I RONIN DAI MANGA A FRANK MILLER FINO AL CINEMA

I RONIN DAI MANGA A FRANK MILLER FINO AL CINEMA

“I bushi sono immortali! Dunque ci incontreremo ancora se siete immortali anche voi”.
Da “Kozure Okami” di Kazuo Koike e Goseki Kojima.

 

Nonostante il Giappone sia il maggior produttore mondiale di fumetti, i manga hanno impiegato molto tempo per essere esportati in Occidente a causa delle differenze culturali, non ultima delle quali il senso di lettura delle storie, che, come la scrittura, in Giappone va da destra a sinistra.

A causa del crescente militarismo del Giappone, negli anni trenta del Novecento furono lanciati diversi personaggi devoti alle autorità e dedicati alle imprese belliche, come il samurai Hinomaru Hatanosuke di Kikuo Nakajima o il cane soldato Norakuro di Suihou Tagawa.
Invece le storie del piccolo re pacifista Boken Dankichi di Keizo Shimada furono fatte finire nel 1939.

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Hinomaru Hatanosuke

 

Alla fine della Seconda guerra mondiale, con l’occupazione americana, i fumetti di eroici e invincibili samurai vennero censurati e Boken Dankichi fu recuperato per illustrare ai bambini le regole della nuova amministrazione.

Nello stesso periodo furono importati in Giappone i disegni animati della Disney e dei fratelli Fleischer (Betty Boop e Braccio di Ferro), che influenzarono in modo determinante il giovane fumettista Osamu Tezuka.

Questi, affascinato dalla vitalità di quelle pellicole, dal 1947 rinnovò grafica e montaggio dei fumetti giapponesi, rompendo con la staticità che li aveva contraddistinti fino a quel momento.

L’elemento principale della sua rivoluzione consistette nel raccontare il più possibile con le sole immagini, evocando ritmi cinematografici con un sapiente uso delle inquadrature e impiegando se necessario anche molte pagine per rappresentare una singola azione.

Allo stesso tempo introdusse un nuovo stile di disegno mutuato dai cartoon statunitensi (riprendendo ad esempio i grandi occhi oblunghi degli animali Disney), uno stile più curato e gradevole di quelli dei manga precedenti, pur essendo impiegato soprattutto in storie avventurose.

Il successo dei manga di Osamu Tezuka fu di tale portata (il primo libro di Tezuka vendette mezzo milione di copie) che nel giro di pochi anni l’intera produzione giapponese a fumetti si uniformò alle sue innovazioni e al suo stile.

Anche i samurai apparsi nei manga degli anni cinquanta, di cui quello di maggior successo fu probabilmente Akado Suzunosuke di Eiichi Fukui, furono disegnati con uno stile che in occidente sarebbe stato considerato umoristico.

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Circa dieci anni dopo la rivoluzione di Tezuka, in Giappone ne cominciò una seconda a opera di un gruppo di autori della zona di Osaka. I quali, con il nome di gekiga (“immagini drammatiche, forti”, termine coniato dal fumettista Yoshiro Tatsumi per contrapporlo a manga, che si può tradurre anche come “immagini leggere, disimpegnate”), inaugurarono un modo di fare fumetti più introspettivo e calato nella realtà.

Questi autori rivendicavano una maggiore indipendenza stilistica e traevano ispirazione, tra l’altro, dai disegni del teatro Kamishibai, caratterizzato da storie drammatiche di vendetta, d’orrore e di morte.

Anche nei gekiga, il tipo di narrazione visuale introdotto da Tezuka venne mantenuto, e spesso portato anzi a livelli di dinamismo ancora più estremi attraverso l’esasperata frammentazione e rapidità d’esecuzione delle linee, ma fu usato per raccontare storie da cui furono banditi gli elementi comici, storie quasi senza censure nei contenuti, a tratti crude e violente, con protagonisti, tra gli altri, ninja o samurai calati in contesti ricostruiti in modo verosimile, oppure le loro controparti moderne, ovvero gangster e sicari.

