MILANO 1972: ORDALIA IN SECONDA MEDIA

scuola media Luigi Majno Milano

Da parecchi anni penso di scrivere un libro sui bambini del 1960, non quelli del 1956 o del 1964, solo quelli nati attorno al 1960. È una generazione particolare, non solo perché è la mia, ma perché si è ritrovata a cavallo di due epoche antitetiche, quando ancora l’Italia era un residuo tenace di Ottocento e al tempo stesso entrava in una nuova era piena di entusiasmanti novità tecnologiche e sociali. Troppi di noi si sono trovati nel posto tutto sommato giusto al momento sbagliato o al momento giusto nel posto sbagliato.

Troppi conflitti tra un mondo nuovo ricolmo di nuove liberta, e genitori e adulti in generale ancora convinti di essere padroni assoluti e incontestabili dei figli. Molti di quei bambini del 1960, soprattutto i figli della media e alta borghesia, sono rimasti schiacciati e sono morti, devastati dalla droga o dall’Aids, o suicidi, molti sono sopravvissuti con una infelicità di fondo anche se hanno avuto un buon successo sociale, parecchi i delusi e comunque incompleti. Nessuno ha mai parlato di loro se non settorialmente e perlopiù per la dimensione politica del tempo.

Se i bambini di oggi sono trattati come delicati cristalli e si evita loro di affrontare anche il minimo stress è forse perché i loro nonni e genitori vogliono inconsapevolmente evitare loro le carognate subite più di mezzo secolo fa. Oggi si esagera con la protezione, anche tenendo conto che questi bambini hanno di fronte un futuro molto piu incerto e debole del nostro e dovrebbero essere meglio attrezzati, ma almeno non proveranno mai i pestaggi considerati normali sui piccoli, le violenze psicologiche considerate educative in molte scuole, la non esistenza in quanto bambini e ragazzi in un mondo di soli adulti.

Questo libro non lo scriverò mai, sia perché sono pigro sia perché avendo lavorato nell’editoria per una vita la detesto, odio editori e autori, un mondo spesso miserabile di cui non voglio più far parte. Però voglio presentarvi qui frammenti del materiale che ho raccolto nel tempo e che può essere di interesse generale. Ricordi miei e di coetanei.

Oggi vi racconto un episodio di bigottismo cattolico di inizio anni Settanta. In prima media fui iscritto alla Majno, a Milano, che era la scuola media del liceo Berchet, in pieno centro. Eravamo non più di venticinque in tutto nella sezione di tedesco, che avrebbe formato, secondo logica, una singola classe neanche troppo affollata in un periodo in cui le classi superavano anche i trentacinque ragazzi. Ma la preside, donna d’altri tempi, nella sua sincera preoccupazione di fornire l’ambiente di studio migliore per la futura classe dirigente, ritenne che sarebbe stato inopportuno mischiare i bambini ricchi con quelli poveri, ovvero i milanesi con i terroni, organizzò così due sezioni separate, ognuna con undici-dodici bambini. La prof di italiano della mia sezione, la C, quella nobile, si chiamava Maria Giuseppina e abitava in duecento metri quadri in corso Monforte a Milano, il quartiere più signorile della città; la prof dell’altra sezione, la D, si chiamava Cessi di cognome ed era identica a Beppa Giosef.

Per due anni noi della C non incrociammo mai nessun ragazzo della D, classe che avevano relegato in un’aula di fortuna al pianterreno. Tuttavia all’inizio della seconda forse per una svista amministrativa ci arrivò tra i piedi un bambino figlio di immigrati, con i capelli lisci e scuri scuri, il maglione marrone a losanghe. Aveva paura, non parlava mai, ci guardava solo, mostrando sempre un sorriso pietrificato. Dopo il suo arrivo cominciarono i furtarelli, più che altro dei dispetti; prima cominciarono a sparire le penne a sfera, poi quelle stilografiche, ma perlopiù saltavano fuori due o tre giorni più tardi, poi un giorno sparì l’orologio da polso che un ragazzo figlio di notaio aveva appoggiato sotto il banco per comodità. Le penne pazienza, ma l’orologio era un fatto grave. Era ora di dire basta.

In classe c’era il figlio di un potente ministro democristiano. Forse per osmosi famigliare di potere prese l’iniziativa di ripulire l’ambiente e il giorno dopo il furto arrivò in classe con una Bibbia. Dichiarò che noi tutti uno dopo l’altro avremmo dovuto giurare sulla Bibbia di non essere stati l’autore del furto. Chi non l’avesse fatto per timore del giusto castigo divino si sarebbe autoaccusato, sarebbe stato poi compito dei professori stabilire la sanzione. La cosa incredibile fu che l’ordalia casereccia avvenne con la piena approvazione di due insegnanti, che in realtà sapevano benissimo chi aveva fatto sparire l’orologio, peraltro già ritrovato nel cassetto di un tavolo, ma che forse apprezzavano quell’intento morale, o forse si stavano solo divertendo. Tutti giurarono, tranne me che avevo trovato la faccenda turpe, così divenni il colpevole anche se per pochi istanti perché ovviamente nessuno dei miei compagni prese in considerazione l’ipotesi. La prof di lettere confermò ufficialmente che io non c’entravo niente e la cosa finì lì con la sensazione generale che il metodo di indagine adottato non era efficace.

