MICHELE VINCI E LE TRE BAMBINE

Antonella Valenti è una bambina di 11 anni, insieme alle cuginette Virginia e Ninfa Marchese, di 9 e 7 anni, accompagna la sorella Liliana alla scuola del pomeriggio, perché le aule a Marsala (provincia di Trapani) sono poche e bisogna fare i turni. Sono le 13.30 del 21 ottobre 1971. Solo Liliana torna dalla scuola nel tardo pomeriggio, le altre tre bambine sono sparite nel nulla.
La scomparsa preoccupa subito Vito Impicciché, il nonno materno. È lui che alleva Antonella e la sorellina, da quando i genitori sono andati in Germania in cerca di lavoro. Vito preferisce non telefonare all’estero, per ora. Sa che la figlia soffre di cuore, meglio aspettare. Chiede piuttosto aiuto ai vicini e ben presto molte persone si mettono alla ricerca delle bambine.
Il giorno dopo gli uomini impegnati nelle operazioni arrivano a 1500, più 250 soldati e i poliziotti del luogo. In particolare si cerca nei casolari abbandonati e negli edifici in costruzione, senza risultato. Nessuno ha visto niente, e non sembra che stavolta sia per omertà.
Solo dopo due giorni si fa avanti un testimone, il benzinaio Hans Hoffman. L’uomo dice di aver visto un trentenne alla guida di una Fiat 500 blu con a bordo alcune bambine che agitavano le mani come terrorizzate. Le indagini sono seguite dal procuratore Cesare Terranova (che nel 1979 verrà ucciso dalla mafia), il quale non crede molto alla pista indicata dal tedesco, ma fa comunque diffondere la notizia dai giornali.
I volontari che seguono le ricerche sono saliti a 3000 quando, il 26 ottobre, cinque giorni dopo la scomparsa, un manovale trova il corpicino della sola Antonella Valenti vicino a una scuola in costruzione. Il suo assassino aveva cercato di bruciarne il cadavere, ma le fiamme si erano spente subito.
Siccome da quelle parti erano passati diverse volte gli uomini impegnati nelle ricerche, si suppone che il cadavere sia stato portato lì di recente. L’ipotesi è confermata dalle analisi mediche, le quali stabiliscono che la piccola vittima è stata tenuta in vita per tre giorni, alimentata con pane e salame. Il corpo era completamente avvolto dal nastro isolante, che le aveva anche tappato la bocca e il naso, soffocandola.
La presenza del nastro potrebbe risultare utile alle indagini, ma per il momento crea solo confusione: un rappresentante di nastri adesivi viene quasi linciato dalla folla, anche perché sposato con una ragazza di soli 16 anni e perché guidava una 500, sia pure di colore chiaro. Altrettanto assurdamente, il gabbiotto del benzinaio tedesco viene semidistrutto da una sassaiola. Ci vuole poco, con quella tensione, per venire sospettati.
Finalmente avvisati, dalla Germania tornano Leonardo e Maria Valenti, i genitori di Antonella. Sono a pezzi per il dolore e ormai non hanno nulla da dire. Intanto, viene rintracciato il sospettato sulla 500 blu, si tratta del muratore Giuseppe Li Mandri. L’uomo dice che stava accompagnando le figlie all’ospedale quando era stato visto dal benzinaio.
Qualche giorno dopo, Li Mandri muore cadendo da un palazzo mentre sta facendo una riparazione. Il decesso alimenta nuovi sospetti tra l’opinione pubblica, ma viene catalogato dalle autorità come incidente sul lavoro. Su Li Mandri non c’erano mai stati dei veri sospetti.
Il procuratore Cesare Terranova, lavorando sedici ore al giorno, segue piuttosto la pista dei parenti e dei conoscenti delle tre bambine, due delle quali continuano a mancare all’appello. Ognuno deve spiegare con precisione dove si trovava in quel pomeriggio del 21 ottobre. Poi vengono scrupolosamente verificati gli alibi. «Se non trovo l’assassino finisco ricoverato in clinica», si sfoga Terranova con la moglie, «questo delitto non mi dà pace».
Durante il suo lavoro minuzioso, alla fine il procuratore scopre che Michele Vinci, zio di Antonella, non ha detto la verità. Aveva sostenuto di aver pranzato con la moglie, ma quest’ultima era in ospedale ad assistere la madre malata. Michele ha 30 anni, un carattere chiuso e solitario, lo sguardo allucinato, il corpo asciutto e muscoloso, il naso pronunciato.
Ha sposato Anna Impicciché, sorella di Maria (la mamma di Antonella), con la quale non ha avuto figli. Lavora come fattorino allo stabilimento cartotecnico Industrie Riunite San Giovanni, che produce anche nastro adesivo. Inoltre, l’uomo si era sempre mostrato molto disponibile con gli inquirenti, dando però informazioni false che hanno depistato le indagini. Michele viene sottoposto a un interrogatorio pressante, finché cede e confessa tutto: ha rapito lui le bambine.