Le storie non erano più raccontate sempre dalla parte delle autorità o di un eroe dalla bontà un po’ ingenua (come era tradizione sia nei manga sia nei fumetti occidentali), gli eventi potevano anche essere mostrati da vari punti di vista, acquistando così un maggiore spessore narrativo, ed era abolito l’obbligo del lieto fine.

Mentre i tipici manga dallo stile tondeggiante, morbido e pulito inizialmente erano rivolti ad un pubblico più o meno infantile, le storie nervose e abbozzate rapidamente dei gekiga erano più serie, più tragiche, a volte persino impegnate, e si rivolgevano a un pubblico maturo.

Costituirono un cambiamento che in Italia si potrebbe paragonare all’arrivo dei fumetti neri per adulti nelle edicole degli anni sessanta, dominate da eroi western e surrogati disneyani, o all’apparizione dei fumetti horror per lettori maturi nel mercato Usa dei primi anni cinquanta.

Anche i gekiga furono aspramente osteggiati dalle associazioni di genitori e insegnanti, ed ebbero i loro guai con la magistratura giapponese, ma altri apprezzarono il loro sforzo di mostrare violenze e tragedie umane portando in evidenza anche temi sociali.

Le riviste gekiga non ebbero quasi mai lo stesso riscontro di vendite di quelle propriamente manga e, se i fumetti di questo tipo raggiunsero una certa diffusione, all’inizio fu grazie alle “biblioteche” kashihon, che prestavano libri e fumetti a pagamento insieme a opere letterarie considerate scabrose o d’avanguardia.

In seguito, quando gli editori si resero conto che i manga non erano acquistati solo da bambini, ma sempre di più anche da adolescenti e adulti, si capì che esisteva un grande mercato potenziale anche per questo genere di pubblicazioni e nacquero riviste come Garo, in cui il fumetto era trattato come una forma artistica e gli autori lasciati liberi di esprimersi senza vincoli.

In un certo senso, pur limitandosi alla pubblicazione di storie giapponesi, si può dire che Garo, nata nel 1964, abbia battuto sul tempo l’italiana Linus, che nel 1965 inaugurò le riviste europee di fumetti d’autore per adulti.

Rivolgendosi ad una fascia di élite, Garo arrivò a vendere “appena” 30.000 copie, mentre i manga ne vendevano milioni, ma qualcosa si stava muovendo. Lo stesso Osamu Tezuka, con alcune opere più tarde come Blackjack, Dororo, Ayako e Adolf Ni Tsugu, partecipò in parte alla nuova tendenza, attenendosi più strettamente alla drammaticità di situazioni descritte con crudezza, pur senza modificare troppo lo stile di disegno.

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Uno dei primi maestri dei gekiga e tra i più apprezzati dai giovani “ribelli” giapponesi, fu Sanpei Shirato, pseudonimo di Noburo Okamoto, figlio di un pittore tradizionale di sinistra e a sua volta ex illustratore di Kamishibai, specializzatosi in fumetti di ninja.

A due anni dall’inizio della carriera di fumettista, nel 1959, Sanpei Shirato realizzò la sua prima opera di ampio respiro con Ninja Bugeicho Kagemaru Den (Il manuale di lotta ninja del racconto di kagemaru), un fumetto realizzato per il mercato del kashihon, da cui fu tratto anche un film che si ispirava allo stile del teatro Kamishibai.

In questa serie, il cui protagonista guida i contadini alla rivolta denunciando le loro difficili condizioni di vita e i soprusi dei signorotti locali, Shirato iniziò a mostrare la propria abilità nel rappresentare le scene di lotta.
La discriminazione, lo sfruttamento e l’oppressione dei popoli, sono temi ricorrenti in molti suoi lavori insieme alle affascinanti panoramiche di scenari naturali.

Un altro importante gekiga di Shirato fu Kamui Den (Il racconto di Kamui), pubblicato dal 1964 sulla rivista Garo e ambientato nel Giappone del Quattrocento, in cui un orfano addestrato in una scuola di ninjutsu (l’arte di uccidere in silenzio dei ninja), rifiutando di continuare a compiere violenze, si ribella e fugge, inseguito e perseguitato dagli altri adepti della setta.

