MIO PAPÀ NEL DONBASS 80 ANNI FA

MIO PAPÀ NEL DONBASS 80 ANNI FA

Papà era un medico, lavorava per la mutua e all’ospedale dermatologico San Lazzaro di Torino, dove diventò primario. Gli piaceva raccontarmi i tempi della sua gioventù, quando era studente di medicina.
Ecco una delle sue storie.

MIO PAPÀ NEL DONBASS 80 ANNI FA

Ero matricola proprio all’inizio della guerra, nel 1940. Ben presto ricevetti la chiamata militare e mi destinarono come soldato di sanità. Due anni dopo ero stato promosso sergente ed ero in forza nell’ospedale militare di Torino.
Studiare e dare gli esami in università era difficile data la situazione bellica e i bombardamenti sulla città, in compenso l’ospedale era un’ottima scuola pratica.
Arrivavano camionate di militari feriti e malati, non c’era quasi mai tregua, lavoravamo giorno e notte, per riposare ci buttavamo distesi sulle barelle, tra un degente e l’altro.
Giovane com’ero, aiutavo in sala operatoria a tagliare e cucire, una cosa che pochi studenti di oggi possono sperimentare, ma quelli erano tempi di continua emergenza: avevano bisogno di me e di tutti i ragazzi che volevano iniziare una carriera medica.

Un giorno alla fine del 1942 il colonnello direttore dell’ospedale annuncia che una parte del personale doveva trasferirsi su un treno ospedale per una missione sul fronte orientale. Qualche giorno dopo partiamo.
A quei tempi un treno ospedale era composto da quattordici vagoni più locomotiva, aveva duecento posti letto e un equipaggio di cinquanta infermieri, otto ufficiali medici e farmacisti, più cinque infermiere non militari della Croce Rossa.

Viaggiammo per l’Italia fino a Tarvisio, poi attraverso la Iugoslavia, l’Ungheria, la Romania fino nel sud della Russia, arrivammo a una città chiamata Stalino, evidentemente in onore a Stalin.
Ci mettemmo nove giorni. Il treno si fermava spesso, dovendo dare la precedenza ai convogli che portavano truppe, armi, munizioni e rifornimenti. Era il febbraio del 1943: si era conclusa da poco la terribile ritirata dei soldati italiani dell’Armir, l’armata in Russia.
I superstiti erano raccolti alla meglio sotto le tende, al freddo e con pochissima assistenza, alcuni erano feriti, ma la maggior parte subiva le conseguenze dei congelamenti dovuti alla disperata marcia di centinaia di chilometri sulla neve.
Riportarli in Italia fu per loro la salvezza, e il nostro non era l’unico treno ospedale. In sosta nella stazione di Stalino c’erano quelli italiani e quelli tedeschi.

Ciò che mi colpì fu il fango che ristagnava dappertutto, non appena la neve si scioglieva. Gli abitanti erano cordiali, fin troppo. Un mattino sale sul vagone della farmacia un militare russo alto due metri, con un paio di spalle simili a un armadio.
Costui vestiva la divisa tedesca perché era uno dei prigionieri russi che avevano scelto di passare al nemico occupante per sopravvivere alla guerra mangiando il rancio, che i tedeschi lesinavano a chi restava fedele a Stalin.
Non erano pochi questi ex prigionieri, più di un milione, e li comandava Vlasov, un generale russo che combatteva per i tedeschi.

Questo uomo ingombrante esclama con il suo vocione: “Etìl, etìl!”, che in russo vuol dire alcol etilico. Finimmo per capire che non avendo la vodka si sarebbe accontentato di bere l’alcol denaturato.
Davanti ai nostri rifiuti, il gigante si fa avanti con prepotenza, afferra una bottiglietta con sopra scritto “etere etilico” e la tracanna d’un fiato.

L’etere etilico lo usavamo in quei tempi come anestetico al posto del cloroformio. Ci vennero i capelli dritti perché oltre a essere freddissimo al tatto, l’etere è tossico se ingerito. In effetti dopo pochi secondi il russo crolla giù privo di sensi, e tutti lo davamo per spacciato.
Con una barella lo portiamo a una vicina tenda dei suoi commilitoni spiegando il fatto, ma i militari russi non sembrano preoccuparsi. Lo sdraiano nella sua branda e lo lasciano lì.

Tre giorni dopo, con grandissima sorpresa di noi italiani, l’omone si sveglia, si rialza e se ne va solo un poco intontito.

Questo era un racconto sull’esperienza di guerra di papà sul fronte orientale. Oggi la città di Stalino si chiama Donetsk ed è la capitale di una delle repubbliche del Donbass. La città appartiene all’Ucraina occupata in questi giorni dalle truppe russe.
Mi chiedo, che fine avranno fatto i discendenti del bevitore di etere? Ma forse non esistono. I militari che, per sopravvivere, vestirono la divisa germanica furono tutti fucilati alla fine della guerra per ordine di Stalin.

 

 

 

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