Resta il fatto che nel 1972 in una scuola di Milano era perfettamente normale separare i bambini meridionali da quelli milanesi ed era perfettamente normale ricorrere a pratiche tribali per risolvere il problema di furtarelli da parte di un ragazzo che evidentemente si era ritrovato dove mai avrebbe voluto essere. Adesso a scuola se starnutisci chiamano lo psicologo, ma a quei tempi i bambini non erano persone, erano solo esseri più o meno viventi in fastidiosa (per gli adulti) attesa di diventare grandi e utili. Se a scuola o comunque nel corso della loro giovane vita avevano dfficoltà erano cavoli loro, anzi andavano puniti per il fastidio arrecato. Alcuni di noi del 1960 di fronte a un brutto voto erano apostrofati con la minaccia del riformatorio, il carcere minorile. Se andava bene la prospettiva era il collegio, “ti sbatto in collegio”, “ti mando dai barnabiti” erano frasi molto apprezzate da parecchi genitori. Alcuni genitori tra cui i miei andavano sullo psichiatrico: se vai avanti così ti facciamo ricoverare in manicomio.

Non tutti gli adulti e non sempre, anzi, ma il clima sociale lasciava spazio ai genitori di animo  cattivo, ed erano tanti.

Alla terza media cambiò la preside, le due classi furono riunite e diventammo tutti amici in mezza mattinata.

Il figlio del ministro è poi diventato senatore, oggi gestisce le tenute agricole di famiglia. È una brava persona e sono certo che lo fosse anche suo padre, il quale sospetto avesse avuto l’idea della farsa. Erano davvero tempi assurdi in un Paese molto arretrato culturalmente, ancora in fiduciosa attesa di rivoluzioni proletarie da un lato e di golpe fascisti dall’altro, con in mezzo una Chiesa che aveva a cuore solo il fatto che le ragazze arrivassero vergini al matrimonio.

Così come noi della C avevamo avuto l’intruso con i maglioni a losanghe e i pantaloni di fustagno che identificavano allora il meridionale, quelli della D si erano ritrovati un intruso figlio di intellettuali milanesi, forse perché abitava oltre la circonvallazione esterna, confine ultimo del mondo civilizzato milanese. Ogni tanto mi sento con quel ragazzo di allora, ancora mi chiama il compagno delle medie, e se alcuni di noi della C che non hanno ereditato l’azienda o la carriera di famiglia hanno avuto una vita mediocre, lui della D dal nulla è diventato ricchissimo e influente nel suo campo. Quando ci vediamo non perde quasi mai occasione di farmi intendere che è pieno di soldi, hai visto caro il mio fighetta della sezione C?

Tutta questa amara faccenda ebbe però per me un risvolto positivo. Passata la tentata ordalia, i miei compagni tornarono all’attacco con una petizione per l’allontanamento dell’outsider. Sulle prime mi dissi d’accordo, ma al momento di firmare e poi andare alla cattedra a presentare il foglio, la cosa mi parve così agghiacciante che lasciai perdere. Restammo in due seduti al proprio banco. Dissi all’altro: “Tu non vai?”. Lui rispose: “Ma ti sembrano cose da fare?”. Da compagni di classe Carlo e io diventammo amici per la pelle.

Il ragazzo dai capelli neri, qualche giorno più tardi sparì.

(Copyright © 2022 Andrea Antonini, Berlino; immagine di apertura, la scuola media L. Majno oggi, da Google Street con autorizzazione fair use).

4 commenti

  1. Troppo giovani per essere degli ideologizzati sessantottini e troppo vecchi per essere dei vacui paninari: siamo la generazione di mezzo, quella meno portata alle mode del momento.

    (Le discriminazioni nei confronti degli immigrati non le ho mai viste, né a scuola né altrove).

    • non erano discriminazioni in senso proprio, di fatto i ragazzi del sud potevano studiare e fare la vita di tutti gli altri; era un residuo ottocentesco di suddivisione sociale; esiste tuttora, se sei ricco non mandi tuo figlio alla scuola statale ma a quella privata; esistevano anche problemi reali, alle elementari della via Bocconi dove moltissimi ragazzini provenivano dal quartiere degradatissimo di via Pezzotti e dintorni, tra loro molti erano infestati da pidocchi e simili; i genitori milanesi facevano di tutto per non mandare lì i figli; facevano bene, male, non lo so, ma la situazione era spesso complicata;
      peraltro negli anni Ottanta ho studiato a Ginevra, da italiano nei negozi i commessi mi trattavano a volte a calci in culo; tipicamente facevano finta di non capire il mio peraltro perfetto francese e mi sfottevano con risolini di complicità con gli altri clienti;

      • Secondo i miei ricordi, all’epoca le scuole private erano frequentate dagli sfigati.

        In quanto ai razzisti, spesso si tratta semplicemente di stupidi, che sono stupidi qualsiasi cosa dicano su ogni argomento. Classificarli come razzisti, insomma, mi sembra improprio.

        Poi è vero che un tempo c’erano differenze oggettive. Leggendo i diari lasciati da partigiani giustiziati, ricordo di aver letto che uno di loro, un emiliano, diceva che le palermitane erano infrequentabili perché piene di pidocchi (sicuramente non lo erano quelle delle classi agiate del posto).

        • ma no dài, almeno a livello liceale il San Carlo, le Orsoline di via Lanzone, i barnabiti di via Commenda, il Leone XIII e alcune altre erano ottime scuole private;
          per il razzismo bisogna stare attenti, qui a Berlino le scuole primarie sono frequentate all’80 per cento da bambini che non conoscono la lingua, una percentuale non assimilabile e che per ovvi motivi non può imparare un tubo, ma se lo dici diventi razzista; così quei bambini vengono lasciati alla deriva nel nome del politicamente corretto mentre i figli dei tedeschi vanno alle scuole private, rimborsate dallo Stato;

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