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I fumetti di Shirato, incentrati su eroi tutt’altro che idealizzati, ma determinati a ribellarsi ad un sistema ingiusto anche contro ogni speranza, furono anche oggetto di discussioni nelle università giapponesi e, nel loro piccolo, contribuirono sia a far maturare la locale narrativa per immagini che a diffondere la coscienza politica nel paese.

Kamui proseguì per otto anni e, dopo una lunga pausa, riprese nel 1982 con il titolo Kamui Gaiden (L’altro racconto di kamui).
Mentre la versione degli anni sessanta è realizzata con un disegno spoglio ed essenziale, tipico dei fumetti giapponesi dell’epoca, la seconda serie è caratterizzata da una grande cura nei dettagli e da una verosimiglianza delle forme, accompagnate da un dinamismo esasperato e da una fortissima espressività drammatica.

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D’altronde Shirato non poteva fingere che nel frattempo non fosse apparsa la saga che può essere considerata il capolavoro della scuola gekiga: Kozure Okami (Il lupo con il cucciolo).

Nel 1970, quando i primi episodi di Kozure Okami apparvero sul settimanale Manga Action, l’autore dei testi, Kazuo Koike, era professore all’Università d’arte di Osaka, mentre il disegnatore, Goseki Kojima, era diventato fumettista a tempo pieno tre anni prima, dopo essere stato pittore di cartelloni cinematografici.

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Evidentemente entrambi, benché nell’ambito del fumetto fossero dei novizi, avevano una cultura storica e visiva che, spaziando dal mondo della pittura a quello del cinema, permise loro di adottare un approccio alla narrazione a fumetti più adulto e impegnativo, rispetto a ciò che era stato fatto in precedenza.

La loro ricostruzione del Giappone dell’epoca Edo dominato dalla dinastia Tokugawa (che va dal 1600 al 1867) è impeccabile, non solo nelle rappresentazioni della vita di corte o nelle intense scene di battaglia ma anche negli usi e costumi della gente più umile, e il realismo storico dei racconti si accompagna a un realismo delle immagini sempre più pronunciato.

Per calare il lettore nel preciso contesto storico, i dialoghi contengono anche termini antichi, oggi spesso conosciuti ai giapponesi, mentre lo stile dei disegni è affine alle antiche stampe giapponesi.

Il protagonista della serie è il samurai Itto Ogami, l’ex boia imperiale, che, caduto in disgrazia a seguito di un intrigo di corte in cui è rimasta uccisa sua moglie, gira il Giappone accompagnato dal figlioletto Daigoro, in attesa di avere i mezzi per attuare la sua vendetta contro i responsabili: il clan Yagyu, guidato dal patriarca Retsudo.

Per ottenerli diventa un ronin, un samurai senza padrone, in pratica un assassino a pagamento, mettendo la sua maestria nell’arte del combattimento al servizio di chi è disposto a pagare una forte somma.

Itto Ogami per raggiungere i propri scopi si è immerso metaforicamente col figlio nel Meifumado, l’inferno buddista, e ha rinunciato al proprio onore, dal momento che rifiutando di uccidersi si è ribellato allo shogun, il “gran generale” del paese.
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Assolve quindi i propri sanguinari incarichi da assassino senza troppi scrupoli, eppure sotto altri aspetti resta fedele al proprio codice di samurai e, non solo non si abbandona mai a crudeltà inutili e manifesta pietà per i nemici che uccide, ma, quando ne ha la possibilità, se non rischia di compromettere la sua missione di vendetta, prende le difese dei poveri e dei derelitti che incontra. A loro volta questi ultimi spesso lo aiutano, lo ospitano e lo rifocillano.

Altre volte, invece, singoli individui o addirittura interi villaggi cercano di ucciderlo per intascare l’enorme taglia che è stata messa su di lui. Infatti è diventato famoso in tutto l’impero come Kozure Okami, il “Lupo con il piccolo appresso”, il più pericoloso e temuto assassino del Giappone, e gli avvisi di cattura che riproducono la sua faccia e quella del figlio si moltiplicano.

Solo contro tutti, insieme al bambino che crescendo acquista sempre maggior dimestichezza con la severa disciplina e le arti marziali del padre, Itto riesce a uccidere tutti i figli di Retsudo, fino al duello finale con l’acerrimo nemico, che, a causa di varie interruzioni e impedimenti, si protrae per moltissimi episodi, mentre i due avversari mantengono sempre un estremo rispetto l’uno per l’altro.

