agli inquilini di bucare i pavimenti… Scrivemmo anche un primo tempo. Poi passammo a un progetto di fantascienza, parola allora sconosciuta nel cinema. Avremmo dovuto fare “La fine dell’eternità” (stesso titolo ma altra storia rispetto a quello che poi feci da solo), che era né più né meno che “Ritorno al futuro” italiano 30 anni prima… Ricordo una battuta su Sofia Loren. Il protagonista, tornando nei primi anni del dopoguerra, annuncia che la sorella di Sofia, povera e stracciata, avrebbe sposato il figlio del duce sollevando l’ilarità generale, ma continuava sostenendo che la notizia avrebbe fatto il giro del mondo non per il figlio del duce, ma perché quella stracciona era sorella di quell’altra che si chiamava Sofia. Ovviamente i distributori italiani non capivano di che stessi parlando se dicevo “viaggi nel tempo” e così dovemmo ripiegare su un gialletto che intitolammo “Libido”. Poiché nacque per una scommessa tra Luciano Martino e Mino Loy, avevo a disposizione una decina di milioni e allora cercai di coinvolgere l’attore Enrico Maria Salerno offrendo al fratello Vittorio la co-regia. Non avevo calcolato la perfidia che può esistere tra fratelli… Enrico promise ma non mantenne, però io mi tenni Vittorio.

Quale dei suoi film come regista le sembra riuscito meglio?
Nessuno. Ho sempre girato senza soldi, più che altro per mantenere fede a una promessa fatta a mia moglie, l’attrice Mara Maryl: “Tu non reciterai se non in film diretti da me e io non dirigerò film se non interpretati da te”.

Nel 1963 ha scritto “Perseo l’invincibile” e “La frusta e il corpo”, diretti da due tra i nostri migliori uomini di cinema, Alberto De Martino e Mario Bava. Che ricordo ha di questi lavori e di questi registi?
Del primo regista, niente. Del secondo invece sì. Bava era un grandissimo operatore, con gli attori se la cavava un po’ meno bene, ma era accettabile.

Quella di “La cripta e l’incubo”, del 1964, è una tra le sue sceneggiature più apprezzate. Com’è nata l’idea?
Un giorno io e Tonino Valerii venimmo chiamati da un produttore che cercava un giallo del terrore già pronto. Noi non ce l’avevamo ma dicemmo di averlo. Il produttore ci fissò un appuntamento per l’indomani mattina: dovevamo portare il copione che non esisteva. Così passammo la notte a scriverlo in terrazzo (faceva caldo) con Mara che ci portava batterie di caffè. Spiegare come nascono le idee è impossibile. Vengono.

In molte delle sue sceneggiature c’è una componente di sensualità abbastanza spiccata, basta pensare a “Libido” o a “Anna, quel particolare piacere”. Si è sempre trattato di una sua scelta o era dettata dallo spirito dell’epoca?
Dire oggi che quella sensualità era “spiccata” mi pare un azzardo. In “Libido” si trattava della storia di due lesbiche e la scena più “sensuale” è un buffetto che Dominique Boschero dà a Mara Maryl… Nei film prodotti da Luciano Martino invece la sensualità era richiesta dal produttore che giungeva a far fare tre o quattro docce all’attrice se era bella. Le nudità erano permesse solo sotto la doccia…

