JIMMY DYKES, IL RAMBO CATTIVO

JIMMY DYKES, IL RAMBO CATTIVO

L’assedio delle forze di polizia al bunker del sequestratore dura da sette giorni. La situazione precipita alle 15.12 di lunedì 4 febbraio 2013, quando Jimmy Dykes, il 65enne circondato dagli agenti, prende la pistola e la punta verso Ethan, il bambino che ha rapito.
Temendo che stia per uccidere il piccolo, le teste di cuoio dell’Fbi si lanciano all’assalto che hanno meticolosamente preparato. Il blitz dovrà durare una manciata di secondi, non di più. Attraverso un grosso tubo che collega l’esterno con il bunker, fanno esplodere due “flash bang”, i dispositivi che provocano lampi accecanti.
Il rapitore rimane stordito, barcolla. Una carica esplosiva fa saltare la porta blindata del bunker e i primi uomini del commando irrompono mettendo in salvo il bambino: attraverso una telecamera introdotta segretamente alcuni giorni prima, sapevano esattamente in che punto si trovasse. Altre teste di cuoio puntano invece su Dykes, uccidendolo durante un breve scontro a fuoco.
Finisce così in modo cruento, ma con un lieto fine, una vicenda che stava tenendo con il fiato sospeso milioni di americani.

Nato in Alabama nel 1947, Jimmy Dykes ha combattuto nella guerra del Vietnam dal 1964 al 1969. Facendosi onore, come dimostra la decorazione al valor militare che gli è stata assegnata. Una volta congedato trova lavoro come camionista in Florida, ma lentamente si trasforma in un asociale. Rientrare nella società dopo aver passato il tempo a sparare al nemico non è sempre facile, in particolare quando si è combattuto una guerra persa e considerata da molti un inutile bagno di sangue.

Il veterano disadattato del Vietnam rappresenta una figura tipica in America, tanto da aver ispirato la creazione di Rambo, il personaggio portato sullo schermo da Sylvester Stallone. Nella sua confusione mentale, Jimmy Dykes si convince che sta per scoppiare una guerra nucleare organizzata segretamente dal governo di Washington. Dice in giro che bisogna combattere uno Stato ormai diventato “socialista”, un’espressione che per lui equivale a dittatura comunista.

In America i tipi come Jimmy Dykes vengono chiamati “survivalisti”, un’espressione che potremmo tradurre in “coloro che vogliono sopravvivere”. Negli Stati Uniti esistono 1274 gruppi di survivalisti, senza contare i cani sciolti come Dykes. Sono uniti dalla convinzione che il governo stia tramando ai danni dei cittadini e si preparano ad affrontare il peggio perché, pensano, solo i più forti e organizzati potranno sopravvivere all’olocausto finale. Per questo vanno spesso ad allenarsi nelle foreste praticando sport estremi. Ritengono di essere gli unici a credere ancora nei sani valori di una volta, in una società ormai moralmente degenerata.

Nel 2012, ormai in pensione, Jmmy Dykes compra un camper e lascia la Florida per fermarsi a Midland City, un paesino della natia Alabama, il Sud povero degli Stati Uniti. Con soli 500 dollari acquista un pugno di terra in una zona desolata accanto a una strada sterrata. Inizia subito a scavare nella sua proprietà e a chi gli chiede cosa stia facendo risponde che costruisce un rifugio contro gli uragani, anche se in realtà ha in mente un bunker antiatomico.

Le dimensioni della “fortezza” sono solo di un metro e ottanta per due e quaranta, ma la dota di ogni comfort: tivù, radio, frigorifero e riscaldamento. Più scatolame, cibo secco e bottiglie d’acqua per sopravvivere almeno un mese. Intorno al bunker mette cartelli con scritto “proprietà privata” per tenere lontani i curiosi. All’interno conserva anche un pacco di lettere di protesta che negli anni aveva inviato al Presidente degli Stati Uniti e a un presunto capo della mafia. Nelle missive, il survivalista si lamenta dei controlli del governo che, secondo lui, arrivano fino alle piste delle corse dei cani.

A proposito di cani, Jimmy Dikes alla fine del 2012 massacra quello dei vicini con un tubo di piombo, perché aveva l’abitudine di avvicinarsi troppo a lui. Uccidere gli animali, spiegano gli psichiatri, è un comportamento tipico dei potenziali killer. La polizia lo ferma ogni tanto per possesso di marijuana e un paio di volte lo arresta per minacce a mano armata, dato che in America anche i pazzoidi hanno il diritto di girare con la pistola.

Ormai si sente circondato da uomini del governo che lo perseguitano. Per questo vive sempre meno nel caravan, preferendo nascondersi nel bunker, che attrezza per renderlo inespugnabile. Piazza, per esempio, due potenti ordigni esplosivi attivabili dall’interno. Mette anche un grosso tubo di plastica largo 8 centimetri e lungo 23 metri che, partendo dal bunker, passa sotto un container usato come magazzino e il caravan, per sbucare nel muretto che dà sulla strada. Attraverso il tubo, Dykes spera di riuscire a captare i rumori e le voci degli agenti governativi che tra non molto, ne è sicuro, verranno a cercarlo. «Ma non mi prenderanno vivo», assicura a uno dei suoi vicini che lo ascolta senza ribattere perché conosce bene le sue fiammate di aggressività.

Sì, il paranoico 65ennne si sente sempre più circondato. Per esempio, è convinto che lo scuolabus che ogni giorno passa lì vicino, fermandosi per raccogliere i bambini dell’asilo e delle elementari, sia mandato dal governo per controllare i cittadini della zona e lui in particolare. Nella sua mente malata, l’autista del pulmino diventa una pericola spia “socialista”.

