I VIDEOGIOCHI PIÙ DIFFICILI DI SEMPRE

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“Demon/Dark/Peppe Souls videogioco più difficile di sempre foreva end eva!!11!!1”.
Parliamoci chiaro: quante volte, negli ultimi dieci anni o giù di lì, ‘sta cosa è venuta fuori? Un sacco, eh? Peccato che non è così. O meglio: anche senza risalire al pleistocene, la storia dei videogiochi è costellata di robe in grado di rasentare il limite dell’esasperazione umana. 

Che sia perché programmati con il culo da una scimmia con due chiappe sinistre o perché gli sviluppatori, bastardi dentro, tiravano giù sfide totalmente sleali nei confronti dei giocatori, la cosa non cambia: di videogiochi veramente barbari e disumani nel midollo ce ne sono a pacchi e la serie di FromSoftware è solo l’ultima delle tante di una lunga stirpe.
Dai, vogliamo vederne qualcuno?

Marble Madness (Atari Games – 1984)

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Iniziamo da un grande classico della frustrazione: Marble Madness. Infame giochino platform sviluppato da Atari oltre trent’anni fa. In sostanza, si tratta di quel tipo di gioco molto semplice concettualmente, ma che all’atto pratico di metterci la mano si trasforma in un incubo di soffocante rabbia. Come detto, la premessa è semplice: il giocatore controlla una biglia in una serie di labirinti da cui si dovrà uscire; senza ovviamente cadere dai bordi, eh. Non dimentichiamocelo.

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Naturalmente di livello in livello le cose si fanno sempre più difficili, più complicate, più bastarde: superfici di ghiaccio, rampe sottilissime, botole, trappole e via dicendo. Come se non bastasse, come se il gioco fosse troppo semplice, oltre i nemici e tutte le varie infamie, pensi che almeno un attimo di tempo per pensare ce l’hai? No. Assolutamente no. Ogni livello ha un tempo (brevissimo) massimo, che allo scadere decreta il game over. 

Alla fine della fiera, Marble Madness è un gioco difficile, sì, spesso sleale, certamente; ma decisamente infognante nonostante gli anni. Infatti, tuttora la stessa identica formula viene replicata in molti labyrinth game.

Ghosts ‘n Goblins (Capcom -1985)

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Come non continuare da quella che è la più evidente fonte d’ispirazione per il gioco di From Software? Quel Ghosts ‘n Goblins che se tu sei stato ragazzino e ci hai messo mano negli anni ottanta non puoi dire che non ti ha fatto salire la pressione a mille facendoti ululare come un licantropo con le emorroidi per la rabbia.

Allora avevamo il prode Sir Arthur che tra pericoli, mostri, fantasmi e demoni, in un mondo corrotto dal maligno doveva correre a salvare la sua bella principessa, rapita proprio dal diavolo. Il 90% dei giocatori, indipendentemente dall’età, non andava oltre il primo livello. Questo succedeva perché ad Arthur bastavano due colpi per essere seccato: uno lo spogliava dell’armatura lasciandolo in mutande e il secondo lo asfaltava direttamente. 

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I nemici a schermo arrivati a un certo punto attaccavano da ogni dove; poi trappole, finti bonus e/o power up che si rivelavano nemici e così via. Check point, seee… sognateli proprio e massimo tre continue, dopodiché via che riparti dall’inizio. Beffa finale, quando tu stavi lì, con gli spasmi e lo sclero negli occhi, convinto (ammesso e non concesso) di aver finito il gioco, bam! Ecco la mazzata: il boss finale era un fake. 

A meno che non aver trovato determinati oggetti e fatto alcuni passaggi nel gioco, non potevi sbloccare gli ultimi due livelli e affrontare il vero boss. Che tra l’altro, nonostante tutto, per affrontarlo bisognava ricominciare il gioco, che, attenzione, ripartiva con un livello di difficoltà ancora maggiore. Morale della favola? Un prodotto pensato e sviluppato dal demonio per farti impazzire.

Contra (Konami – 1987)

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Uno dei più famosi shoot ‘em up a scorrimento laterale di sempre. Un gioco che chiunque l’abbia terminato ancora va in giro a vantarsi trenta e passa anni dopo. Comunque, Contra fu uno dei grandi successi di Konami degli anni ottanta: vedeva protagonisti due soldati che da soli dovevano fermare un’invasione aliena. Aperta e chiusa parentesi: i protagonisti nelle versioni del gioco rilasciate per i vari mercati erano “diversi”.