In alcune filmografie risulta che avrebbe collaborato, non accreditato, alla sceneggiatura di due film importanti come “La decima vittima” (1965) di Elio Petri e “C’era una volta in America” (1984) di Sergio Leone. Cosa può dirci in merito?
Due storie diversissime. La prima fu l’inizio della mia amicizia con Carlo Ponti e fu divertente perché passai, davanti ai famosi sceneggiatori italiani che avevano scritto la prima versione, per un “grande sceneggiatore americano esperto di science fiction”… Naturalmente dico “passai” nel senso che Carlo mi fece passare per tale senza mai mostrarmi agli italiani. All’inizio, presentato dalla grande organizzatrice dei film di Ponti, Jone Tuzi, che aveva letto e apprezzato moltissimo “La fine dell’eternità”, Carlo mi aveva chiesto di correggere la prima versione dello script che non gli piaceva e di mettere fogli azzurri là dove avessi corretto. Una settimana dopo gli portai un copione azzurro, l’unico foglio bianco era il titolo! A Ponti piacque la mia versione e così diventammo amici e facemmo parecchi film insieme. “C’era una volta in America”, invece, era il seguito di una collaborazione biennale (mattina, pomeriggio, sera) con Sergio Leone. Dopo “Il mio nome è Nessuno” (il maggior incasso western di Leone, diretto però da Valerii) e “The Genius”, uno splendido script rovinato in perfetta malafede da Damiano Damiani, iniziai a lavorare con Sergio al romanzo “A Mano Armata” per trarne un film. Scrissi un trattamento dove non c’era la fregnaccia mostruosa del gangster che diventa senatore facendo ridere il pubblico statunitense. Su questo potete documentarvi leggendo il libro di Christopher Frayling “Something to do with Death” oppure quello di Garofalo, “Tutto il cinema di Sergio Leone” della Baldini e Castoldi. Sergio era un assolutista: pretendeva che io lavorassi solo per lui, e io rifiutai.

 


Gastaldi, lei per Antonio Margheriti ha scritto due horror, “La vergine di Norimberga” del 1963 e “I lunghi capelli della morte” del 1965.

Del primo non ricordo nulla, forse anche qui non scrissi il copione vero e proprio ma solo un soggetto e una scaletta. Mi ricordo del secondo, ma non andai mai sul set. Con Antonio eravamo amici dai tempi de “I Giganti di Roma”, ma di solito non andavo sul set dei film che giravano dalle mie storie.


Un film curioso è “La lama nel corpo” del 1966. Ma è stato diretto da Elio Scardamaglia o da Lionello De Felice?
Lo ha diretto Lionello De Felice ma poi il montaggio venne seguito da Elio Scardamaglia. Erano sorti dei problemi, a Elio non piacevano certe sequenze. Insomma, litigarono un po’.

Nel 1966 esordisce dietro la macchina da presa con “Libido”. Si trattava di un giallo-erotico?
L’ho girato nell’aprile del 1965. Non era un giallo erotico nel senso moderno. Era un gialletto e basta, però con due belle donne in scena. Segnò il debutto di Giancarlo Giannini. Fu un film girato con un budget minimo e che poi usai come tesi di laurea nella facoltà di Economia di Roma, dimostrando che era possibile anche per un’impresa di prototipi com’è il cinema impostare calcoli di redditività preventivi che avessero una base logica.

Con “Il dolce corpo di Deborah” di Romolo Guerrieri, scritto nel 1968, ha inizio il periodo dei thriller e sensuali. Giusto?
Furono i primi gialli italiani di grandissimo successo di pubblico. Ben prima di Argento.

Lei ha scritto tanti gialli, mettendo al centro della narrazione le donne e avendo come motore della vicenda l’indagine. Ama gli investigatori?
Amo la logica degli investigatori. Aborro la gratuità. Risi come un matto nel vedere “L’uccello dalle piume di cristallo”, bel film per altri versi, quando alla fine il protagonista che per tutta la storia ha lamentato di non ricordarsi un dettaglio relativo al tentato omicidio di cui è stato testimone, se ne esce con l’esclamazione “Oooh! Non era lui che cercava di uccidere lei, ma era lei che cercava di uccidere lui”. Allo stesso modo ho insultato Sergio Leone quando ho visto il gangster diventare senatore nel suo ultimo bellissimo film.

E veniamo al suo secondo film come regista, “Cin… cin… cianuro” del 1968. Ce ne può parlare?
Ma sì. Sull’onda del successo commerciale di “Libido” mi sono allargato. Una commedia che avrebbe richiesto già allora 300 milioni di budget, ma girata con 80. Soffre di un montaggio lento, non incalzante.