Finché, un giorno, decide di andare all’attacco. Quando lo scuolabus si ferma alla solita fermata, la mattina del 29 gennaio 2013, Jimmy Dykes salta a bordo puntando la pistola verso Charles Poland, l’autista. Poland guarda con attenzione quest’uomo stralunato alto un metro e settanta, emaciato e dal viso incorniciato da una barba grigia, poi lo invita gentilmente a scendere. Ma il folle, sempre puntando l’arma, gli intima di consegnargli come ostaggi un bambino di sei anni e un altro di otto.

Deciso a proteggere con ogni mezzo i piccoli che gli sono stati affidati, l’autista si alza bloccandogli l’accesso e gridando ai bambini di scappare dall’uscita di sicurezza sul retro del bus. In questo modo, 21 di loro si mettono in salvo. L’autista potrebbe cercare di svignarsela anche lui, ma rimane eroicamente al suo posto facendo da scudo umano.

Per toglierselo di mezzo, Jimmy Dykes lo uccide con quattro colpi di pistola. Facendosi avanti, si accorge che a bordo è rimasto solo un piccolo dall’aria fragile e confusa. Si tratta di Ethan, un bambino di neanche sei anni affetto della sindrome di Asperger, un disturbo simile all’autismo che comporta mancanza di attenzione e iperattivismo. Per non stare male, Ethan ha sempre bisogno di farmaci e dell’affetto di persone amiche.

L’assassino lo prende rudemente per un braccio e lo trascina nel bunker. Forse si è buttato in questa azione clamorosa per richiamare i giornalisti e diffondere attraverso di loro le sue idee deliranti. Oppure teme la convocazione al tribunale, che gli è appena arrivata dopo le continue lamentele dei vicini. Magari stavolta, pensa, il maledetto governo lo avrebbe chiuso in prigione per sempre.

Lo sceriffo del paese accorre sul posto avvertito dai bambini fuggiti. Chiuso nel bunker, Jimmy Dykes comunica con lui attraverso il lungo tubo che dà sulla strada. Intanto arrivano anche gli uomini dell’unità d’assalto dell’Fbi, l’Hostage rescue team (Hrt), che decidono di utilizzare fino in fondo il tubo. Attraverso di esso, in accordo con il rapitore, mandano i farmaci necessari al bambino insieme a un quaderno e i pastelli colorati per fargli passare il tempo. Poi pacchetti di patatine e una macchinina rossa.

Durante la prima notte d’assedio, quando presumibilmente il rapitore sta dormendo, sempre dal tubo introducono nel bunker una microtelecamera robotica per tenere sotto osservazione il rapitore. Almeno questo asseriscono voci ufficiose, anche se una microtelecamera avrebbe potuto essere camuffata anche all’interno della macchinina. Comunque sia, dall’esterno possono costantemente controllare che a Ethan non venga fatto alcun male.

Poco distante viene costruito un bunker identico a quello del rapitore, dove gli uomini della squadra d’assalto iniziano ad allenarsi nei suoi spazi angusti perché quando arriverà “l’ora X” dovranno agire con la massima velocità e precisione. Passano i giorni, durante i quali tutti i televisori americani sono sintonizzati su quello che accade nella piccola cittadina dell’Alabama.

Fino a quel momento il tema principale dei telegiornali era la discussione in parlamento sulla proposta del presidente Obama di limitare la vendita delle armi, ora la notizia è un effetto pratico di questa disponibilità indiscriminata. La gente di Midland City, nota per la sua religiosità, si riunisce in preghiera nelle case e va in chiesa due volte al giorno, invocando l’intervento del Signore, mentre gli agenti della Hrt cercano di far ragionare il rapitore. «Impossibile dialogare con lui», spiega però alla stampa il loro portavoce, «ripete sempre le stesse frasi farneticanti».

Una cosa è certa, Jimmy Dykes vuole parlare con i mass media. Gli agenti non rispondono né sì né no, prendono tempo in attesa del momento favorevole per agire. Tra gli uomini del Hrt ci sono psicologi capaci di decifrare la personalità di ogni sequestratore e usare il dialogo per guadagnare tempo. Il tempo è sempre un fattore importante, per organizzarsi nel migliore dei modi.

D’altra parte, gli agenti sanno bene che non sarà facile stanare Dykes dal bunker, dove ha grandi scorte di cibo. Il rapitore è sicuramente pronto a tutto, perché, nello stato dell’Alabama, uccidendo l’autista ha firmato la propria condanna a morte. Per fortuna, Ethan continua a stare bene. Anche se ogni tanto dice «voglio la mia mamma», poi si calma guardando i cartoni animati alla televisione.

«Si sono mossi a colpo sicuro, è stato un blitz perfetto», commenta il cronista della Cnn, quando alla fine è partito l’attacco. Rimangono alcuni particolari oscuri, dato che l’Fbi vuole mantenere segreti i propri metodi e le proprie tecnologie più avanzate per poterli utilizzare in eventuali altre operazioni. Quello che più importa è che Ethan sia al sicuro nell’elicottero che lo trasporta all’ospedale per accertamenti.

«Sta bene», spiega il pediatra che lo visita poco dopo, «ride, mangia e gioca. Apparentemente non sembra soffrire di nessun trauma». L’indomani potrà festeggiare il suo sesto compleanno insieme ai genitori. Durante la settimana di prigionia, come gesto beneaugurante, molti semplici cittadini gli hanno già inviato le cartoline di auguri.  


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