BREIVIK UCCIDE 77 RAGAZZI PER XENOFOBIA

Breivik

Sono le 15 e 26 del 22 luglio 2011 quando una bomba, nascosta nel bagagliaio di un’auto parcheggiata, esplode a Oslo nella via in cui si trova la sede del governo norvegese. L’esplosione uccide otto passanti e ne ferisce più di duecento, rendendoli ciechi o mutilati. La strada sembra un campo di battaglia, con i frammenti delle facciate degli edifici sparsi ovunque. Un attentato gravissimo, che lascia sotto shock la città. E che meno di due ore dopo viene oscurato da un altro fatto ancora più terribile, messo in atto dalla stessa mano assassina.

Avviene sull’isola norvegese di Utoya, a cinquanta chilometri dalla capitale, dove si sta svolgendo l’annuale meeting estivo dei giovani laburisti, il maggiore partito di sinistra del Paese.
Un 32enne vestito da poliziotto sbarca dal traghetto e inizia a girare tra la folla. I ragazzi non sanno che si chiama Anders Breivik, e che non fa parte delle forze dell’ordine.

Due responsabili del campo, vedendogli addosso pistole e fucili, troppe armi per un agente di polizia, provano a fargli qualche domanda. Per tutta risposta, Breivik impugna una pistola e fa fuoco sui due. Sempre con la massima calma, quest’uomo alto un metro e novanta, biondo e stempiato, si dirige verso un capannone dove sono radunati molti ragazzi. Appena entrato, imbraccia un fucile automatico e li uccide uno dopo l’altro.

“Lì è iniziata la vera carneficina”, racconterà un’italiana che aveva accompagnato il fidanzato norvegese, uno degli organizzatori, e che preferisce rimanere anonima. “Ha inseguito anche chi era riuscito a scappare e a tuffarsi in mare per raggiungere un isolotto vicino”.

Il finto poliziotto fa una strage. Ci vogliono 90 minuti prima che le unità anti-terrorismo vadano ad arrestare Breivik: ormai ha ucciso 69 giovani tra i 14 e 20 anni, e un altro centinaio è rimasto ferito. Con le 8 persone uccise dall’autobomba di Oslo, fa un totale di 77 morti.
Ma chi è questo folle killer? E perché un giorno decide di uccidere?

Anders Breivik nasce a Oslo, capitale della Norvegia, il 13 febbraio 1979. Il padre, David, è un economista che lavora come diplomatico nelle ambasciate europee del proprio Paese. La madre, Wenche, fa l’infermiera. La coppia si separa quando il bambino ha solo un anno. David cerca in tutti i modi di ottenere la custodia del figlio, che però rimane alla madre.

Già all’età di quattro anni Anders attira l’attenzione degli psicologi: hanno notato che il bambino sorride anche quando è triste, per mascherare il suo vero stato d’animo. Dopo averlo esaminato, ritengono che la sua mente sia stata scombussolata dalla madre Wenche, che soffre di depressione. A loro parere sta educando precocemente il bambino alla sessualità, oltre a picchiarlo frequentemente dicendogli di volerlo morto. Ciononostante, il giudice ritiene sempre che Anders debba stare con lei e non con il padre. Intanto, la signora Wenche si sposa una seconda volta con un ufficiale dell’esercito.

Alle scuole superiori, inizialmente Anders si distingue per i buoni voti e perché difende i ragazzi deboli dai bulli. Ma attorno ai 16 anni si dà agli atti di vandalismo, distruggendo gli strumenti per la convalida dei biglietti nei veicoli pubblici. Viene pizzicato a imbrattare i muri e multato. Anders sosterrà che quando il padre è venuto a saperlo, ha deciso di non vederlo più. Il genitore, che lo ospitava tutte le estati nella sua villa in Francia, afferma invece che è stato il figlio a rompere qualsiasi contatto con lui.

Negli anni successivi, Anders comincia a criticare il comportamento della madre e della sorella nata dal secondo matrimonio. “Mia sorella ha avuto 50 partner e mia madre ha contratto un herpes genitale”, scrive scandalizzato nel diario. “Metà delle mie amiche possono essere definite promiscue perché hanno avuto più di 20 relazioni intime”. In generale, Anders critica il potere che viene concesso alla donna all’interno della famiglia. Lui stesso ritiene di essere stato “un po’ effemminato” a causa dell’educazione materna. Per il resto, il giovane ama trascorrere il tempo in palestra e si imbottisce di steroidi anabolizzanti illegali per diventare muscoloso.