Nel 1969 ha scritto “Così dolce… così perversa” di Umberto Lenzi, con cui poi ha collaborato anche per alcuni polizieschi-noir come “Milano odia: la polizia non può sparare” del 1974 e “Il cinico, l’infame, il violento” del 1976. Che rapporto ha avuto con lui?
È stato un mio compagno di Centro Sperimentale. Allora era un toscano aperto, divertente, dalla battuta facile. Con il passare del tempo è divenuto nevrastenico e impossibile a trattare. Per fortuna io prima scrivo i copioni e poi i produttori chiamano i registi per girarli.

Un’altra figura leggendaria del cinema italiano è Tomas Milian. L’ha conosciuto?
Sì, era un bel ragazzo con il complesso di essere brutto. Non so perché, voleva sempre recitare personaggi lerci e sporchi. Mi diede un suo soggetto da leggere, “La maga e l’ovo”, dove lui era un barbone che viveva nella merda delle galline.

Sempre nel 1969 ha diretto “La lunga spiaggia fredda”.
Non nel 1969, il film l’ho girato tra febbraio e marzo del 1971. La spiaggia era fredda davvero…

Ernesto Gastaldi, nel 1970 ha inizio il suo lungo sodalizio artistico con Sergio Martino. Il primo film che scrive per lui è il western “Arizona si scatenò e li fece fuori tutti”, che riprende il personaggio di Arizona Colt già protagonista nel 1966 del film omonimo di Michele Lupo. Tra l’altro lei di western ne ha sceneggiati parecchi. Le piaceva il genere?
Conobbi Luciano Martino nel 1957, quando anche faceva lo sceneggiatore. Lavorammo poi insieme per Ugo Guerra dal 1959 al 1963. Poi si fece anticipare 30 milioni dal padre, che era direttore della Banca Commerciale Italia, e iniziò la sua fortunata carriera di produttore. Il primo film glielo scrissi io, era “I Giganti di Roma” diretto da Antonio Margheriti. Era il 1964. Poi vennero i film di spionaggio. Il primo, nel 1965, fu “Le Spie Uccidono a Beirut”. Poi “Sfida ai killer”, “Duello nel Mondo”, “Flashman” e “Furia a Marrakech”. Il primo western per Martino mi pare che fu “10mila dollari per un massacro”, del 1967. Il genere western mi divertiva. Una favola per adulti con tutti i sentimenti umani in bella mostra, senza troppe sfumature.

Nel 1970 ha scritto “Le foto proibite di una signora per bene” del produttore-regista Luciano Ercoli. Ci può raccontare di cosa si trattava?
Sì, era un copione che avrei dovuto girare io con mia moglie come protagonista, ma Ercoli e Pugliese avevano urgenza di iniziare un film perché attraversavano un brutto periodo finanziario e una nuova produzione li avrebbe aiutati. Il copione si chiamava “Venere più’”. Lo lessero, lo vollero e lo girarono in un mese. Gli risolse la situazione con un ottimo incasso.


“La coda dello scorpione” è il primo thriller scritto per Sergio Martino, e allo stesso anno appartengono “Lo strano vizio della signora Wardh” dello stesso Martino e “La morte cammina con i tacchi alti” di Ercoli.
Il 1971 fu una buona annata. In giro per il pianeta ci sono diverse persone che ancora li considerano belli… soprattutto (unbelievable!) in Usa!


“Tutti i colori del buio” (1972) all’inizio sembra un film soprannaturale, poi prende una piega gialla e “umana”. La capacità di far procedere la storia mantenendo una certa ambiguità è una delle sue grandi qualità. Sbaglio?
È un film con maggiori pretese degli altri. Mi ricordo che alla prima mi lasciò perplesso. Belle sequenze, ma non mi parve riuscito.