Invece il subdolo avvelenatore Abe Tanoshi, il capo degli assaggiatori di corte che cerca di uccidere ambedue i rivali per soddisfare le proprie ambizioni di potere, è disprezzato da entrambi, poiché a differenza di loro non è un bushi, un guerriero, e non segue minimamente le regole dell’onore.

La saga si compone di centoquarantadue episodi (poi raccolti in ventotto volumi), realizzati tra il 1970 e il 1976. In questo periodo lo stile di Kojima matura moltissimo, impiegando tecniche grafiche affini tanto alla pittura zen quanto all’impressionismo europeo (forme rese vivide con pochi segni rapidi, contrasti accennati con pennellate di toni di grigio a mezza tinta, sfumature ed effetti di movimento ottenuti con tratteggi approssimativi ma efficaci), mentre i disegni si fanno sempre più precisi, dettagliati e accurati.

Basta guardare il modo in cui è disegnato il piccolo Daigoro nei primi episodi, dove, seppure già lontano dallo stile dei manga “alla Tezuka”, risulta ancora un po’ “pupazzettistico”.

Nel corso degli anni e delle avventure, approfittando anche della progressiva crescita del bimbo, il disegnatore ha avuto modo di renderne le fattezze sempre più verosimili e di arricchirne l’espressività del volto, di pari passo con l’impercettibile ma costante progredire delle sue capacità grafiche, o meglio, con la sua sempre maggiore pratica nel far vivere le figure nell’angusto spazio delle vignette, anziché in quello ampio dei manifesti che realizzava in passato.

Il crescente realismo non va però a scapito dell’espressionismo ottenuto tramite vari effetti grafici, che ha comunque la precedenza e che anzi aumenta anch’esso col tempo. Questo comporta anche un uso sempre maggiore di vignette più grandi e inquadrature più ravvicinate.

La sensazione che si ha, è che all’inizio le esigenze dei racconti, o la necessità di realizzarli con certi ritmi, limitassero la forza espressiva di Kojima, che, per essere funzionale a una narrazione di rapido consumo, vi subordinava le proprie esigenze creative, mentre con il tempo è riuscito a prendersi gli spazi necessari per esprimere in ogni immagine il più efficace effetto drammatico possibile.

Nell’ultima quarantina di episodi di Kozure Okami prevale un andamento a puntate, con i complicati intrighi di Abe Tanoshi che si protraggono nel tempo e la suspense dell’ultimo scontro tra Itto e Retsudo sempre rinviato.

Mentre il primo centinaio di episodi sono leggibili anche come brevi racconti auto-conclusivi, ognuno costruito in modo originale, attraverso sapienti montaggi delle inquadrature, con un campionario umano composto da popolani, nobili, contadini, guardie o criminali che di volta in volta sono protagonisti delle loro singole vicende umane, entrate fatalmente in contatto con quella più ampia del “Lupo con il cucciolo”.

Naturalmente molte storie raggiungono l’apice del climax nelle scene di battaglia, sempre tratteggiate da Kojima con rara efficacia e un dinamismo estremo.
Non mancano neanche racconti di genere completamente diverso, dai primi incontri di Daigoro con le difficoltà della vita, che affronta ogni volta con la forza d’animo di un autentico samurai, a tragiche storie d’amore o di sofferenze umane, in cui la sorte, o l’intervento di un ronin come Itto Ogami, può portare improvvisi rovesciamenti di fortuna.

Le epiche scene di tensione drammatica e violenza sanguinaria, ogni tanto cedono il posto a poetici panorami o dettagli, con effetti di sospensione tipicamente zen, in sintonia coi contenuti e il contesto delle storie.

Elementi della cultura e della filosofia buddista, fondamentale nella storia del Giappone e particolarmente legata alla casta dei samurai, sono evocati continuamente dagli autori, attraverso riferimenti disseminati lungo tutta la serie, permettendo anche ai lettori occidentali di intuire come la dottrina Zen fosse strettamente intrecciata al Bushido, la via del guerriero.

