PIAZZA SAN BABILA, LA ROCCAFORTE NERA

PIAZZA SAN BABILA, LA ROCCAFORTE NERA

Ricordo ancora la brezza
che mi pungeva la pelle
e il terso cielo primaverile
sopra la nostra grande piazza
ormai vuota.
Giocavamo col tempo accanto alle colonne
aspettando la notte
e poi l’alba,
facendoci beffe del sonno più intenso.
Dove sono ora i vivi e i morti?
Cesare Ferri

 

Babila di Antiochia, un vescovo del terzo secolo dopo Cristo, morì martire e per questo venne venerato come santo. Il suo culto si diffuse dall’Asia Minore a tutto il Mediterraneo, per arrivare fino a Milano. Qui negli ultimi decenni del XI secolo, in una zona centrale non distante da dove sarebbe sorto il Duomo, fu costruita una basilica in suo onore.

La basilica e la piazza antistante sono da sempre un pezzo importante della storia della città, da qui presero il via le gloriose Cinque giornate di Milano. Durante gli anni settanta del Novecento questa zona diventò, in una Milano che pullulava di militanti di estrema sinistra, la roccaforte di una parte dei giovani di estrema destra detti sanbabilini.

Questi ragazzi che venivano spesso (ma non sempre) dalla “Milano bene”, leggevano Julius Evola, Friedrich Nietzsche, Ernst Jünger e Oswald Spengler e indossavano stivaletti Barrow’s, giubbotti di pelle nera, Ray-Ban da aviatore marchiando un’epoca.
Il periodo più significativo dell’esperienza “sanbabilina” si situa tra gli anni più caldi della Repubblica.

Alcuni di loro si addestravano per gli attentati, le rapine, la violenza e l’assassinio politico. Alcuni morirono in circostanze poco chiare, altri passarono in galera i migliori anni della loro vita, altri rientrarono nei ranghi.
Ricordiamo alcuni dei principali protagonisti di quella stagione.

 

Cesare Ferri

“Combattevamo per un ideale”. In questa breve frase che Cesare Ferri ripete spesso può rispecchiarsi una parte della sua generazione. “In realtà per difendere l’idea all’epoca era necessario lottare, perché noi eravamo davvero una trincea all’interno di una Milano dominata dai comunisti. Non picchiavamo per il gusto di farlo, ma per necessità. Il nostro mostrare i muscoli era determinazione e non narcisismo”.

Nato il 7 giugno 1951, Cesare Ferri, il più intellettuale di quei giovani, trovò la sua trincea nel centro di Milano. “Io, Di Giovanni e altri leggevamo eccome. Il primo libro di Evola l’ho comprato nel 1968 a diciassette anni; in quel periodo lavoravo in una libreria”.

PIAZZA SAN BABILA, LA ROCCAFORTE NERA

All’inizio degli anni settanta frequenta l’Università Cattolica, dove è iscritto alla facoltà di Filosofia. “Sentivamo molta musica a San Babila. Battisti, ovviamente, ma anche De André, che era un anarchico, e anche noi in realtà eravamo anarchici. Anarchici di destra”.

Anarchici con i coltelli, le pistole, le bombe a mano. Cesare Ferri commise degli attentati prima con le Sam (Squadre d’azione Mussolini) poi con Ordine Nero, e si ritagliò un posto di rispetto all’interno del variegato mondo della eversione nera.

Questo lo portò a essere incriminato come uno degli autori della strage di Piazza della Loggia a Brescia nel 1974. Riconosciuto innocente verrà scarcerato nel 1987, dopo tre anni e mezzo di detenzione.
Oggi è uno scrittore, autore di oltre venti libri dove continua a mettere in mostra un animo ribelle.

 

Maurizio Murelli

Per Maurizio Murelli “quella” piazza incardinata nel centro di Milano è stata una specie di madre affettuosa, con i colonnati che sembravano proteggere i giovani sovversivi come lui dal mondo esterno.
San Babila, piccola e illusoria isola di libertà in una metropoli dominata dai “rossi”.

