“A MOON SHAPED POOL” DEI RADIOHEAD: UNA RECENSIONE INVIDIOSA

“A MOON SHAPED POOL” DEI RADIOHEAD: UNA RECENSIONE INVIDIOSA

Da più di vent’anni ho questa specie di fissa compulsiva di scrivere canzoni, registrarle, fare album, suonare dal vivo e tutto il resto. Nel farlo coinvolgo altre tre persone pazienti e comprensive, insieme ci diamo il nome Belzer (lo so, è il mio cognome, ci sto lavorando con uno specialista). Quelli che hanno il mio stesso problema sanno come vanno le  cose quando vuoi fare un disco nuovo: inizi a mettere insieme i pezzi più interessanti che hai scritto negli ultimi tempi e ci lavori su, dopodiché inizi a scremare, eliminando quei brani che sono “belli-ma-non-abbastanza” o “belli-ma-ce-n’è-già-uno-simile-e-più-bello”. Così queste canzoni nuove e promettenti vengono improvvisamente declassate a “scarti”, finendo per riempire il proverbiale cassetto. Solitamente questi pezzi meritano di restare a fare compagnia ai tarli, ma ci sono dei gruppi così illuminati e talentuosi che, radunando gli scarti accumulati negli ultimi anni, sono in grado di realizzare album di una qualità che i comuni mortali se la sognano.

Prendi i Radiohead. A moon shaped pool, il loro ultimo lavoro, è composto di undici tracce, otto delle quali sono pezzi vecchi che non erano mai riusciti ad entrare in una loro raccolta. Tecnicamente, degli scarti.  Ma basta ascoltare l’arrangiamento di “Burn the witch” (il primo pezzo del CD, proveniente dalle sessioni per Kid A, del 2000) per rendersi conto che gli scarti sono un’altra cosa. Gli archi nella strofa di questo brano (suonati con la tecnica chiamata “col legno battuto”) creano una costante tensione che sfocia in un inciso cupo e da incubo. Il basso distorto (come ai tempi di “Exit music for a film” o “The National anthem”), la ritmica, il falsetto di Yorke: tutto fa capire che siamo alle prese con un lavoro curato nel dettaglio. Altro che scarto. La sensazione continua nei brani seguenti: la malinconica “Daydream”, la sognante “Decks Dark”, la acustica “Desert island disk” (con i suoi echi di Neil Young e dei Doors), la nervosa “Ful stop”.
A metà disco, proprio quando inizio a pensare che potrebbe valere la pena di riaprire il mio personale cassetto, arriviamo a “Glass eyes”, uno dei tre pezzi realmente nuovi della raccolta: un gioiello impreziosito da un arpeggio di pianoforte su cui scivola una melodia malinconica, accompagnata da spettrali archi arrangiati con maestria da Jonny Greenwood. I restanti brani (la sincopata “Identikit”, l’ossessiva “The numbers”, il samba disperato di “Present tense”, la notturna “Tinker Tailor Soldier Sailor Rich Man Poor Man Beggar Man Thief”) restituiscono la sensazione di un album in cui si è cercata un’armonia tra gli strumenti “suonati” e l’elettronica, con un risultato equilibrato come non si sentiva dai tempi di Hail to the thief, uno dei miei preferiti. Torna in primo piano la melodia, costruita su quei giri armonici ricercati e mai scontati a cui i cinque di Oxford ci hanno abituato da tempo. Chiude la partita “True love waits”, l’inedito più vecchio (risale al 1995), uno dei brani più attesi dai tanti fan che si chiedevano (come il sottoscritto) come mai una composizione di tale bellezza non avesse ancora trovato spazio in un loro lavoro da studio. Pezzi come “True love waits” non saranno mai degli scarti. Forse la verità è che certe canzoni richiedono tempo. E sanno aspettare.

4 commenti

  1. Bella recensione davvero.
    L’album è ben fatto e lucido. Non sono più quelle novità sconvolgenti che ci si aspettava 10 anni fa ad ogni loro nuova uscita :)))

    • Grazie davvero dei complimenti, mi fanno molto piacere. Condivido la tua impressione su questo album, per me è stato il disco giusto per questo momento.

  2. Già, il vero amore aspetta!
    E il vero amore attende
    In soffitte infestate
    Ed il vero amore vive
    Di lecca-lecca e patatine!
    Complimenti per la recensione!

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