Kozure Okami divenne enormemente popolare, soprattutto per una serie gekiga, arrivando a vendere circa otto milioni di copie, anche se si può presumere che il successo fosse dovuto in primo luogo alle esagerate scene di battaglia in cui il protagonista riesce a sconfiggere interi eserciti praticamente da solo, piuttosto che agli elementi più impegnati, storici o filosofici della serie.

Comunque, nel giro di due anni, molto prima che la saga arrivasse alla conclusione, Koike si ritrovò a scriverne il primo adattamento cinematografico, a cui seguirono altri cinque film, girati con un ritmo piuttosto rapido tra il 1972 e il 1974.
Gli ultimi tre furono prodotti direttamente da Tomisaburo Wakayama, l’attore che interpretava il ruolo di Itto Ogami.

Pare che intere sequenze del fumetto vi siano state ricostruite molto fedelmente, sicuramente grazie alla collaborazione dell’autore originale. In ogni caso, anche le esigenze commerciali non furono certo trascurate, visto che, nei film dopo il secondo, il climax viene sempre raggiunto quando il “Lupo con il piccolo” combatte e vince da solo contro tutti.

L’ultimo lungometraggio della serie, con centocinquanta nemici eliminati, detiene addirittura il sinistro primato del maggior numero di persone che siano mai state uccise in un solo film da un singolo personaggio.

Parti dei primi due film furono rimontate in una pellicola doppiata in inglese e distribuita negli Stati Uniti nel 1980, con il titolo Shogun Assassin, mentre il terzo film è stato ridistribuito negli Usa in Dvd come Shogun Assassin 2.

Sempre da Kozure Okami fu tratta anche una serie di telefilm, durata tre stagioni di ventisei episodi, dal 1973 al 1976, distribuita nei paesi occidentali con titoli come “Il samurai fuggitivo” o “Il samurai di ferro”. In Italia fu intitolata semplicemente Samurai, e rese familiare anche da noi il carrettino per bambini in cui Itto Ogami spingeva il figlio Daigoro ancora piccolo, i cui bordi staccabili potevano trasformarsi all’occorrenza in armi micidiali.

L’interpretazione televisiva di Kinnosuke Yorozuya nel ruolo di Itto Ogami, e i telefilm di questa serie in generale, sono considerati ancora più fedeli al fumetto rispetto ai film interpretati e prodotti da Wakayama, il che è comprensibile, visto che attraverso il maggior numero di episodi, e quindi una maggiore durata, era possibile riprodurre meglio il ritmo lento e ampio dell’originale.

Sempre dalla serie di Koike e Kojima furono tratti altri film per la tv (alcuni interpretati dallo stesso Yorozuya), un ennesimo lungometraggio nel 1992 e una seconda serie televisiva in due stagioni, distribuita solo in Giappone tra il 2002 e il 2004.

Kozure Okami, con i suoi serrati duelli alternati a intensi momenti di suspense, è stato inoltre uno dei fumetti giapponesi che più hanno influenzato il dinamismo e la grafica del fumetto americano, ancora prima di essere pubblicato negli Usa, attraverso l’opera di Frank Miller.

C’erano già stati fumettisti europei che si erano occupati più o meno saltuariamente del mondo dei samurai. In particolare, il francese Robert Gigi aveva dedicato loro ben due serie, Hito e Ugaki. Quest’ultimo, apparso per la prima volta nel 1972 sul settimanale olandese Eppo, era un ronin che nei suoi vagabondaggi cercava il modo di vendicare il proprio signore.

Anche Sergio Toppi ha realizzato alcuni racconti a fumetti incentrati sui samurai solitari. Nel “La notte dei samurai”, su testi di Mino Milani, si rievoca un fatto storico accaduto nel 1861: l’attacco di un gruppo di ronin sobillati dai signori feudali contro la legazione inglese di Tokio, un attentato a cui i diplomatici britannici scamparono fortunosamente.

In un suo racconto più fantasioso intitolato “Ogari 1650”, vediamo invece un ronin in miseria chiedere la carità ed essere ingannato dagli abitanti di un villaggio, che sfruttano il suo lavoro ma poi gli negano il cibo richiesto. Sarà l’incantesimo di un demone ridacchiante a dare al samurai l’occasione per la sua vendetta, che però risulterà fin troppo violenta e avrà conseguenze spiacevoli anche per lui.