Uno dei miei film preferiti è “Perché quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer?” (1972). Non solo per la sua sceneggiatura, piena di idee, ma anche perché mi sembra che Giuliano Carnimeo abbia fatto un ottimo lavoro. È d’accordo?
Ricordo che il film mi piacque e feci i complimenti a Giuliano, ma non ho più rivisto il film da allora! Bisogna che uno di questi giorni trovi il tempo per ridare un’occhiata a questi gialletti…

L’attrice simbolo di quel periodo, e di quella cinematografia, è senza dubbio Edwige Fenech. Avendo scritto molti film interpretati dalla Fenech, immagino che avrà avuto modo di conoscerla.
Certo: buongiorno e buonasera. Non abbiamo mai familiarizzato, anche se per tanti anni è stata la convivente del mio amico Luciano Martino.

Nel 1973 esordisce nel poliziottesco con “Milano trema: la polizia vuole giustizia” di Sergio Martino. Che rapporto ha avuto con questo genere, allora molto in voga e oggi rivalutato?
Questo film mi piacque molto. Prima e migliore regia di Sergio Martino, a mio modesto parere. Copione nato in piena libertà. Luciano mi disse di scrivere una storia di azione. Ne venne fuori un film molto politico (si era negli anni della contestazione giovanile), ma Lombardo (Titanus), che doveva distribuirlo, si spaventò e mi chiese di annacquare un po’ questo lato della storia. Obbedii ma Lombardo si tirò indietro lo stesso. Martino decise di produrlo a suo rischio e pericolo e mi chiese di rinunciare alla paga in cambio di una percentuale sugli incassi. Accettai, e Martino ancora si rammarica… furono incassi strepitosi per l’epoca!


Ancora al 1973 appartiene un’altra delle sceneggiature scritte per Martino: “I corpi presentano tracce di violenza carnale”.
Anche questo film l’ho rivisto. Me ne ha mandato una copia un giornalista di Chicago, pare abbiano fatto un Dvd. È diventato un film cult, eppure lo trovo sciatto e mal recitato: solo la sequenza finale è valida.

Due film che non conosco sono “La pupa del gangster” di Capitani e “L’uomo senza memoria” di Tessari, entrambi del 1974.
“La pupa del gangster” è tratto da un racconto americano. Una commedia. L’avevo scritta per Monica Vitti, ma Sofia lo lesse e se ne innamorò. Lo volle fare lei e lo soffiò all’incazzatissima Vitti. Così lo produsse Carlo Ponti. Un film divertente con un buon Mastroianni e un Maccione scatenato. Regia di Duccio Tessari, “L’uomo senza memoria”… bah, sono senza memoria anch’io! Credo di aver scritto solo un trattamento. Duccio era uno che cambiava molto i copioni.


Tra il 1974 e il 1975 per Sergio Martino scrive “La città gioca d’azzardo” e “Morte sospetta di una minorenne”. Il primo è un nero, il secondo un poliziesco-thriller. Entrambi sono violenti e movimentati, ma hanno anche dei risvolti umoristici. Era una scelta sua o di Martino?
Mia. Mi sono sempre divertito a infilare piccoli risvolti divertenti un po’ in tutte le storie. Mi piace ricordare nel primo film di Sergio Martino personaggi come Munsù Merda. Quando scrivevo “Concorde affaire”, Luciano Martino mi continuava a dire che l’intreccio era troppo complicato e che il pubblico avrebbe faticato a seguire, allora aggiunsi una scena in cui c’era un dirigente che chiamai Martinez, a cui spiegavo i risvolti dell’intreccio concludendo: “Ma, insomma, Martinez, tu non capisci mai un cazzo…”. Ci ridiamo ancora sopra.

Ernesto Gastaldi, in “Morte sospetta di una minorenne” ci sono riferimenti al terrorismo e ai poteri forti. In effetti quei film riuscivano a raccontare storie terribili e di cronaca insieme al clima politico e sociale di quegli anni, rimanendo prodotti estremamente spettacolari e avvincenti.
Sì, ci ho sempre provato.