Maurizio Murelli nasce a Milano nel 1954. Di famiglia operaia ha un carattere schivo e taciturno. Inizia a frequentare gli ambienti dei neofascisti milanesi che non ha ancora 18 anni, la sua vita rimarrà segnata per sempre dai tragici eventi del cosiddetto “giovedì nero”.

Il 12 aprile 1973 a Milano una manifestazione promossa dal Movimento Sociale Italiano (Msi) per “protestare contro la violenza rossa” degenera in violenti scontri che portano alla morte dell’agente della celere , ucciso da una bomba a mano lanciata contro i reparti della polizia.

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La sera prima, dopo averne discusso al bar Quattro Mori di via Borgogna con il missino Pietro De Andreis e con Mario Di Giovanni di Avanguardia Nazionale, quattro neofascisti avevano viaggiato fino a un traliccio tra gli sterpi di via Selvanesco.

Lì, Davide “Cucciolo” Petrini aveva custodito le bombe Srcm che Nico Azzi gli aveva venduto. Ne mise tre nelle mani di Maurizio Murelli. Bastava un segnale per scatenare l’inferno. E così andò.

Murelli venne arrestato insieme a Vittorio Loi pochi giorni dopo. L’Msi prese le distanze, anche se il sanbabilino nel momento dell’arresto aveva con sé la tessera del partito.

Condannato a 18 anni di reclusione per concorso morale in omicidio, uscirà in semilibertà dopo undici.
Oggi fa l’editore.

 

Nico Azzi

Nei lunghi anni di San Babila, fatti di lotte in piazza, di pestaggi, di azioni punitive, di ritorsioni, ma anche di notti trascorse a condividere con i camerati sogni, sofferenze e speranze, mai Nico Azzi, mantovano di Serravalle a Po, fu sfiorato dal dubbio di trovarsi dalla parte sbagliata.

Nato nel 1951, aderisce giovanissimo alle Sam, Squadre d’azione Mussolini, avvicinandosi poi, come collaboratore del periodico La Fenice, a Ordine Nuovo.

“Io mi batto per la dittatura militare. Con l’attentato al treno volevo scatenare il panico nel Paese, provocare una tensione politica tale da rendere necessario l’intervento del governo forte. Solo i colonnelli possono sistemare le cose in Italia”.

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Questo dichiarava il ventiduenne Azzi, catturato dopo il fallimento dell’attentato con cui sabato 7 aprile 1973 intendeva far saltare il direttissimo Torino-Roma.
La squadra politica della questura di Milano lo conosce bene, il suo nome figura da tempo nell’elenco dei più temibili personaggi neri: attentati con bottiglie incendiarie a Bergamo nel 1970, campi militari a Taleggio (Bergamo) e a Novi Ligure nell’estate 1971, assalto al liceo Manzoni di Milano nell’ottobre 1972.

Nico Azzi a Milano frequentava l’ambiente di ex-legionari, ex-paracadutisti, picchiatori professionisti e provocatori che ruotava ai margini del Msi. Militava nei gruppetti neri e frequentava i bar di San Babila.

Si fece tanti anni di carcere, spesso trascorsi negli ‘speciali’ (da Novara all’Asinara), in compagnia del ‘gotha’ del terrorismo nero. Una volta in libertà non riuscì a liberarsi del peso di quegli anni e dei ricordi che lo opprimevano.
Muore il 10 gennaio 2007 davanti alla televisione per un infarto.

 

Giancarlo Esposti

Giancarlo Esposti è fuori dagli schemi. Ama i Ray-Ban a goccia, marchio distintivo dei camerati, ma ha un trans come fidanzata e fa uso di marijuana. Stranezze che gli vengono perdonate in virtù del suo carisma, rafforzato da una non comune famigliarità con le armi e l’esplosivo.