Un altro strano ronin, capitato chissà come nel Far West della corsa all’oro e che sembra preferire la pistola alla propria spada, appare in un’altra breve storia di Toppi dal titolo “Katana”.

I francesi Patrick Cothias e Philippe Adamov, da parte loro, nel ciclo Il Vento degli dèi, narrano di come il samurai Chen Qin, rimasto gravemente ferito dopo uno scontro e raccolto da una prostituta, intraprenda in sogno un viaggio nel mondo degli spiriti da cui riemerge privo di memoria, mentre attorno a lui si alternano soprusi spietati e rivolte dei contadini.

La sua nuova e miserabile vita, che lo vede più volte comportarsi da vile e fuggire di fronte ai suoi antichi compagni d’armi, è un’occasione per superare i pregiudizi e l’arroganza che ancora continuano in qualche modo ad agire dentro di lui e a comprendere le ingiustizie di un sistema feudale basato sulla violenza e la sopraffazione.

Lo statunitense Frank Miller, al contrario di questi autori, non è molto interessato agli aspetti strettamente storici, ma ha una particolarità rispetto a loro: lo spirito dell’antico Giappone, filtrato da fumetti e film, è presente in quasi tutti i suoi lavori, a prescindere dal luogo e dall’epoca in cui sono ambientati.

Già nelle sue prime storie con protagonista il supereroe cieco Daredevil, il mondo delle arti marziali occupa un posto di primo piano e la grafica delle pagine risente di influenze dal Giappone.

Lo stesso si può dire per le sue opere successive incentrate sul mutante Wolverine o sulla moderna ninja Elektra (la cui fuga da una setta orientale potrebbe ricordare quella analoga di Kamui) e anche per il più recente ciclo di Sin City, in cui c’è un ennesimo personaggio femminile che sembra uscito da un film di ninja.

È come se Frank Miller si fosse proposto come continuatore dei gekiga, innestandone tematiche e atmosfere nel cuore del fumetto di supereroi e camuffandole con toni hard boiled da romanzo d’azione.

Ma è soprattutto Ronin, pubblicato dalla Dc Comic dal 1983 al 1984, la sua prima creazione completamente originale, costruita come un vero e proprio romanzo a fumetti, a costituire un chiaro omaggio all’opera di Koike e Kojima.

I loro nomi sono citati esplicitamente in quelli di due personaggi giapponesi e si fa riferimento anche a un telefilm incentrato su un ronin leggendario, senza contare che gli antichi costumi nipponici (e perfino la grafica delle nuvolette dei dialoghi) sono ripresi dalle vignette di Kozure Okami.

Fu quindi inevitabile che, quando nel 1987 uscì la prima edizione statunitense delle avventure a fumetti di Itto Ogami, edita dalla First Comics con il titolo tradotto in Lone Wolf & Cub (usato poi anche per l’edizione italiana), le prime copertine fossero affidate a Frank Miller e il loro stile risultasse in perfetta sintonia con l’espressività delle pagine interne di Kojima.

Ma nel Ronin di Miller c’è anche molto altro, a cominciare dai colori curati per la prima volta da Lynn Varley, che, in controtendenza con tutti i precedenti degli albi a fumetti americani, basati su contrastanti tonalità accese, utilizza sfumature tenui e raffinate accostate in modo armonico, come in certi album europei: ci sono addirittura pagine in cui tutta la possibile varietà cromatica degli ambienti viene resa attraverso sfumature diverse di pochi colori.

Il protagonista della storia di Miller sarebbe un antico samurai rimasto senza padrone, un ronin appunto, che, giura vendetta contro un terribile demone che ha ucciso il suo signore.

Questo ronin, di cui non sapremo mai il nome, si reincarna in una New York di un futuro non troppo lontano, una New York degradata e depressa in piena crisi economica e ambientale.