Tipo che nell’originale rilasciato sul mercato asiatico la storia del gioco era ambientata nel futuro (nell’anno 2631 per essere precisi) e i protagonisti si chiamavano Bill Rizer e Lance Bean. Nella versione per il mercato nordamericano la storia era più o meno uguale, tranne per il fatto che era ambientata nel XX° secolo e i due protagonisti avevano il nome da film d’azione tamarro di serie Z: Mad Dog e Scorpion. 

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Nella versione europea, e vai a capire perché, la storia cambiava leggermente: i due non erano più soldati umani ma cyborg e si chiamavano RD-008 e RC-011. Benissimo. Al di là di questo, il gioco ti vedeva avanzare in un inferno di proiettili e nemici via via sempre più maniacali, erano così difficili che uno, pure animato da buone intenzioni, sì…

… con una barra della vita a dir poco ridicola spalmata su di una miserabile manciata di continue a disposizione doveva rifare tutto daccapo. A un certo punto, il desiderio di tirare il pad nello schermo era l’unico istinto che ti rimaneva.

Mega Man (Capcom – 1987)

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Mega Man è uno dei videogiochi più popolari di sempre (seppur sempre più discutibile e zoppicante di anno in anno), talmente popolare da essere arrivato fino a oggi. Cioè, roba del tipo che l’ultimo gioco della serie è uscito nel 2008/09 (?) per Playstation 3 e Xbox 360. In virtù di questo concentriamoci sul fatto che molti, soprattutto se nati nella seconda metà degli anni novanta, difficilmente hanno potuto apprezzare la deliziosa frustrazione data dal primo storico capitolo.

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Per capirci: tipo Contra, no? Il trend del periodo era prendere per la manina i giocatori e portarli a fare un bel giro all’inferno tra sezioni platform infami, come essere svegliati con un calcio in bocca, e nemici a ogni dove che quando eri lì lì per passare un livello, un proiettile infame ti seccava a tradimento. A questo punto l’unica reazione moralmente accettabile era quella di sputare contro lo schermo.

Ergo, Mega Man era l’ennesimo gioco che dopo un quantità spropositata di game over ti faceva solo venir voglia di strangolarti con il filo del pad. Altro che giocare, insomma.

Ys I: Ancient Ys Vanished (Nihon Falcom – 1987)



Dunque, qua c’è una piccola precisazione da fare: Ys (pubblicato anche come Ys: The Vanish Omens o The Ancient Land of Ys) è solo il primo di una saga cominciata nel 1987, quasi in parallelo con Final Fantasy, che ancora oggi va avanti a tutta forza. Per il semplice fatto che Ys è uno dei primi, se non proprio il primo gdr, a enfatizzare la parte narrativa rispetto a quella ludica. 



Inoltre, dalla sua aveva il non trascurabile dettaglio di un battle system estremamente atipico: non solo il protagonista attaccava automaticamente i nemici verso cui si muoveva, ma era proprio il lato da cui si sferrava l’attacco a determinare il colpo. Per esempio, se si attaccava un nemico frontalmente, si subiva danno, mentre dietro o ai lati questo non succedeva. 

Ys era un gran gioco per l’epoca, ma ciò non cambia il fatto che era uno di quei videogiochi del tipo “… E mo che cazz devo fare?”. Come arrivo al fatto che i semi che ho trovato devo mangiarli per poter parlare con un albero che poi mi donerà una spada senza la quale il boss che incontrerò più avanti non può essere sconfitto? In altre parole, ci impazzivi dietro a ‘ste cose che rappresentavano l’antitesi dell’intuitività.

Ninja Gaiden (Tecmo – 1988)



Ennesimo gioco partorito dal diavolo: Ninja Gaiden. Anche se la serie è continuata fino ai giorni nostri, chiunque al secolo abbia giocato la trilogia a 8-bit per Nes, per forza deve avere ancora gli incubi. Per forza, proprio. Fondamentalmente, la storia era la classica cazzata anni ottanta in cui c’è ‘sto Ninja, Ryu Hayabusa, il quale va in America per recuperare dei manufatti antichissimi e potentissimi che nelle mani sbagliate potrebbero distruggere il mondo. 


Ok, fin qui. Solo che poi l’unica cosa distrutta dal gioco è la sanità mentale del giocatore: un titolo dalla difficoltà così elevata da farti venire un coccolone, ma di quelli letali proprio. Arrivati a un certo punto, l’unica cosa ottenuta dopo una mezz’oretta di gioco erano una forte emicrania e le vene che pulsavano preoccupantemente nelle tempie. Veramente, un gioco nato con l’obiettivo di essere bastardo e sleale come pochi.

