CARLO NIGRISOLI UCCIDE LA MOGLIE CON IL CURARO

Il 14 marzo 1963, in un appartamento all’interno della rinomata clinica del suocero, la Casa di cura Nigrisoli, muore Ombretta Galeffi, 38 anni, madre di tre bambini.
Gli accertamenti medico-legali stabiliscono che è deceduta per un’iniezione di curaro, un potente veleno che i cacciatori delle tribù dell’Amazzonia utilizzano per intingervi le frecce con i quali uccidono le loro prede.
Naturalmente questo veleno può essere usato anche sugli esseri umani, come tutti i lettori di romanzi gialli sanno. Provoca la paralisi progressiva dei muscoli: la gola si chiude, braccia e gambe si paralizzano. La vittima non può più respirare e muore di asfissia nel giro di una decina di minuti.
Il potente veleno, sotto forma di sincurarina e in piccole dosi, viene utilizzato come anestetico negli ospedali. Lo usano anche nella clinica, che sorge nel centro di Bologna, dove è stata trovata morta la Galeffi. Chi l’ha uccisa?
Per gli inquirenti è stato il marito, il dottor Carlo Nigrisoli, 39 anni, figlio del professor Pietro, proprietario dell’ospedale privato e personaggio influente del capoluogo emiliano.
“Il delitto al curaro” strillano i giornali, raccontando la vita dei protagonisti.
Carlo Nigrisoli, obbligato dal padre, si è laureato controvoglia in medicina, ma odia lavorare a stretto contatto con i pazienti e nella clinica si occupa soprattutto di amministrazione. Appena può, il dottor Nigrisoli corre a godersi la bella vita e a praticare i suoi sport preferiti: il rally e la motonautica.
Molti anni prima, nel 1947, aveva conosciuto Ombretta Galeffi, sorella di un suo compagno di studi. Folgorato dalla ragazza, Carlo aveva combattuto energicamente i pregiudizi del padre, che avrebbe voluto prendesse per moglie una appartenente a un ceto più alto, di quello della figlia di un contadino e di una maestra.
Carlo fa di testa sua e nel 1950 sposa Ombretta. Subito dopo, però, si rende conto che l’unica decisione presa autonomamente nella sua vita si è rivelata fallimentare.
La moglie è una donna introversa, a disagio per l’alto livello sociale dei Nigrisoli e per la freddezza con la quale è stata accolta nella nuova famiglia. Il marito la rimprovera perché non sorride mai e lei si chiude sempre di più in se stessa.
Carlo Nigrisoli cerca di condividere con Ombretta la sua vita brillante e mondana, ma la donna preferisce stare in casa, la sera.
Insomma, sono completamente diversi: lei è una persona semplice, colta e sensibile, mentre lui è uno sbruffone, un tipo superficiale che ama i motori e la compagnia di amici e belle ragazze.
Carlo è anche spinto da un irrefrenabile desiderio di farsi bello agli occhi degli altri, che lo porta a raccontare un sacco di frottole alla gente.
Dopo la nascita del terzo figlio, Ombretta decide di non dormire più nella stessa camera con il marito e si dedica completamente al suo ruolo di mamma.
Ciò, però, non basta a riempirle la vita, come capiamo da quello che scrive di Carlo sul suo diario: “Credevo di trovare in lui un compagno affettuoso e comprensivo, oltre che un marito ligio ai suoi doveri. Un compagno che si aspetta con gioia alla fine della giornata per parlargli di ciò che ci passa per la mente e nel cuore, sicuri di essere ascoltati e compresi. Invece sono sola. I miei bambini e i miei doveri di moglie dovrebbero riempire la vita, ma non posso rinunciare alla felicità quando sono ancora giovane e ho nel cuore tanta capacità di amare… Sono stanca, proprio demoralizzata. Perché devo andare avanti così?”.
Carlo, nel frattempo, si cerca un’amante, poi un’altra, infine nel 1961 trova quella che lo colpisce nel cuore: Iris Azzali, un’infermiera ventiquattrenne simpatica e briosa. La ragazza, però, non si accontenta di una storia clandestina. Così un giorno, stanca delle promesse di Nigrisoli, decide di troncare la relazione.
Lui minaccia di suicidarsi, poi s’inventa che la moglie ha il cancro e che morirà nel giro di un paio di mesi, così loro potranno sposarsi. Infine, non sapendo più che pesci pigliare, chiede addirittura alla moglie di telefonare a Iris di non lasciarlo!
Ombretta, mite e remissiva, accetta l’incarico e chiama la rivale in amore. Ma i suoi nervi stanno cedendo, inizia a soffrire di un grave esaurimento nervoso, perde peso e uno psichiatra le ordina di prendere dei ricostituenti.
Anche il padre di Carlo, il professor Pietro Nigrisoli, è una figura importante in questa storia. È deluso dal figlio che invece di lavorare preferisce spassarsela mettendo a rischio l’onorabilità della famiglia, che vanta una figura leggendaria: Bartolo Nigrisoli, eccezionale chirurgo di Bologna e uomo tutto d’un pezzo, tanto che durante il fascismo preferì lasciare la cattedra universitaria pur di non giurare fedeltà a Mussolini.
Ma torniamo al delitto. La sera del 13 marzo 1963 Ombretta Galeffi rincasa verso le diciannove e trenta. Come al solito prepara la cena, controlla i compiti dei figli Raffaella, Guido e Anna, e dà loro il bacio della buona notte. Va a letto anche lei prima delle ventuno perché si sente sempre più stanca, decisamente non sta bene.
