ANTONIO RUBINO TRA GOLIARDIA ED EROTISMO

ANTONIO RUBINO TRA GOLIARDIA ED EROTISMO

Nel 1898 la facoltà di giurisprudenza ebbe una matricola proveniente da Sanremo destinata alla gloria, non nel foro bensì sulla carta stampata. Era il figlio di un bislacco banchiere, botanico e cercatore d’oro nizzardo e di una gentildonna provenzale: Antonio Rubino (1880-1964).
Il quale si raccontava così…

ANTONIO RUBINO TRA GOLIARDIA ED EROTISMO


Ero da piccolo un bambino biondo piuttosto delicato: avevo due occhi azzurri fatti più per sognare che per guardare. Le mie più grandi passioni erano due: sfogliare libri illustrati e correre attraverso la campagna in cerca di cose strane. A quattro anni prima di saper leggere recitavo già il canto terzo della Divina Commedia e fingevo di saper leggere ripetendo a memoria i versi stampati sotto le illustrazioni di Gustavo Doré, con grande meraviglia di tutti. A sei anni illustravo già storielle a quadretti. Conservo ancora una di quelle che porta questa terribile morale: Chi vuol maltrattare gli altri resta ucciso. Più della scuola ha influito su di me la vita libera dei boschi. Tutte le estati mio padre mi mandava a fare il capraio.

Guardando un gregge di quaranta capre e girando da solo di montagna in montagna, ho preso per mesi e mesi contatto col vero, come dimostrano le cicatrici e i lividi che porto ancora oggi sulle gambe. Ho scritto a 17 anni tre poemi grotteschi dai titoli altisonanti: l’Anabignombasi. Le Galluppotorancicchegrafeidi e il Poema Baroko in tremila terzine. I titoli dicono tutto. Poi cominciai a scrivere versi seri, spesso macabri. Iscritto alla facoltà di legge dell’università di Torino, fondai subito l’Arma di perfezione di cui fui il Vessillifero eccelso gemmeo. La parodia di tutto ciò che era allora di moda trionfò in pieno: la parodia del superuomo, Zarathustra in abito da società, il pentagramma mistico, i sonetti bruciati sul tripode della Dea Bellezza, i sonetti ermetici, lenticolari, crepuscolari, la crittografia concentrica centripeta trionfavano in pieno tra le più matte risate.

Nacque allora la mia pittura. Mi accorsi, illustrando con simboli le mie poesie burlesche e quelle serie, che potevo senza ricorrere all’alfabeto comunicare agli altri il mio pensiero. Provai a sostituire ai simboli dei veri e propri disegni e in un solo pomeriggio eseguii, prono sul pavimento, i primi quattro disegni colorati. In seguito disegnai anche una cinquantina di lettere, una vera e propria esposizione tascabile ambulante corredata delle relative spiegazioni che divertivano molto i miei amici e che interessò anche Leonardo Bistolfi (celebre scultore n.d.r.) e altri artisti scrittori e giornalisti insigni.

Superavo frattanto brillantemente gli esami grazie ad un ingegnoso espediente: mettevo in versi gli argomenti giuridici: La tutela, l’usucapione, la personalità giuridica del feto, il processo accusatorio ed inquisitorio ecc. Gli esaminatori quando mi presentavo all’esame dicevano: – Ecco quello che mette in versi la materia – e mi promuovevano subito. Nel 1903 conseguii la laurea con punti 105 su 110. La mia carriera giuridica diventò una carriera letteraria e la mia carriera letteraria si confuse con la mia carriera artistica in modo perfettamente logico, senza soluzione di continuità.  Seguivo evidentemente la mia natura, senza opporre alcuna resistenza. Diventai giornalista per i ragazzi, tavolista del Corriere dei Piccoli, autore di libretti e di commedie, decoratore di ambienti, scenografo, attore, polemista, filosofo, regista di cartoni animati, e persino nei ritagli di tempo raccoglitore di olive, passando con la massima indifferenza da un lavoro all’altro e facendo del lavoro il mio più bel divertimento. Ho ottenuto così il risultato di trascorrere piacevolmente i miei 78 anni (siamo nel 1958. Morirà a 84 anni passeggiando in quegli stessi boschi di Baiardo, sopra Sanremo, dove pascolava le capre da ragazzino n.d.r.) senza nemmeno accorgermene e ancora oggi Sequor naturam meam.

I bambini della prima metà del Novecento crebbero sui fumetti di Antonio Rubino accompagnati dalle quartine a rime baciate e i personaggi come Pierino, Viperetta, Quadratino, Bengalì e Bunzibù.

ANTONIO RUBINO TRA GOLIARDIA ED EROTISMO


I soldati italiani nelle trincee della Prima guerra mondiale leggevano le storie con i grotteschi austriaci e tedeschi, caricaturati su La Tradotta, giornale della Terza armata. 


Già Tea C.Blanc su Giornale POP ha dedicato a Rubino un esauriente articolo. Anche se c’è chi, come lo scrittore e saggista Franco Piccinini, gli attribuisce influssi futuristi, Rubino può essere considerato il miglior esponente italiano di quel movimento artistico e culturale chiamato Art Nouveau o Stile Liberty, nato in Inghilterra e diffuso in tutta Europa dalle opere di Gallé, Beardsley, Mucha, Klimt, Gaudì ed Erté.

Introdotto in Italia da Torino, per merito dell’esposizione di arte decorativa moderna del 1902, il Liberty fu uno stile rivoluzionario rispetto al precedente ormai frusto Romanticismo e Neo Classicismo. Malizioso, provocante e anche un po’ perverso perché fiancheggiava il Decadentismo, specie quello dannunziano.


Lo stesso Antonio Rubino illustrò sia favole per i bambini sia racconti erotici, e al di là di una geometrica perfezione stilistica si sente poca vitalità nei suoi personaggi rigidi come automi. L’arte comunque è passata anche per quelle strade, e la goliardia non avrà forse tratto profitto da poesie come le sue?

Del lirico violin gratta i budelli/ Già il musicante che dentro mi frulla/ E stecche mugolii trilli strimpelli/ Arrabattando le dita si sgrulla/ E fa un così arruffato tafferuglio/ Che n’ho la testa balorda e citrulla./ Corpo d’un cancro ! Già che va in subbuglio/ Il pentolin che tengo nella nuca/ Ingarbugliamo qualche guazzabuglio/ O frizzo o ghiribizzo o fanfaluca/ Un frizzo o ghiribizzo che ingrovigli/ Un rachitico intrico di reticoli/ Fiorito di stentorei sbadigli/ Poi pallidette cabalette articoli/ Donde sprizzino triti brii di trii/ E piccoli ammenicoli ridicoli/ Finche il trillo s’immilli in cinguettii/ Minimi, e con singulti gutturali/ Muoia di noia in lunghi omei giulivi/ Cuculiandovi cobbole nasali.

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