Dopo l’università, Anders Breivik fonda un’azienda informatica con sei dipendenti. All’inizio ha successo, ma poi fallisce portandosi dietro uno strascico di guai finanziari. Rimasto senza soldi, deve tornare a casa dalla madre. Nello stesso periodo si sottopone a interventi di chirurgia plastica per rimodellare fronte, naso e mento, in modo da addolcire i suoi tratti che trova troppo squadrati.

Assunto nel reparto assistenza clienti di una società, Breivik si rivela molto gentile con i compatrioti norvegesi, ma piuttosto irritabile quando ha a che fare con africani o asiatici. Ai colleghi dà l’impressione di essere narcisista e megalomane.

In questo periodo frequenta gruppi xenofobi che hanno nel loro programma politico la cacciata dalla Norvegia degli immigrati non europei. La sua ossessione diventa “salvare” l’Europa cristiana dagli islamici e dai partiti di sinistra che, secondo lui, li spalleggiano. Odia il Partito laburista, il raggruppamento socialista che governa la Norvegia, al quale aderiscono anche i suoi genitori.

Breivik acquista armi in Polonia e ordina a un fornitore agricolo una partita di fertilizzanti al nitrato che, mescolato alla benzina, si trasforma in una potente bomba. Ormai ha deciso di agire, per questo prende forti dosi di efedrina, un potente farmaco che accresce aggressività, prestazioni fisiche e concentrazione.
Si convince che durante la sua azione dimostrativa finirà ucciso come un martire, per questo decide di festeggiare prima, sorseggiando vino francese in compagnia di due escort d’alto bordo.

Il 22 luglio 2011, Anders Breivik entra in azione con due attentati. Il primo attacco avviene alle 15 e 16, quando un bomba, nascosta nel bagagliaio di un’auto parcheggiata, esplode al Regjeringskvartalet di Oslo, la via in cui si trova la sede del governo norvegese.

Poi Anders Breivik prende la macchina e si dirige a Utoya, un’isola al centro di un lago a cinquanta chilometri dalla capitale dove si sta svolgendo la festa dei giovani simpatizzanti del Partito laburista. E anche lì compie una strage. Armato di fucile inizia a sparare su tutti quelli che incontra. “Qualcuno faceva finta di essere morto per salvarsi”, racconterà una testimone.

Breivik continua a uccidere per un’ora e mezza, compiendo un massacro che si conclude con l’arrivo dei motoscafi della polizia. Ormai ha ucciso 69 giovani, che aggiunti alle 8 persone uccise dalla bomba di Oslo, fa un totale di 77 morti. Appena vede arrivare gli agenti, l’assassino si arrende senza opporre resistenza.

Durante il processo, che si svolge a Oslo nel 2012, Breivik si lamenta perché, secondo lui, nelle udienze si è parlato troppo dei traumi dei famigliari delle vittime e non abbastanza della sua sofferenza nel vedere la Norvegia diventare una società multiculturale, perdendo le sue origini cristiane. Conferma di avere attaccato i giovani laburisti perché il partito al governo avrebbe permesso l’invasione degli islamici. Anzi, dichiara: “Mi scuso per non avere ucciso più persone”.

L’accusa chiede che venga considerato infermo di mente, in modo da rinchiuderlo in un manicomio criminale per tutta la vita. Sentito il parere degli psichiatri, il giudice lo riconosce sano di mente, condannandolo a 21 anni di prigione con la possibilità di chiedere la libertà vigilata dopo averne scontati 10. Troppo pochi per 77 omicidi, si direbbe, ma si tratta della pena massima prevista dal codice penale norvegese.

Il condannato viene condotto nella prigione di Ila, alle porte della capitale. Da questo momento Breivik passa il tempo in tre celle personalizzate di 8 metri quadri ciascuna: la camera per dormire, la stanza dove può guardare la televisione e usare il computer e quella della palestra personale.
Come ha osservato ironicamente il commentatore di un telegiornale americano, si tratta di uno spazio “più ampio di quello di gran parte degli appartamenti di New York”.

Mentre si trova in prigione, l’assassino riceve per l’ultima volta la visita della madre Wenche. La quale, malata di tumore, morirà una settimana dopo. Malgrado i dissidi del passato, il figlio le dice teneramente: “Scusa se ti ho rovinato la vita”. Lei, uscendo dal carcere, confida ai giornalisti: “Ho provato a odiarlo, ma non si può cancellare l’amore che si prova per un figlio”.

Malgrado tutti i comfort, nel gennaio del 2014 Anders Breivik fa uno sciopero della fame: esige il raddoppio della paga settimanale di 36 euro e chiede una nuova Playstation per i videogiochi. Quella che ha è un modello superato.



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