Nel 1975 ha scritto un film per Vittorio Salerno, “Fango bollente”, che non conosco. Di cosa si tratta?
Vittorio aveva ancora aspirazioni artistiche. Così gli scrissi un film sociologico che si intitolava “I primi tre cominciano a mordere”, prendendo lo spunto dall’affollamento delle nostre metropoli che spinge alla violenza. Il film non è male, peccato che quel somaro di Lombardo gli abbia messo un titolo “infangante”…

Sempre al 1975 risale la sua unica collaborazione con un regista molto particolare, uno dei più personali e controversi del nostro cinema, Fernando Di Leo. Per lui ha sceneggiato “La città è sconvolta: caccia spietata ai rapitori”.
Nessuna collaborazione. Io ho scritto il copione, lui l’ha diretto. Non ci siamo mai incontrati. Quando in Italia esisteva il cinema si giravano circa 300 film all’anno, ossia partiva un film ogni giorno. Non c’era tanto tempo per le discussioni.

L’idea di “Il fiume del grande caimano”, diretto nel 1979 da Sergio Martino, è stata sua? C’entra qualcosa il fatto che un anno prima aveva riscosso un buon successo “Piraña” di Joe Dante?
No, l’idea fu di Sergio o di Luciano, non ricordo. È probabile che i successi di film similari li abbiano ispirati. Succedeva con allarmante frequenza.

Cosa ci può dire di “Concorde affaire ‘79” di Ruggero Deodato?
Quasi niente. Per ottenere il permesso di girare sul Concorde dovemmo convincere la British Airlines. Loro sostenevano che non c’era possibilità di sabotaggio: io gli spiegai il mio “piano” e dovettero convenire che… ehm, sì, era possibile… Poi per un’errata traduzione di una descrizione del Concorde in picchiata, in cui dicevo che il naso dell’aereo diventava rosso incandescente, la British mi fece notare che nelle picchiate non c’era nessun motivo per cui il naso del pilota si arrossasse. Alla fine ci diedero l’aereo, ma pretesero che Van Johnson chiudesse il film dicendo
“Grazie Concorde…”.

Verso la fine degli anni settanta ha scritto anche due film comici: “Mi faccio la barca” di Sergio Corbucci e “Il ficcanaso” del fratello Bruno. Quest’ultimo aveva una trama quasi gialla, se non sbaglio.
“Mi faccio la barca” lo adattai, su richiesta di Luciano Salce, dal mio libro autobiografico “I Quaranta Belanti”, disavventure di un alpino in barca a vela. Salce scelse Dorelli come protagonista, per lui era un brutto periodo perché si era lasciato con la Spaak. Lo coccolammo per un paio di mesi e alla fine Dorelli disse al produttore che non avrebbe girato il film con Salce perché era un vecchio spompato e che inoltre il protagonista non era lui ma la barca… Io gli sussurrai che avremmo potuto cambiare il titolo e, invece di “Mi faccio la barca”, chiamarlo “Mi faccio Dorelli”. Non apprezzò. Ne nacque una lunga controversia e alla fine il film lo fece Corbucci, ma di mio rimase solo il primo tempo. De “Il ficcanaso” non ricordo molto. Forse era un testo scritto con Aldo Florio per il teatro di Pippo Franco.

Nel 1981 ha diretto il quarto film, “Notturno con grida”, un horror puro. In genere si trova bene dietro la macchina da presa o preferisce scrivere?
Meglio scrivere, il cinema è un mestiere da zingari. “Notturno con grida” fu una specie di gioco, il seguito di “Libido” quindici anni dopo. Dominique Boschero non volle tornare a Roma dal Piemonte dove allevava pecore e Giancarlo Giannini era diventato troppo importante. Ripiegai su Amato, il fratello di Placido e su Martine Brochard. Pigozzi e Mara invece erano gli stessi di “Libido”.