Fun Fact: Jin Hayabusa, antenato di Ryu, appare e può essere affrontato come secret boss nel DLC Bloodshed’s End di Nioh, altro giochillo sempre sviluppato da Team Ninja che unisce la pazzia dei Ninja Gaiden alla frustrante rabbia dei Soul’s di From Software.

T.M.N.T. (Konami – 1989)



Ah, le Tartarughe Ninja… Pochissime cose raggiunsero la stessa popolarità sul finire degli anni ottanta, basta pure solo vedere tutti i cloni nati nel corso degli anni. Proprio per questo ogni stramaledetto ragazzino a quel tempo probabilmente sarebbe stato più che felice di vendere un rene per avere ‘sto gioco. Gioco, del resto, ricordato non tanto per essere un “classico” nell’accezione più comune del termine. 



Lo si ricorda perché è ridicolmente difficile. Il fatto è che non si trattava di cose come Mega Man o Ninja Gaiden, per dire, dove i programmatori avevano ideato sfide con l’intento di non essere superate; o quantomeno, di riuscirci ma con enorme ed estrema difficoltà. Semmai, nonostante fosse un gioco tutto sommato ben fatto, erano sparsi qui e là dei difetti intrinsechi che uniti a una difficoltà già al di sopra della media, trasformavano il gioco in un’esperienza frustrante e molte volte avvilente.

Esempio: il livello delle fogne, dove (stranamente) il cadere nell’acqua ti uccideva, i passaggi erano stretti, arrivavano nemici, schifezze e mostrilli volanti da ogni parte e dulcis in fundo, le piattaforme su cui saltare per avanzare erano posizionate male: tu saltavi nel punto obbligato e il personaggio cadeva, nel 99% dei casi, inevitabilmente verso una tragica quanto pernacchiosa morte, visto che lo spazio d’azione era stato calcolato da uno con due mani sinistre.

Battletoads (Rare – 1991)



A proposito di cloni delle Tartarughe: Battletoads, appunto. L’essere sostanzialmente cloni a parte, Battletoads era godibile, ben fatto e con un sistema di gioco fluido e funzionale. Il grossissimo problema stava nel fatto che tutto il companatico era stato pensato e realizzato per mettere alla prova i nervi e la sanità mentale dei cristiani. In questo senso, il livello di sfida era in buona sostanza eccessivo.



Troppi nemici a schermo, troppi pericoli, troppo tutto per un solo giocatore. Infatti, non a caso questa bizzarra difficoltà era stata implementata per spingere intrinsecamente i giocatori a giocare in co-op. Ora, su carta, la cosa magari potrebbe essere anche carina e simpatica; soprattutto per via del fatto che i livelli finali erano un turbine di pazzia e delirio, nonostante l’aiuto di un secondo giocatore.

Peccato però per quel colpo d’asineria che beccò gli sviluppatori: per qualche strana ragione, quando si giocava in due, i personaggi potevano colpirsi e uccidersi a vicenda. Il che in un beat ‘em up a scorrimento, pure frenetico per giunta, dove quasi sempre il 90% dello schermo era coperto da nemici, beh… diciamo che questo la dice molto, ma molto lunga. Inoltre, come se non bastasse, la morte di uno dei due giocatori significava game over e ricominciare tutto quanto dall’inizio. Bei tempi, eh?

Ecco the Dolphin (Novotrade – 1993)



Questo è uno dei giochi più originali e particolari che fosse possibile trovarsi fra le mani all’epoca. Al secolo, fu pure un discreto successo quando uscì su Mega Drive e perciò, pare strano che oggi nessuno sembri ricordarselo. A ogni modo, il giocatore altro non è che un delfino. Un delfino super-intelligente che si trova a combattere un’invasione aliena. Roba che il delfino di Johnny Mnemonic spostati subito, insomma.



Ora, anche se a prima vista può sembrare uno di quei giochilli pucciosi, simpatici, ultra-colorati e rilassanti, in realtà nascondeva un’intrinseca anima nera d’infamia per nulla indifferente. Il livello di sfida era subdolamente alto; molto più di quello che uno si aspetterebbe di primo acchito. Gli stage richiedevano una certa attenzione per essere superati, anche perché alle classiche fasi frenetiche dove ti arrivava addosso la qualunque per seccarti, si univano fasi puzzle ed enigmi da risolvere.

Inoltre, essendo “Ecco” un delfino, ergo un mammifero, ti dovevi ricordare di tenere sott’occhio la barra dell’ossigeno e trovare sacche d’aria per farlo respirare, altrimenti schiattava soffocato.