Gli interessava solo Antonella, per questo aveva gettato Ninfa e Virgina Marchese, ancora vive, in un pozzo profondo trenta metri. Zio Michele aveva rinchiuso l’undicenne in qualche luogo per alcuni giorni e, infine, l’aveva soffocata con il nastro adesivo.
Quando il 9 novembre, seguendo le sue indicazioni, vengono recuperati i corpi delle altre due piccole, si scopre che erano sopravvissute senza ferite alla caduta ed erano morte solo nei giorni successivi per sete e fame. I frammenti delle loro unghie vengono trovati sulle pareti del pozzo che avevano cercato inutilmente di scalare. Particolare incredibile, se alle bambine fosse venuta l’idea di inoltrarsi per la buia galleria, dopo qualche decina di metri sarebbero arrivate all’aperto da un’uscita laterale.
Tutti conoscevano Michele come uno zio affettuoso, che trattava Antonella come una figlia riempiendola di regalini, e nel suo passato non c’erano mai state storie di pedofilia. Del resto, nessuna delle tre piccole era stata violentata. A meno che non sia impotente, allora, perché le aveva rapite e uccise?
Michele Vinci ha un quoziente intellettivo molto basso, a chi lo interroga non fa altro che ripetere le stesse parole come un disco rotto. La moglie Anna lo trattava come uno stupidotto, ma in carcere l’uomo tenta il suicidio prendendo a testate un muro, perché ne sente la mancanza. Solo dopo molto tempo fa una clamorosa rivelazione: avrebbe agito su ordine di Franco Nania, un insegnante di applicazioni tecniche di 43 anni.
L’uomo era diventato famoso nel suo settore per aver brevettato un nuovo tipo di «pallett», la piattaforma che serve da base ai carrelli elevatori per spostare i materiali industriali. Franco Nania è fratello del proprietario della fabbrica dove lavora Michele e, secondo quest’ultimo, sarebbe follemente innamorato della madre di Antonella, che però l’aveva sempre rifiutato. È stato lui, sostiene Michele, a commissionargli il rapimento per vendetta, e ha dovuto obbedire per non perdere il posto di lavoro.
L’insegnante, quando viene arrestato, si limita a dire «Michele Vinci è impazzito» e le indagini sul suo conto non portano a nulla. Si tratta di un uomo tranquillo e non c’è alcun riscontro alle affermazioni del suo accusatore.
Il processo contro Michele Vinci si svolge in due fasi nel 1973 e nel 1975. Il pubblico ministero è Ciaccio Montaldo, che nel 1983 verrà ucciso pure lui dalla mafia. Completamente scagionato Nania, Vinci viene condannato all’ergastolo. Durante il processo d’appello, nel 1976, Michele tira fuori una nuova versione, che scrive in carcere nel suo diario, poi sequestrato.

Antonella sarebbe stata rapita perché suo padre, Leonardo Valenti, avrebbe fatto uno sgarro alla mafia, rifiutandosi di partecipare alla banda che doveva sequestrare un chiacchierato deputato democristiano. Anche questa pista non porterà da nessuna parte a causa dell’inaffidabilità di Michele Vinci.
Si torna anche a parlare della orribile fine delle sorelline Marchese, perché i periti si accorgono solo ora che le due non potevano essere cadute giù per il pozzo senza procurarsi nemmeno una frattura. Osservato questo fatto inspiegabile, non viene trovata alcuna spiegazione plausibile.
L’ergastolo si trasforma in una condanna a 30 anni, per vizio parziale di mente. Sentenza confermata l’hanno successivo in Cassazione, con una riduzione a 29 anni.
In questa vicenda c’è, soprattutto, un importante particolare che non si è riuscito a spiegare in nessuno dei tre gradi di giudizio. Sul lunghissimo nastro adesivo avvolto intorno ad Antonella era stata trovata una ciocca di capelli lunghi. Capelli di donna.
Questo indicherebbe la presenza di una complice e darebbe un significato diverso al delitto, che non può più essere considerato come l’azione di un pazzo isolato. In un mondo ideale, quella ciocca sarebbe rimasta negli archivi in attesa che il progredire della scienza avesse permesso di analizzarla meglio. Invece, chissà che fine avrà fatto. Tutto quello che possiamo dire è che probabilmente Vinci aveva mentito, quando all’inizio ha detto di aver agito da solo.
A un certo punto, Paolo Borsellino, il magistrato che nel 1992 finirà ucciso anche lui dalla mafia (poco dopo l’amico e collega Giovanni Falcone), riapre il caso delle tre bambine nel tentativo di vederci più chiaro, ma deve rinunciare ad andare avanti per mancanza di nuovi elementi.
Michele Vinci è ritornato in libertà e dal 2002 vive in provincia di Viterbo, forse conservando un terribile segreto nella sua mente confusa.
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