ANNAMARIA FRANZONI, LA MAMMA ASSASSINA DI COGNE

Annamaria Franzoni

Cogne, ridente località turistica della Valle d’Aosta, ore 8.30 del 30 gennaio 2002. «Mio figlio sta vomitando sangue! Venite, presto!». Con queste drammatiche parole gridate da Annamaria Franzoni al numero del pronto soccorso, inizia un terribile caso di cronaca.

Samuele Lorenzi, un bambino di tre anni, è disteso immobile sul letto matrimoniale della villetta familiare. Presenta una grande ferita sulla testa, dalla quale esce molto sangue. Uno spettacolo terribile. In attesa dei soccorsi, il piccolo viene lavato da Annamaria Franzoni e portato all’esterno, malgrado il freddo. Attenzioni che cancellano gran parte delle prove del delitto. Infatti, non c’è alcun dubbio che qualcuno ha aggredito Samuele, riducendolo in quello stato. Anche se, a quanto pare, la madre non se ne accorge, perché davanti ai soccorritori scesi dall’eliambulanza, spiega che il suo bambino si è sentito male. A loro basta un attimo per capire che Samuele è stato colpito con un oggetto pesante, e avvertono subito i carabinieri. Altro particolare strano, la donna non chiede se può salire sull’elicottero anche lei, per stare vicino al bambino mentre viene portato all’ospedale.

Poco dopo arriva di corsa il marito, Stefano Lorenzi, quasi insieme ai carabinieri. Uno dei quali assiste a una scena curiosa: la donna, che parla come se Samuele fosse già deceduto, continua a ripetere al marito sotto shock: «Facciamo un altro figlio, mi aiuti a farne un altro?».
Samuele viene dichiarato clinicamente morto nell’ospedale di Aosta solo alcune decine di minuti dopo, alle 9.55. L’autopsia stabilisce che aveva ricevuto 17 colpi con un oggetto di rame, del quale sono rimaste tracce microscopiche. L’arma del delitto, comunque, non verrà mai trovata.

Annamaria Franzoni, 30 anni, è nata a San Benedetto Val di Sambro, un piccolo comune in provincia di Bologna. Casalinga, è sposata dal 1993 con Stefano Lorenzi, 35 anni, perito elettrotecnico e consigliere comunale. Entrambi provenienti da agiate famiglie del bolognese, avevano deciso di trasferirsi nella villetta di Cogne. La coppia ha un altro figlio di 6 anni, Davide.

Nella sua nuova casa Annamaria non era serena: per lei era difficile occuparsi dei due bambini e gestire allo stesso tempo le faccende domestiche. Il medico di famiglia le aveva prescritto un antidepressivo, ma dato che il suo stato di salute non sembrava migliorare, si era separata momentaneamente dal marito per andare con i figli nel suo paese originario, dai genitori. Poi era tornata a Cogne.

Un’ora prima del delitto, aveva telefonato al marito Stefano dicendogli che non si sentiva bene. Allora lui le aveva mandato la guardia medica, alla quale la donna aveva spiegato di avere tremori, respirazione affannosa e nausea: i sintomi tipici di un attacco di panico.

Secondo la Franzoni, l’assassino sarebbe penetrato in casa mentre lei stava accompagnando l’altro figlio, Davide, alla fermata dello scuolabus. Durante gli otto minuti della sua assenza, uno sconosciuto sarebbe andato nella camera da letto con l’intenzione di farle un dispetto o di violentarla, ma trovando Samuele ha reagito colpendolo all’impazzata per poi scappare via. Ipotesi che non regge da molti punti di vista, a partire dal fatto che nessuna finestra è stata aperta, mentre la porta, dice la stessa Franzoni: «L’avevo chiusa a chiave e so bene quello che faccio».

In una conversazione intercettata dai carabinieri, il marito Stefano le spiega la contraddizione in cui è incorsa e allora l’indomani lei cambia versione: la porta, in realtà, l’aveva lasciata aperta.

La Franzoni viene continuamente intercettata a sua insaputa. A un’amica dice: «Non so cosa mi è succ…», poi si corregge subito con: «Non so cosa gli è successo».
Insieme ai parenti cerca di individuare un vicino sul quale scaricare la responsabilità dell’omicidio, e suo padre le consiglia: «Meglio se a farlo è stato un uomo senza figli».

In un’altra intercettazione, si sentono il padre e il marito di Annamaria ventilare l’ipotesi di far trovare un martello nel terreno dei vicini, per far credere agli inquirenti che si tratti dell’arma del delitto.

A marzo, la Franzoni viene indagata per omicidio e arrestata, ma due settimane dopo il giudice la scarcera perché non può inquinare le prove, e le prove contro di lei sono i numerosi piccoli schizzi di sangue sul suo pigiama, trovato sotto la coperta del lettone.

