SAN CARLO E LA STATUA DELLA LIBERTÀ

SAN CARLO E LA STATUA DELLA LIBERTÀ

Ai suoi 35 metri circa d’altezza si aggiungono le 120 tonnellate di peso e gli 84 anni per terminare i lavori che, a partire dai disegni realizzati nel 1598 da Giovanbattista Crespi (detto “il Cerano”), si protrassero fino al 1698.

Per circa due secoli fu la statua più alta del mondo, fin quando cioè Frédéric-Auguste Bartholdi, negli anni ’60 del XIX secolo, ne studiò la struttura per poi creare il modellino della Statua della Libertà di New York.

Questi sono alcuni dei numeri del “Colosso di San Carlo” di Arona, familiarmente detto “il San Carlone”, enorme statua cava all’interno sorretta da un’anima in pietra, mattoni e ferro, e ricoperta esternamente di lastre di rame.

San Carlo è rappresentato in piedi in abito talare, con rocchetto e mozzetta, nell’atto di benedire con la mano destra, mentre con il braccio sinistro appoggiato al corpo regge un volume.

Le proporzioni dell’opera stridono con il personaggio reale, perché Carlo Borromeo, spirato il 3 novembre del 1584, era esile, basso di statura e aveva un fisico diafano, ridotto a un mucchietto di pelle e ossa da continui digiuni e penitenze.

In compenso, l’uomo era animato da un carisma straordinario, che fece di lui uno dei campioni della Riforma tridentina.

Nella sua funzione di governo della più vasta diocesi europea, quella di Milano, della quale fu nominato Arcivescovo dallo zio Pio IV nel 1564, dimostrò di possedere un eccezionale autocontrollo.

Duro e imperscrutabile, nessuno vide mai il suo volto mosso da un sorriso o rigato da una lacrima.

Nato il 2 ottobre del 1538 da Giberto II, Signore di Arona e di quasi tutto il Verbano, e Margherita Medici di Marignano, fu avviato dalla famiglia alla carriera ecclesiastica.

Tonsurato a 13 anni, si laureò a Pavia in diritto canonico ed ebbe da subito chiara la distinzione fra la propria persona e l’ufficio che ricopriva.

Fedele al motto familiare (“Humilitas”) soleva indossare una tonaca sdrucita e ciabatte consumate, dormiva su un pagliericcio e si cibava come e quando capitava; quando però doveva presentarsi come “l’Arcivescovo” indossava i paramenti più belli, perché in quel momento rappresentava il Signore.

Da segretario dello Stato Pontificio durante il pontificato dello zio, riaprì i lavoro del Concilio di Trento, collaborando alla stesura dei decreti finali approvati nel 1564.

Come Arcivescovo di Milano improntò la sua attività pastorale, fra l’altro, alla diffusione del catechismo, costruzione di nuove chiese e dei primi seminari, istruzione e moralizzazione dei preti, istituzione dei registri parrocchiali, che in mancanza di un servizio d’anagrafe sono ancora oggi gli unici documenti consultabili per la ricostruzione degli alberi genealogici.

Invece di abbandonare la città come fecero tutti quelli che potevano, durante la terribile pestilenza del 1576 rimase a Milano per prendersi cura di ammalati e moribondi, e a epidemia finita percorse a piedi scalzi come ex-voto il tragitto fra Milano e Torino per adorarvi la Sindone.

Certo, nei confronti di crimini ed eresie, in sintonia coi tempi si dimostrò inflessibile, decretando numerose condanne a morte, alcune delle quali al rogo.

Consumato dallo stile di vita che si era imposto e provato dai lutti familiari che in rapida serie lo privarono dei suoi nove fra fratelli e sorelle, morì a soli 46 anni, e fu canonizzato nel 1610.


1 commento

  1. Caro Anselmo, c’è anche un rovescio della medaglia su Carlo Borromeo.
    Da quasi quattro secoli esistevano in Lombardia gli Umiliati, un ordine religioso-laico che deteneva l’organizzazione ed il monopolio dell’industria tessile. Per non dilungarmi guarda l’enciclopedia Treccani qui sotto:
    https://www.treccani.it/enciclopedia/umiliati_(Enciclopedia-Italiana)/
    Il 26 ottobre 1569 uno degli umiliati, Girolamo donato detto il Farina sparò al Borromeo, mancandolo. Quest’ultimo fece decapitare il Farina e due suoi complici. Non contento ottenne lo scioglimento dell’ordine. I beni e le industrie tessili vennero vendute ai privati, ma ciò causò la crisi di queste industrie, con disoccupazione, carestia e miseria, che furono tra le principali cause dello scoppio della pestilenza del 1576 (come si vede, anche nel passato le privatizzazioni sono state deleterie per la società).

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