Arriviamo così alla tarda serata, alle ventitré circa. Carlo Nigrisoli, come racconterà in seguito, viene svegliato da alcuni rumori provenienti dalla camera della moglie. Trova Ombretta distesa sul pavimento, sta rantolando. Sentendole il polso debole, le inietta un cardiotonico.
Quindi la prende in braccio e scende le scale per portarla nell’ambulatorio della clinica, dove i suoi colleghi sapranno curarla meglio di lui. Invece la donna muore poco dopo. A quel punto, i medici non se la sentono di stilare un atto di morte per cause naturali. C’è qualcosa di poco chiaro in quel decesso.
Arriva anche il padre di Carlo, il professor Pietro che, saputo ciò che è capitato alla nuora, grida al figlio: “Disgraziato, che cosa hai fatto?”. Poi dice che sul corpo della nuora va fatta l’autopsia. Carlo balbetta qualcosa, ma non ribatte alle accuse.
Subito dopo, il professore Nigrisoli chiama la polizia per far arrestare il figlio, un gesto che colpirà molto l’opinione pubblica: la vecchia generazione dei Nigrisoli non conosce le mezze misure. In attesa degli agenti, Carlo capisce l’equivoco in cui è incorso.
Ha pensato che il padre lo accusasse di avere indotto, con la sua condotta di marito, la moglie al suicidio. Realizza improvvisamente che il padre l’ha incolpato di avere ucciso materialmente la donna!
Perdendo la testa minaccia di uccidersi o di ammazzare i poliziotti quando arriveranno, tanto che gli infermieri della clinica devono chiuderlo in uno sgabuzzino.
Partono le indagini e durante l’autopsia della donna vengono presi dei reperti per farli analizzare anche a Firenze, nel maggior istituto italiano di ricerca dei veleni, che però non riesce a individuare alcuna sostanza tossica nel corpo di Ombretta.
Invece, all’interno della siringa con la quale Carlo dice di aver iniettato un cardiotonico alla moglie, vengono trovate tracce di sincurarina, il farmaco a base di curaro. Secondo gli inquirenti, si tratta di omicidio.
Per poter sposare Iris, l’amante, Carlo doveva rimanere vedovo (non essendoci ancora il divorzio in Italia), e così deve avere somministrato, nel tempo, dosi di curaro a Ombretta al posto del ricostituente ordinatole dallo psichiatra, con l’intenzione di procurarle un infarto.
Probabilmente erano proprio quelle iniezioni a darle i malesseri. Il giorno in cui la donna gli ha annunciato che avrebbe lasciato Bologna per andare in vacanza con i figli, il marito deve aver deciso di farla finita una volta per tutte. Probabilmente sperava che i medici della clinica, tutti amici e colleghi di lavoro, non avrebbero creato problemi nello stendere un certificato di morte naturale.
Tutto chiarito, dunque? No. La procura di Bologna ordina altri esami di laboratorio. Da uno di questi risulta che nella siringa il curaro non c’è mai stato, mentre una successiva perizia conferma la presenza di tracce del veleno. Di certezze, insomma, non ce ne sono.
Intanto Carlo continua a contraddirsi nel raccontare che cosa è successo la notte in cui la moglie è morta, e a lungo andare le sue parole perdono credibilità. Eppure il medico, che si dichiara innocente, ha alcuni argomenti a suo favore.
Carlo Nigrisoli riconosce di essere stato un cattivo marito, ma non può essere accusato di omicidio solo per questo. Anche il padre, che all’inizio lo aveva accusato, cambia idea e sostiene la sua innocenza.
Se Carlo ha davvero avvelenato la consorte, perché nessun istituto è riuscito a individuare tracce di curaro nel sangue della donna? Se è colpevole, perché non avrebbe fatto sparire la siringa incriminata? Si fa strada un’ipotesi alternativa.
Caduta in un profondo stato di depressione, stanca della vita, Ombretta si sarebbe suicidata iniettandosi lei stessa la sincurarina dopo averla rubata nella farmacia della clinica…
Finita l’inchiesta, nel 1964 si apre il processo a Bologna.
Dopo 44 udienze, il 15 febbraio 1965 viene letta la sentenza: Carlo Nigrisoli è condannato all’ergastolo. Gli avvocati difensori ricorrono in appello e l’imputato, riconosciute le attenuanti generiche, ottiene una riduzione di pena a 24 anni.
Carlo Nigrisoli entra nel carcere di Padova continuando a gridare la propria innocenza. Dietro le sbarre, il medico non parla con nessuno durante l’ora d’aria e la sera, invece di guardare la tivù con gli altri detenuti, sta nella cella chino sui libri di medicina. È abbattuto, rassegnato, e nel 1973 tenta il suicidio avvelenandosi.
Nel 1979 il medico ottiene la semilibertà, ma davanti alla porta del carcere non trova Iris, l’amante di un tempo, ad aspettarlo. La donna si è sposata con Galeazzo Bonaccorsi, l’avvocato che la difendeva al processo al curaro, e ha due figli.
Nel 1988 Carlo Nigrisoli è un uomo completamente libero e l’11 novembre 1993 sposa Maria Pezzi, lui ha 69 anni, lei 47, è divorziata e madre di due gemelli. L’ha conosciuta grazie al cappellano del carcere e con lei ricomincia da zero. Muore nel 2006.
(Per gli altri articoli sui delitti famosi pubblicati da Giornale POP clicca QUI)