L’anno successivo ha scritto un film dell’orrore per la tv, cosa alquanto curiosa. Anche “Assassinio al cimitero etrusco” di Martino risolve le forti tinte sovrannaturali e parapsicologiche in un intreccio da film d’azione…
Film d’orrore per la tv? Quale? “Assassinio al cimitero etrusco” è ciò che rimane di una serie tv di sei episodi da un’ora l’uno, prodotti da Luciano Martino e interpretati da sua moglie Wandisa Guida, una bellissima mia compagna di centro sperimentale. Bellissima ma negata alla recitazione. Qualcosa andò storto.


Gastaldi, nel 1983 è la volta di un film post-apocalittico, nato suppongo sulla scia del film di Carpenter “Fuga da New York”. Come si è trovato alle prese con la fantascienza di “2019 dopo la caduta di New York”, sempre di Martino? È un’esperienza che avete ripetuto nel 1985 con “Vendetta dal futuro”. Le piace la fantascienza?

Se mi piace la fantascienza? Accidenti, ho speso dieci anni inutilmente cercando di convincere Ponti, Lombardo, Martino, Pugliese, Rizzoli a fare film di fantascienza. Cercavo di far capire che non intendevo astronavi, ma viaggi nel tempo! Ho scritto storie su storie: niente. Tra l’altro uno dei miei primi romanzi, dopo due o tre gialletti da edicola, fu “Iperbole cosmica” (diventata “Iperbole infinita” per ignoranza mondadoriana) pubblicato da Urania. Poi scrissi “Tempo zero” per Cosmo, poi qualche racconto di SF per Oltre il cielo. Ancora per Urania Mondadori un romanzo a puntate intitolato “Una storia da non credere” e, infine, alcuni dei racconti di SF che avevo scritto per il cinema vennero tradotti in inglese dal grande Harry Harrison e pubblicati in Usa su Fantasy & SF. La fantascienza è stata la mia passione giovanile. E mi ha fatto un po’ di rabbia vedere tanti anni dopo Lucas e Spielberg realizzare quelle storie così simili alle mie, con i mezzi Usa, of course!

Gastaldi, “La fine dell’eternità” è un film che ha diretto nel 1984. Come mai ha sempre lasciato trascorrere parecchi anni tra una regia e l’altra?
Ero molto impegnato a scrivere e non mi piace particolarmente fare il regista. Questo film fu una razione al fisco italiano che mi voleva far pagare centinaia di milioni perché aveva scoperto che avevo una barca a vela. Comprai una telecamera e girai un articolo 28 in casa e su tape. La storia è tratta da una mia commedia mai rappresentata.

Nel 1985 ha scritto il film “L’assassino è ancora tra noi” di Camillo Teti, che all’epoca, se non ricordo male, scatenò un vespaio di polemiche perché raccontava gli omicidi del mostro di Firenze. Come si è trovato a trattare una materia tanto scottante?
Mi chiamò Carnimeo. Il produttore era il figlio dell’amministratore della Rafran, la società di Sergio Leone. Poi scoprii che tanto il padre era rigido, tanto il figlio era, come dire, lasco… Per la storia non ebbi problemi, lessi tutto quello che c’era da leggere e poi scrissi una mia teoria che forse ha ancora una sua validità.

