PAOLA MANTOVANI, ACCUSATA DI AVER UCCISO IL FIGLIO DI 14 ANNI

Alle 21.30 del 12 settembre 2001, i carabinieri di Modena ricevono una telefonata proveniente da Limidi di Soliera. Sembra che ci sia stata una rapina nella villetta della famiglia Nadalini, dove erano presenti solo la padrona di casa e il figlio Matteo, che è rimasto ucciso. Una cosa è certa, questa sarà una lunga notte per le forze dell’ordine.
La signora Paola Mantovani dichiara ai carabinieri che stava aspettando il ritorno del marito Roberto, il quale era andato nella vicina Carpi per comprare il gelato. Ecco la sua storia.
Quando sente il campanello, la donna schiaccia il pulsante per aprire il cancello pensando che sia il coniuge. Mentre esce per andargli incontro, viene afferrata e spintonata all’interno da due uomini in passamontagna. Probabilmente stranieri, dice lei. Uno dei due, puntandole la pistola, la conduce in cucina per prendere un sacchetto di plastica.
Poi la porta nella camera matrimoniale, dove i banditi spalancano i mobili alla ricerca del bottino. Scoprono la cassaforte e costringono la donna ad aprirla, facendole mettere sopra il letto quello che contiene: gli ori e un portafoglio rigonfio. Quindi, con il nastro isolante, la legano dalla testa ai fianchi avvolgendole anche le braccia. Dopo averla bendata, le spingono un fazzoletto in bocca come bavaglio.
Mentre un malvivente la trascina nel giardino dell’abitazione, Paola Mantovani intravede l’altro penetrare nella camera dove il figlio Matteo sta dormendo. Arrivati sul bordo della piscina del giardino, lo sconosciuto rompe un vaso di vetro sulla testa di Paola, senza farla svenire, e poi le lega anche le gambe con il nastro. Infine la butta in acqua nel punto più profondo per farla annegare. Quando i malviventi fuggono, la donna riesce a trascinarsi nella parte meno profonda della piscina e cercando di urlare, pur con il bavaglio in bocca, attira l’attenzione dei vicini.
I carabinieri passano a interrogare il marito Roberto Nadalini, che conferma di essere uscito alle 20, perché sua moglie gli aveva chiesto un gelato. Ritornato in meno di mezz’ora, viene avvertito da una donna affacciata a un balcone che sua moglie si trova in pericolo. Corre in piscina e libera Paola, la quale gli dice di andare a vedere se i banditi hanno fatto del male a Matteo. Entrato nella villa, Roberto trova il figlio con mani e piedi legati dal nastro adesivo, e un sacchetto infilato in testa. Glielo toglie troppo tardi, perché il ragazzo è morto soffocato da un pezzo. Non rimane che telefonare al 112.
Sentiti i coniugi, i carabinieri iniziano a esaminare la casa. Nella camera matrimoniale trovano preziosi sparsi sul letto e sul pavimento. Sono alcuni oggetti d’oro e un ciondolo con diamante, c’è anche un portafogli pieno di dollari. Nel cortile davanti all’abitazione, scoprono un sacchetto con dentro 245 mila lire, altri dollari e una collana, come se i malviventi lo avessero buttato mentre erano in fuga. La signora Ada Mantovani, madre di Paola, per tutta la sera si trovava nel suo appartamento al piano superiore della villetta, ma dichiara di non aver sentito nulla perché stava guardando la televisione.
Matteo Nadalini, la vittima, era un ragazzo di 14 anni con molti problemi. A 3 anni non riusciva a legare con i coetanei perché si esprimeva in maniera confusa. Lui capiva gli altri, ma non viceversa e questo lo faceva infuriare. Per i medici, il bambino soffriva di autismo, un disturbo psicologico che impedisce la comunicazione e fa chiudere in se stessi come ricci. I genitori non sono d’accordo, perché Matteo cercava continuamente la compagnia, anche se non riesce a ottenerla.
All’inizio della scuola elementare, il bambino dimostrava di apprendere e iniziava a parlare meglio, anche se non pronunciava ancora alcune consonanti. In terza elementare, all’improvviso, era diventato violento, strappava i capelli dei compagni e si sporcava con le feci. Secondo alcuni psicologi era vittima di stati di ansia, mentre per altri soffriva di disturbi dello sviluppo. In ogni caso, Matteo alternava momenti di quiete ad altri in cui si comportava come un pazzo furioso. Finita la crisi, provava vergogna e chiedeva scusa per il suo comportamento.
Alcuni mesi prima della morte, aveva iniziato ad aggredire sistematicamente la madre e la nonna, afferrandogli i capelli fino a strapparli. L’unico che riusciva a calmarlo era il padre. Viene deciso di somministrargli un fortissimo ansiolitico, poi gli psicofarmaci vengono aumentati, tanto che il ragazzino finisce in coma per intossicazione acuta. Una situazione che, ormai, peggiorava di giorno in giorno e alla quale non sembrava esserci soluzione.