Nato a Lodi nel 1949 fa il suo esordio criminale con una rapina a Milano nel 1967. Insieme a Gianni Nardi assalta una pompa di benzina e ammazza il gestore. Mentre al loro posto in galera finisce un innocente, Giancarlo trasforma la casa al mare dei genitori ad Alassio in una base operativa piena di armi.

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Ben presto diventa una delle teste più calde della scena sanbabilina, e sotto l’etichetta Sam, Squadre d’azione Mussolini, si esprime attraverso attentati dinamitardi a sedi del Partito comunista italiano e a sacrari partigiani.
Sparge volantini che inneggiano al duce: «La fede di ieri, la bomba di oggi, il coraggio di sempre riabiliteranno il fascismo. Viva l’Italia. Viva l’internazionale nera».

Tono dell’umore tendente alla depressione nei periodi di down, si ricovera in cliniche di lusso per le cure del caso.
La sua parabola termina il 30 maggio 1974 a Pian del Rascino, in provincia di Rieti, dove viene ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri.
Dopo morto, tentano di attribuirgli la responsabilità della strage di Piazza della Loggia a Brescia.

 

Gianni Nardi

Nato ad Ascoli Piceno nel 1946, appartenente a una nota famiglia di industriali marchigiani, Gianni Nardi studia nel collegio dei Barnabiti a Firenze. Dopo la maturità sceglie di intraprendere la vita militare entrando nel corpo dei paracadutisti con il grado di sottotenente.

Al contempo inizia anche la militanza politica avvicinandosi inizialmente alla Giovane Italia, organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano, poi alle Sam, Squadre d’azione Mussolini, e infine al movimento Ordine Nuovo nella città di Milano, dove presto diviene uno dei personaggi più importanti.

Alto, biondo, di una generazione più grande rispetto agli altri sanbabilini, il suo fascino risiede principalmente nel mistero. E nel silenzio. Se ne sta sempre appartato, non partecipa agli scontri di piazza e alle iniziative politiche.

Look d’ordinanza: Lacoste d’estate e giaccone militare d’inverno. Jeans o pantaloni militari. Anfibi. E gli inseparabili Ray-Ban. Sempre e comunque, di giorno e di notte. Una leggenda metropolitana lo dipinge come un habitué del valico di Brogeda, dove contrabbanda armi in compagnia di attrici porno.

In effetti, accusato di traffico d’armi, per diversi anni entra ed esce da San Vittore. Fino al 1974, quando, dopo la strage di Brescia e l’uccisione di Esposti, intuisce che le cose si stanno mettendosi male.

Decide quindi di fuggire in Spagna. Qui trova ufficialmente la morte nel 1976 in seguito a uno strano incidente stradale. Molti sostengono che sia stata tutta una messinscena per sparire definitivamente dal giro.

 

Rodolfo Crovace

Rodolfo Crovace, detto “Rudy Mammarosa”, nato nel brindisino nel 1953, a 18 anni si trasferisce a Milano per unirsi ai giovani sanbabilini. Grosso come un toro, mena come un fabbro e gira con due pistole nelle tasche del loden.

Da sottoproletario urbanizzato riesce in poco tempo nel non facile compito di integrarsi in un ambiente molto diverso da quello di origine. E a San Babila si integra davvero bene fino a diventare, per la sua socievolezza e per il suo coraggio, uno dei militanti più noti.
Tutti lo ricordano come un audace combattente di strada, un energumeno la cui fisicità gli consentiva di non indietreggiare al cospetto dell’avversario.

Ma era anche un personaggio spiritoso e perennemente proteso alla baldoria. L’incarnazione esemplare del gaudente cameratismo che caratterizzava i militanti di San Babila, che cercavano di imitare i legionari di Fiume e i loro dissacranti baccanali.

Quando ci fu la diaspora dei sanbabilini e la piazza passò di mano ai primi paninari, Crovace si trovò spaesato e non riuscì a trovare niente di meglio da fare che darsi allo spaccio di eroina come un delinquente comune.