“Stradivari”, del 1988, è un film per la televisione. La regia è attribuita a Giacomo Battiato, ma in una filmografia ho trovato il nome di Vittorio Salerno. Sono sempre molto affascinanti questi “misteri” sulle regie vere e presunte. Cosa ci può dire?
Storia lunghissima. Vittorio Salerno va a Cremona per conto della Rai a girare un documentario su Stradivari. Il sindaco lo invita a pensare a un film vero e proprio e si dice disposto a pagare lui una brochure di lancio. Vittorio mi telefona a New York dov’ero per lavoro e poiché ero il presidente della Wellcome Film, una nostra cooperativa, voleva sapere che dovesse fare. Lo esortai ad accettare. Tornato in Italia scoprii che su Stradivari non si sapeva nulla prima che apparisse ventenne al suo matrimonio con una vedova. Il maestro Accardo, proprietario di due violini Stradivari, fece una seduta spiritica e la voce del medium che pretendeva di essere Stradivari gli disse che era un ebreo, che si chiamava Piacenza e di essersi chiamato Stradivari in memoria del padre falsamente accusato di corruzione e che era famoso come “Strad’ivert”. Scrissi il copione ispirato in pochissimi giorni e quando Vittorio, che aspirava a dirigere il film, mi chiese chi vedessi nel ruolo del grande costruttore di violini, io gli risposi che per tutto il tempo della scrittura la faccia di Stradivari era stata quella di Anthony Quinn. Per quelle combinazioni buffe della vita, Tony era a Roma. Gli facemmo avere il copione e due giorni dopo mi telefonò con la sua bella vociona, senza presentarsi, mi annunciò semplicemente che quello era il terzo più bel copione che gli era capitato di leggere in tutta la sua vita. Io pensai che forse il primo era “Zorba il greco” e il secondo “La strada”. Così mi “trovai terzo tra cotanto senno”. Ebbi quasi un orgasmo. A quel punto si scatenò la corsa dei produttori che volevano fare il film con i soldi di Berlusconi (allora solo imprenditore televisivo). Ne nacque una specie di asta. Alla fine il copione se lo aggiudicò Achille Manzotti per la Be.Ma. Strapagandolo, naturalmente. Però Manzotti, pur avendo accettato e firmato per la regia di Salerno, per strani motivi non voleva fare il film con lui e d’accordo con Quinn armarono un teatrino per simulare una rottura tra Quinn stesso e Vittorio. Teatrino che io mandai in frantumi irrompendo di notte nella villa di Tony ai Castelli. Ma lo stesso alla fine Vittorio dovette cedere e in cambio ebbe una ulteriore grossa somma e la regia passò a Battiato. Vittorio riprese a bere per il dolore e io cercavo d farlo ridere dicendo che aveva scoperto il mestiere lucrosissimo del non-regista… Poi Manzotti mi chiamò e mi disse che dovevo tagliare il copione perché i soldi per farlo erano vistosamente calati a causa di tangenti miliardarie che doveva pagare. Indignato, nella mia ingenuità cercai di parlare con Berlusconi. I
nsieme all’amico Pizzi che era stato direttore delle pr della Fox, da Gianni Letta, allora direttore del quotidiano Il Tempo. Gli annunciai che turpi individui stavano derubando Berlusconi e che volevo farglielo sapere. Letta, impomatato e gentile, mi disse che Berlusconi sapeva. Io e Pizzi restammo di sasso: come sarebbe a dire che sapeva? Letta sospirò e aggiunse che non poteva dare spiegazioni ma potevamo andare in pace: Berlusconi sapeva. Era vero e il perché lo capii molto tempo dopo e non fa parte di questa storia.

L’ultimo film scritto per Sergio Martino è “Casablanca Express”, un mix di azione e avventura.
Sì. Il cinema, come industria, stava già finendo, ucciso dalle tv berlusconiane che passavano venti film a settimana pagati cinque milioni di lire l’uno e incassandoci sopra miliardi in pubblicità, mentre alcuni autori e attori di quei film morivano in miseria.

Nel 1992 ha diretto “L’uovo del cuculo”. Cosa ci può dire di questo film?
Lo feci per aiutare un amico, Walter Brandi, che aveva problemi economici. Un articolo 28, ambientato a Sarajevo ma girato in Romania perché nel frattempo in Jugoslavia era esplosa la guerra.