I magistrati passano la lente d’ingrandimento sulla vita di Paola Mantovani, una donna trnquilla di 39 anni. Suo padre era morto da poco, dopo che una malattia degenerativa lo aveva consumato lentamente per 17 anni. Paola ha avuto un’infanzia serena e un buon rendimento scolastico. Si era diplomata in ragioneria e nel 1981 aveva sposato Roberto Nadalini. Dopo aver fatto la segretaria in alcune aziende, ora è impiegata come contabile in una vetreria.
Su Roberto Nadalini c’è ben poco da dire, si tratta del classico uomo tutto casa e lavoro. Piccolo imprenditore metalmeccanico, divide l’officina nella quale lavorano due operai con lo zio e il fratello. Ha un forte sentimento protettivo nei confronti della moglie.
Gli uomini dei Ris, il Reparto investigazioni scientifiche dei carabinieri, hanno finito di esaminare i reperti trovati sulla scena del delitto. Questi sono gli esiti.
Il nastro isolante che legava Paola era stato staccato dal rotolo con i denti: il Dna delle tracce di saliva corrisponde a quello della donna. Sul sacchetto di plastica che ha soffocato Matteo ci sono tracce genetiche della madre, e anche all’interno dei guanti di lattice abbandonati vicino alla piscina, quelli che sarebbero stati usati dai malviventi, si trovano tracce di sudore con il Dna di Paola.
A un mese dal delitto, Paola Mantovani viene arrestata con l’accusa di aver ucciso il figlio dopo avergli fatto ingerire una dose eccessiva di sedativi a base di promazina, che l’autopsia ha ritrovato nel suo corpo, per farlo addormentare profondamente. Ha poi ha imbastito la finta aggressione per scaricare la responsabilità su misteriosi malviventi stranieri.
Due giorni dopo, alla donna vengono concessi gli arresti domiciliari presso alcuni parenti in provincia di Mantova, con il divieto di vedere altre persone, compreso il marito. La donna tenta il suicidio e viene autorizzata a trasferirsi presso la suocera a Limidi di Soliera. Ogni tanto può incontrare il marito davanti a una persona di fiducia del giudice, il parroco del paese. Nel luglio del 2002 riottiene la libertà.
Nel processo di Modena del 2006, il giudice dichiara nulle le prove biologiche raccolte dal pubblico ministero, perché eseguite in assenza dei periti della difesa. I reperti sono stati distrutti durante gli esami, quindi non è possibile sottoporli ad altri test. Inoltre, il giudice osserva che non è stato trovato il complice, perché la donna, se davvero è stata lei, non può essersi avvolta da sola nel nastro adesivo che le avrebbe poi tolto il marito.
In conclusione, l’imputata viene assolta. Paola Mantovani si stringe forte a Roberto per la felicità. Lui non aveva mai smesso di sostenerla e insieme avevano lasciato il modenese per trasferirsi a Feltre, in provincia di Belluno, lontano dalle voci malevole del loro paese. «Grazie Matteo», singhiozza Paola Mantovani alzando gli occhi, «da lassù mi hai aiutato».
Nel processo d’appello a Bologna, due anni dopo, le prove annullate nel primo grado di giudizio vengono invece accettate dal nuovo giudice: la procura le avrebbe raccolte prima di inserire la Mantovani sul registro degli indagati solo perché non esistevano ancora elementi contro di lei. Inoltre, il giudice fa osservare che tutti gli oggetti usati per il delitto, compresi i guanti di lattice, erano stati presi nell’abitazione. Sorprende poi il fatto che i vicini, che abitano intorno al giardino con la piscina, non abbiano visto o udito niente. Altrettanto strano è che la Mantovani, condotta all’aperto, non avesse gridato aiuto.
Infine, per quale ragione i rapinatori avrebbero cercato di uccidere la donna e hanno soffocato il figlio, che tra l’altro stava dormendo e non dava fastidio a nessuno? Avrebbe avuto senso se li avessero malmenati prima, per farsi dire dove fosse la refurtiva, ma questa l’avevano già trovata… per poi buttarla via subito dopo. La donna viene condannata a soli 15 anni di reclusione, perché si considera un’attenuante lo stress procuratole dal figlio problematico.
La corte di Cassazione, nel 2008, accoglie il ricorso della difesa e annulla la sentenza d’appello. Non sarebbe vero che, sin dall’inizio, gli inquirenti non sospettassero di Paola Mantovani: il fatto di averle sottratto un mozzicone di sigaretta senza dirle niente, per prendere il suo Dna dalla saliva, dimostra il contrario. Quindi, il processo d’appello va rifatto con un altro giudice, senza tenere conto delle prove biologiche raccolte illecitamente quando la donna non era ancora nel registro degli indagati.
Così, nel 2009, l’imputata viene assolta nel processo d’appello bis. «Ora posso tornare a vivere», sospira Paola Mantovani. «Ho dovuto lasciare la casa, il lavoro e gli amici, ma per fortuna mi è stata vicina mia madre, che ha pregato per me giorno e notte, e mio marito, che mi ha difeso e sostenuto in questi otto anni».
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