Ikaruga (Treasure – 2001)



Molti sicuramente ricorderanno il caro, vecchio Space Invaders: uno degli shoot ‘em up più famosi di tutti i tempi. Da quando apparve nel lontano 1978, oltre ad aver fatto scuola, ennemilamila videogiochi hanno ripreso la formula. Tipo che dal 1985 al 1995 gli “spara-spara” a scorrimento verticale ti venivano tirati in faccia pochi cent la tonnellata. A ogni modo, come sempre le cose più cambiano più restano uguali; sembrava che ormai fossero tramontati del tutto e invece…



Agli albori del nuovo millennio i Treasure tirarono fuori la loro particolare versione di questa tipologia di giochi. Solo che nel farlo si erano sicuramente tirati qualcosa, perché il prodotto che venne fuori è un gioco più duro di un chiodo da bara arrugginito. In pratica, il gameplay è basato su un particolare binomio cromatico bianco-nero: cioè quando sei di un colore, solo i colpi di polarità opposta possono ucciderti. Mentre quelli della stessa polarità ricaricano l’arma speciale. 

Ovviamente questa particolarità si estende anche sui nemici con i dovuti distinguo e detto in parole economicamente svantaggiate e senza che la tiriamo troppo per le lunghe, a un certo punto il panico e la paura proprio: un inferno lampeggiante di proiettili luminescenti a schermo che non si capisce più niente perché ti sono salite le convulsioni.

Demon’s Souls (From Software – 2009)



Per concludere questo piccolo excursus, arriviamo al capostipite dei tanto decantati Soul’s: Demon’s Souls. Il motivo è piuttosto semplice in realtà; e sta tutto nel merito di aver portato di nuovo, dopo alcuni anni di latitanza nel settore, il focus sulla sfida. Semplice, nuda e cruda. Allora, se tanto mi dà tanto, questo per caso significa che Demon’s Souls sia il “gioco moderno” più difficile foreva end eva? Assolutamente no.

Certo, in molti casi può mettere seriamente a dura prova i nervi, ma, in fin dei conti, nulla di diverso da quel che facevano i videogiochi di quindici, venti e trent’anni fa. Anzi. In un certo senso è pure più facile, dato che il gioco non è sleale nei confronti del giocatore, dandogli sempre la possibilità di superare i nemici con la giusta accortezza. Allora com’è che ha ottenuto tutta questa considerazione e la fama che ne è venuta?



Se ci pensi un attimo il motivo è abbastanza chiaro: il settore videoludico di anno in anno è cresciuto a livelli abnormi. Tanto per dare un dimensione alla cosa e capirci bene, se andiamo a mettere insieme Super Mario Bros. e Pac-man (cioè due capisaldi dell’intera storia dei videogiochi che pure i sassi di Marte conoscono) e facendo una media del ciclo vitale delle console su cui giravano, insieme, in più o meno vent’anni, non arrivano a cinquanta milioni di copie vendute. 

Se, invece, prendiamo G.T.A. V, pubblicato a settembre 2013, in soli due anni ha venduto la bellezza di sessantacinque milioni di copie. Questi numeri sono l’ineluttabile prova di come il settore videoludico sia cresciuto; ergo, diventa lapalissiano che a fronte di numeri simili l’industria tenti di livellarsi, adattarsi se vogliamo, a un bacino d’utenza quanto più ampio possibile. Per estensione ciò significa anche che inevitabilmente il livello di sfida medio dei videogiochi si sia poi abbassato. 

Adesso c’è pure da considerare l’altro lato della medaglia. Senza risalire all’uomo di Neanderthal, eh, giusto alla sesta generazione di consolle. All’epoca, un videogioco qualsiasi se durava una mezza dozzina d’ore era pure parecchio. Dalla loro, i videogiochi del passato, non potendo contare sulla tecnologia che abbiamo oggi a disposizione, sopperivano elevando il livello di sfida a proporzioni tali da esasperare e sfiancare il giocatore.

In altre parole, anche se è lecito lamentarsi di giochi che ti portano con la manina dall’inizio alla fine, c’è sempre da fare i dovuti distinguo e i conti con ciò che si ha davanti. Un tempo, anche solo per capire cosa cazzomannaggia dovevi fare in un gioco, se ne andavano giorni. Ora, anche se per la maggiore non è più così, vogliamo dire che i giochi, tutti e nessuno escluso, siano peggiorati? Ma anche no, guarda. Anzi. Finalmente, mentre giochi, puoi seguire una storia anziché dovertela leggere sul libretto.

Bene, detto questo è tutto.

Stay Tuned, ma soprattutto Stay Retro.



(Da Il sotterraneo del Retronauta).


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