Il nuovo corpo che lo ospita è quello di Billy Challas, un handicappato privo di braccia e gambe, ma dotato di poteri telecinetici. All’inizio del racconto, Billy viene sfruttato per far funzionare mentalmente delle apparecchiature in un impianto industriale basato su rivoluzionarie biotecnologie e controllato da un computer vivente, il complesso Acquarius.

Una qualche forma di magia fa sì che le macchine che circondano Billy si innestino sul suo torso come braccia e gambe bioniche, mentre il suo corpo si trasforma letteralmente in quello del ronin. Riprende quindi la sua secolare battaglia contro il demone, che si è sostituito al proprietario di Acquarius dopo averne assunto le fattezze.

A complicare le cose c’è l’ambiguo rapporto del protagonista con Casey McKenna, la bella responsabile della sicurezza di Acquarius di cui Billy era innamorato, ora incaricata di rintracciare e catturare il ronin, nei bassifondi di una città lontana dal Giappone feudale ma altrettanto violenta.

Se l’ispirazione stilistica del disegno si ritrova in Kozure Okami (ma non solo), il racconto, che parla di un guerriero con membra artificiali che si scontra con dei demoni, ricorda in parte la trama di un altro fumetto giapponese ambientato nel medioevo locale, il già menzionato Dororo di Osamu Tezuka, in cui il giovane Hyakimaru, dopo essere stato fatto letteralmente a pezzi da dei demoni, viene soccorso da un falegname che gli innesta degli arti di legno, con cui lotterà per riconquistare le braccia e le gambe perdute.

È affascinante il modo in cui Miller rielabora tutto in chiave moderna, con riferimenti all’uso etico o meno della tecnologia e all’isolamento di chi riesce a vivere solo per mezzo di macchine e sogni.

In Ronin, perfino le apparenti ingenuità e incongruenze del soggetto si rivelano punti di forza della trama e indispensabili presupposti per successivi colpi di scena, visto che nel corso della storia tutti i pezzi vanno al loro posto o quasi, benché l’esplosivo finale (culminante in una grande immagine pieghevole equivalente a quattro pagine) sia originale anche nel non essere completamente conclusivo.

I personaggi, infatti, sono abbandonati in un momento che non appare come una vera e propria fine, ma piuttosto sembrano presagire l’inizio di qualcosa che è lasciato completamente all’immaginazione del lettore.

Il disegno di Miller, che si occupa di testi, matite e chine, pur essendo espressivo come sempre, presenta qualche incertezza, soprattutto all’inizio, rispetto alle classiche storie di supereroi in cui si avvaleva della collaborazione di esperti inchiostratori come Klaus Janson, Terry Austin e Josef Rubinstein.

Infatti Miller, anche se si può dire che raggiunga qui una sua piena maturità artistica, arriva al suo definivo stile d’inchiostrazione solo otto anni dopo, con Sin City. In Ronin, il suo tratteggio dinamico nelle scene d’azione riprende e rielabora in modo efficacissimo quello di Kojima in Kozure Okami, ma, in alcune delle scene più statiche, certi tratti secondari, in particolare sui volti dei personaggi, risultano un po’ goffi e di spessore troppo grosso, mentre al contrario le linee principali che delimitano i contorni dei corpi sono spesso fin troppo sottili, come se l’autore, pur esprimendosi sempre con grande impeto artistico e sperimentando freneticamente nuove soluzioni grafiche quasi ad ogni pagina, non avesse sempre il perfetto controllo degli strumenti che usa.

Andando avanti, però, Miller padroneggia sempre più questo suo modo tecnicamente non ortodosso di usare la china, raggiungendo un ottimo equilibrio stilistico, in cui l’approccio naif, memore di certi esempi di Hugo Pratt o del belga Didier Comès, si armonizza perfettamente con l’originalità della storia e dei colori.

Un altro elemento caratteristico di Ronin, cioè la totale assenza sia di didascalie descrittive sia di pensieri dei personaggi, fino a quel momento decisamente anomala nei fumetti Usa, era invece comune sia a molti manga e gekiga sia a serie europee come Thorgal o Ken Parker, ma è probabile che anche in questo Miller si sia ispirato soprattutto a Pratt, oltre che naturalmente alle sequenze mute del solito Kozure Okami.