Le macchie sono talmente minuscole che per vederle bisogna metterle a contatto del luminol, un composto chimico usato dal Ris (il Reparto investigazioni scientifiche dei carabinieri). Nelle maniche del pigiama vengono trovati anche frammenti di materia cerebrale e di osso, volati lì mentre la donna colpiva selvaggiamente il figlio. Altre macchie di sangue sono finite sulle suole e all’interno delle ciabatte della Franzoni.
Mentre il mondo sembra crollarle addosso, Annamaria Franzoni soddisfa la voglia di nuova maternità mettendo alla luce Gioele, esattamente un anno dopo la morte di Samuele: «Questa nascita la considero un miracolo», dice radiosa.

Nel luglio del 2004 si svolge il processo di primo grado. La difesa sceglie il rito abbreviato, un procedimento più sbrigativo che esclude la condanna all’ergastolo. Durante le udienze, però, la Franzoni e il marito denunciano un vicino di casa, indicandolo come il vero assassino di Samuele. Secondo loro si tratterebbe di un tipo sospetto perché si traveste indossando occhiali scuri e parrucchino.

L’accusato risponde che, facendo il guardiano nel vicino parco nazionale del Gran Paradiso, gli occhiali da sole gli servono per proteggersi dal riverbero dei ghiacciai; quanto al parrucchino, lo mette soltanto perché si vergogna della propria calvizie. L’uomo è accusato dai coniugi di aver perseguitato Annamaria con le sue molestie, ma nessuno se ne era accorto prima e la donna non ne aveva mai parlato. Inoltre l’uomo ha un alibi, dato che la mattina del delitto aveva lavorato nel negozio di alimentari di famiglia.
La Franzoni verrà condannata, in seguito, a un anno e quattro mesi per calunnia. Intanto, per l’uccisione del figlio, dovrà scontare 30 anni di reclusione.

Il caso di Cogne viene cavalcato dalle reti televisive, che intervistano più volte la Franzoni. In video la si vede ripetere, tra le lacrime: «Non sono stata io». Nel programma “Porta a porta” di Bruno Vespa, le indagini sull’omicidio di Samuele diventano una specie di reality, dove la “casa” è il grande plastico della villetta di Cogne che troneggia al centro dello studio e i “concorrenti” sembrano essere gli ospiti fissi, che si accapigliano dividendosi tra colpevolisti e innocentisti.

Si tratta di una passerella che regala notorietà ai partecipanti: tra questi c’è Carlo Taormina, l’avvocato difensore della Franzoni. Dopo la condanna di primo grado, il legale fa un sopralluogo con i suoi periti nella villetta di Cogne alla ricerca di prove per scagionare la cliente.

I risultati sono clamorosi: si sarebbe trovata una impronta digitale insanguinata dell’assassino e la scia di goccioline di sangue lasciate mentre fuggiva. In realtà, l’impronta digitale era di uno dei periti e non era sporca di sangue, come non erano macchie di sangue nemmeno le goccioline per terra. La famiglia Lorenzi, insieme a due medici legali e a un detective assoldato da Taormina, viene indagata per frode processuale. E a novembre del 2006, protestando contro quella che secondo lui è “una sentenza già scritta”, Carlo Taormina abbandona la difesa della Franzoni.

Il processo di appello si svolge nell’aprile del 2007. Annamaria Franzoni non accusa più il vicino, per prendersela con una vicina. Tra le due, in passato, c’erano stati piccoli screzi. D’altra parte, era stata proprio la vicina che la Franzoni aveva chiamato per prima quando c’era da soccorrere il figlio. «In quel momento non sapevo che fosse stato ucciso», si giustifica la Franzoni, «pensavo ancora che gli fosse scoppiata la testa». Per gli inquirenti non c’entra niente neppure la vicina, perché nella camera matrimoniale ci sono solo le tracce della Franzoni.

La sentenza d’appello riduce la pena a 16 anni, essendo state riconosciute all’imputata le attenuanti generiche.
 Con l’indulto gli anni di reclusione a carico di Annamaria Franzoni scendono a 13, e poi a 11. L’anno successivo la Cassazione conferma la sentenza d’appello e il procedimento si chiude. Una perizia psichiatrica stabilisce che la Franzoni è affetta da nevrosi isterica, cioè è portata alla teatralità e alla simulazione, perché sarebbe incapace di affrontare da persona matura i problemi della vita di tutti i giorni. Inoltre, ci sarebbe il pericolo che la donna possa commettere lo stesso delitto, per questo le viene vietato di incontrare i figli da sola.

In ogni caso, il problema per il momento non si pone, perché viene rinchiusa nel carcere della Dozza, a Bologna. Da questo momento non vuole più vedere nessuno, oltre al marito. Nel 2013, dopo cinque anni di reclusione, ha iniziato a uscire dal carcere in regime di semilibertà. Nel 2018 la libertà diventa completa.

Ancora oggi gli abitanti di Cogne incontrano visitatori curiosi che fanno domande sulla famosa villetta. Nei bar, altri turisti chiedono le cartoline della casa. Davanti a quella villetta è stato messo un grande cartello giallo, nel quale si annuncia che è possibile comprarla o affittarla.

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2 commenti

  1. 5 anni di reclusione effettiva, dopo essere stata sempre condannata in tutti i gradi i giudizio.
    E poi non sarebbe vero che l’Italia è il paese di bengodi per i delinquenti nostrani e di importazione.

  2. Se metti disqus avresti molti più commenti…

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