Antonio Bonifacio l’ha chiamata nel 1995 per scrivere “La strana storia di Olga O.”. Ha avuto problemi a collaborare con un regista di una generazione diversa?
Non abbiamo collaborato. Il film è passato da un produttore esecutivo a un altro, mentre ogni volta il budget si riduceva. Bonifacio mi fece leggere la sua versione del mio copione, era quasi irriconoscibile e decidemmo di comune accordo che avrei firmato solo il soggetto.


“Crimine contro crimine”, diretto nel 1998 da Aldo Florio, è un film che non conosco. Si tratta di un giallo?
Si tratta di un film sulla corruzione. Finito, bello, ma rimasto fermo per strane burocrazie tra ministero e Bnl.

Gastaldi, oltre che sceneggiatore e regista, come ha detto lei è anche autore di romanzi. Ce ne può parlare? Scrivere romanzi non è anche un modo per preservare o sviluppare idee che il cinema ha rovinato o rifiutato?
Raramente. Io volevo fare il romanziere, il cinema doveva essere solo un modo per iniziare. Invece quando il cinema ha cominciato a tirare sono stato travolto: i pochi romanzi li ho scritti prima di cominciare a fare lo sceneggiatore, tranne le due autobiografie, una nautica intitolata “I quaranta belanti”, e l’altra sulla mia “carriera” cinematografica che avevo intitolato “Come entrare nel cinema e restarci fino alla fine” e nella follia mondadoriana è diventato “Voglio entrare nel cinema – Storia di uno che ce l’ha fatta”.

Cosa pensa della situazione del cinema italiano e del fatto che il cinema di genere ormai non sembra interessare più a nessuno?
Il cinema di genere è la spina dorsale dell’industria, Hollywood lo insegna. La fine del cinema di genere è semplicemente la morte dell’industria. Producendo 300 film all’anno, 50 sono buoni e 5 eccezionali. Prima di girarli nessuno sa quali. Bisogna avere una buona produzione quantitativa per trovare anche la qualità. Ormai le soap televisive hanno soppiantato quei passaggi di seconde e terze visioni che incontravano il portafoglio e il gusto popolare. Devo dire in peggio, di solito.

Ci sono registi o sceneggiatori che apprezza, o ha apprezzato particolarmente?
Tra quelli con cui ho lavorato elencherei Mario Camerini, Sergio Martino, Tonino Valerii, Aldo Florio e ovviamente Sergio Leone. Grandissimi sceneggiatori erano Age e Scarpelli, bravissimi Ugo Guerra e Rodolfo Sonego, bravi Benvenuti e DeBernardi.

Ernesto Gastaldi, non posso che concludere con questa domanda: a lei piacerebbe ancora scrivere un film dell’orrore?
Ho scritto due gialli per la Blu Cinematografica di Ferrero che dovevano segnare l’esordio alla regia dell’aiuto di Dario Argento, Alessandro Ingargiola, con la coproduzione di Rai Cinema. Uno sconvolgimento politico ha bloccato tutto. Uno dei due gialli contiene un po’ di horror, si intitola “La gelida fiamma della paura”. Il secondo invece si chiama “Cu2O”, più classico. Ma per Sergio Martino ho scritto “The Wood”, questo è un puro horror… bisogna vedere se riescono a produrlo. Luciano Martino pensa di presentarlo con nomi americani, come usava negli anni sessanta.

 

1 commento

  1. molto interessante,certo che abbiamo perso un capitale umano molto importante

Scrivi un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.I campi obbligatori sono evidenziati con *

Dichiaro di aver letto l'Informativa Privacy resa ai sensi del D.lgs 196/2003 e del GDPR 679/2016 e acconsento al trattamento dei miei dati personali per le finalità espresse nella stessa e di avere almeno 16 anni. Tutti i dati saranno trattati con riservatezza e non divulgati a terzi. Potrò revocare il mio consenso in qualsiasi momento, integralmente o parzialmente, con effetto futuro, ed esercitare i miei diritti mediante notifica a info@giornalepop.it

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>

*