Terminò la sua corsa nel 1984 a soli 31 anni, crivellato dai colpi dei carabinieri in uno squallido appartamento in zona ticinese. Impugnava una Beretta bifilare da quindici colpi nella mano destra e una Magnum 357 nella sinistra. Non era tipo da arrendersi.

 

Riccardo Manfredi

Una parabola simile è quella di Riccardo Manfredi. Alto, aitante, occhi sempre nascosti dagli occhiali da sole, strabordante dal punto di vista fisico, coraggioso, generoso e leale da quello umano.

Nel 1972 insieme ad altri tre camerati, Umberto Vivirito, Alessandro D’Intino, e Michele Rizzi, venne aggredito in via Torino da un gruppo di militanti di sinistra. Quattro contro tanti.

Manfredi si batte come un leone e riesce a minimizzare i danni, fino a che arrivano i carabinieri che arrestano i quattro sanbabilini e li portano a San Vittore. Da questo momento continua a entrare e uscire dal carcere per una serie di reati.

Nel 1974, con Michele Rizzi e Fernando Molina spara contro un gruppo di giovani di sinistra che stazionano davanti all’VIII Liceo scientifico di via Cesariano. Ma i tre sbagliano mira e colpiscono a una gamba Giancarlo Hu, di origine giapponese. Così Manfredi finisce di nuovo dentro.

Poi di nuovo fuori. Arrestato in seguito per reati comuni, viene accusato da diversi pentiti di aver ferito un carabiniere durante un conflitto a fuoco a Bologna. Nel 1978, prima di raggiungere il Palazzo di Giustizia di Milano per essere processato, tenta di evadere durante una traduzione carceraria, gettandosi da un treno in corsa. Muore sul colpo.

Nella sua breve vita fece in tempo a diventare padre di una figlia che non poté veder crescere e che oggi sta cercando di ricostruire la sua figura.

 

Salvatore Vivirito

Alto oltre uno e ottanta, blue jeans, giacca blu e capelli lunghi, Salvatore Vivirito detto “Umberto” morì il 19 maggio 1977, a soli 22 anni, a seguito di una ferita da arma da fuoco rimediata nel corso di una rapina di autofinanziamento in una gioielleria milanese.

Il ricavato di queste rapine serviva a pagare avvocati, stampare giornali e manifesti ed altre attività. Insomma, ad aiutare i camerati imprigionati e il movimento. Quella volta andò male.

Il titolare del negozio Ernesto Bernini, di 48 anni, reagì e colpì Vivirito con un colpo di 38 al fianco, il quale a sua volta rispose crivellandolo con sei colpi di pistola.

Entrato in Avanguardia nazionale a soli quattordici anni, a 16 anni aveva già scelto la strada della violenza, legandosi al mondo lombardo dell’eversione nera.

Era nel giro dei Sanbabilini, conosceva i neofascisti di Brescia. Si può dire che visse gran parte della sua vita in libertà provvisoria e che morendo si portò dietro i molti segreti di una vita violenta.

Il suo nome era entrato in tre grosse inchieste giudiziarie sui movimenti eversivi di estrema destra: quella sul Mar di Carlo Fumagalli, quella sulla serie di attentati compiuti in varie parti d’Italia da Ordine nero dal marzo 1974 al maggio 1975, e quella sul campo paramilitare scoperto ai primi di luglio del 1974 a Piano del Rascino.

 

 

 

1 commento

  1. Bei ritratti, complimenti.
    Poi vennero i paninari, il riflusso dell’impegno e del piombo, che divennero leggerezza, mode, hamburger. Qualcuno ha tirato un sospiro di sollievo (la gente comune e gli alti papaveri), qualcuno ancora rimpiange quei tempi. Essendo stato adolescente e giovane uomo negli anni ottanta, non riesco a capire fino in fondo le motivazioni che animavano questi ragazzi. Non mi vergogno di dire che in fondo capisco molto meglio i paninari, e che un po’ mi mancano. Troooppo giusto!

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