Ma a differenza del realismo di quest’ultimo, in Ronin si evoca un mondo disastrato in cui tutto è fagocitato da una tecnologia vivente la cui concezione fantastica permette a Miller di sbizzarrirsi nel creare scenografie senza nessun rapporto con la realtà, decisamente più surreali dei macchinari, altrettanto immaginari ma ben più “solidi”, disegnati da Jack Kirby attorno ai vecchi supereroi Marvel.

Vi si intravede piuttosto l’eco dei vasti mondi alieni e delle bizzarrie meccaniche che popolano i fumetti del francese Moebius. In comune con Kirby c’è invece l’uso insistente di grandi immagini singole disposte su due pagine, che in Ronin però sono usate non tanto per rendere più epiche le scene di movimento, quanto per soffermarsi su panoramiche mute di ciò che sta accadendo dell’ambiente circostante, spezzando il ritmo dell’azione in corrispondenza dei cambiamenti di scena. In altri punti della storia si trovano poi vignette non allineate e che escono dai margini, o disposte su due pagine alternando panoramiche e dettagli più piccoli, in modo analogo a certe soluzioni tipiche, ancora una volta, di Kozure Okami.

È proprio questo amalgama di Oriente e Occidente, di antico e moderno, di tecnica e anima, che riguarda sia il racconto che la sua rappresentazione grafica, a rendere questo fumetto in particolare, e l’opera di Miller in generale, un ideale punto di sintesi di quanto era stato realizzato in precedenza in forme diverse e una possibile anticipazione per potenziali artistici ancora più alti da sviluppare in futuro, come accade per ogni autore fondamentale.

Dopo la pubblicazione di questa miniserie, il termine “ronin” (in giapponese letteralmente “uomo-onda”, “uomo alla deriva”), usato per indicare i samurai mercenari senza padrone, che fino a quel momento era ancora abbastanza poco noto in occidente, cominciò a essere usato, per esempio, in film d’azione statunitensi che apparentemente non avevano niente a che fare con l’antico Giappone, ma in cui, in modo più o meno esplicito, si faceva un parallelo tra la condizione del samurai vagante e quella del moderno sicario a pagamento o dell’agente indipendente.
Attribuendo quindi anche a certi assassini o spie di oggi un analogo codice d’onore e un analogo senso di fatalità e distacco nell’eseguire i propri compiti, o almeno è così che tali personaggi volevano vedere sé stessi in quelle pellicole.

Se ci si pensa, il concetto di “uomini d’onore” nell’ambito di gruppi criminali non è nulla di nuovo. Lo si trova sia nella mafia siciliana che in altre associazioni a delinquere, sia italiane che estere, compresa la yakuza giapponese, i cui membri amano considerarsi come moderni eredi dei samurai, anche se non si attengono alle autentiche regole del Bushido.

Niente di più naturale quindi, che paragonare ai ronin i criminali e gli avventurieri che lavorano in proprio. In particolare, un film del 1998, diretto da John Frankenheimer e interpretato da Jean Reno e Robert De Niro, utilizzò proprio il titolo Ronin, senza avere assolutamente nulla a che fare con il fumetto di Miller.

Si può dire, insomma, che il parallelo, proposto già dai gekiga giapponesi e poi da Frank Miller stesso nelle sue storie di supereroi, tra assassini moderni e arti marziali antiche, abbia attecchito molto bene anche nel cinema. Prima ancora che i fumetti di Miller fossero trasposti direttamente sullo schermo, fino al caso emblematico del film Kill Bill di Quentin Tarantino, in cui i due elementi sono uniti più strettamente che mai.

Concettualmente e visivamente ancora più eccessivo, ma proprio per questo più vicino al fumetto di cui stiamo parlando, è stato il film Matrix dei fratelli Wachowski, in cui, nello stesso stile cyberpunk prefigurato dal Ronin di Miller, un altro piccolo uomo attaccato ad una macchina si trasforma in un guerriero invincibile.

Del resto, da Guerre Stellari in poi, sempre più spesso eroi e antieroi dei film americani sono dovuti ricorrere al fascino delle arti marziali e delle filosofie orientali per attirare il pubblico.

 

 

(Da Segreti di Pulcinella).

 

 

 

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