UNO BIANCA, 103 AZIONI E 24 OMICIDI

La sera del 4 gennaio 1991, una pattuglia dell’Arma sta viaggiando a velocità sostenuta per le strade del quartiere Pilastro di Bologna. All’interno ci sono tre carabinieri: Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitilini. Forse i tre uomini stanno parlando delle rapine sanguinarie della Banda della Uno bianca quando, proprio in quel momento, avvistano una Uno bianca che va a passo di lumaca. Stefanini, alla guida, accelera per sorpassarla.
All’interno della Uno, i fratelli Savi guardano perplessi la scena. Cosa vogliono da loro i carabinieri? Forse cercano di chiudere loro la strada per prenderli in trappola. Nel dubbio Roberto, il primogenito, spara al conducente della pattuglia. Otello Stefanini, gravemente ferito, tenta di controllare la vettura, finendo però la corsa contro alcuni cassonetti.
Gli altri due carabinieri, Moneta e Mitilini, escono dall’auto per rispondere al fuoco. Riescono a ferire leggermente Roberto Savi, ma alla fine vengono falciati dalle più potenti armi dei delinquenti. Quando ormai i tre carabinieri sono riversi in un lago di sangue, i fratelli Savi li finiscono con un colpo alla nuca. Scene così, a Bologna, non si vedevano dai tempi della guerra.
Roberto Savi nasce a Forlì nel 1954. Da adolescente fa parte di un gruppo neofascista, a ventidue anni entra nella polizia per lavorare nella Volante di Bologna. Sposa Anna Maria Ceccarelli, ma la donna si accorge ben presto che Roberto è un uomo aggressivo, che a volte la minaccia persino con la pistola. Lui parla poco, frequenta solo i due fratelli e passa il tempo con i videogiochi. Un giorno, mentre è incinta, Anna Maria si sente male e gli chiede di andare a prendere delle medicine. Roberto non le risponde nemmeno e lei perde il bambino. In seguito ne avrà un altro.
Anche il secondogenito dei Savi, Fabio, nato nel 1960, aveva fatto domanda per entrare nella polizia, ma a causa di un disturbo agli occhi non era stato accettato. Dall’età di 14 anni fa lavori saltuari, che finisce per perdere a causa del suo carattere aggressivo. Alla fine mette su una piccola carrozzeria a Torriana, vicino a Rimini, la città in cui convive con Eva Mikula, una biondina romena.
Con l’idea di ripianare i numerosi debiti di Fabio, il fratello Roberto gli propone di compiere qualche rapina. Il primo colpo, di un milione e 300mila lire, i Savi lo mettono a segno nel giugno del 1987 al casello autostradale di Pesaro. Avendoci preso gusto, nei due mesi successivi rapinano altri 12 caselli.
Anche se ormai i debiti di Fabio sono più che ripianati, a ottobre i Savi minacciano anonimamente Savino Grossi, un auto rivenditore riminese, chiedendogli una grossa somma di denaro. Grossi finge di accettare, ma al momento del pagamento si fa accompagnare da alcuni agenti. Nel conflitto a fuoco che ne segue, un poliziotto, Antonio Mosca, viene raggiunto da un proiettile. Morirà due anni dopo per le conseguenze della ferita.
Roberto e Fabio Savi mettono insieme una banda, che in seguito i giornali chiameranno “la Banda della Uno bianca” perché agisce quasi sempre a bordo di questa vettura, la più diffusa dell’epoca e quindi difficilmente individuabile. I due fratelli parteciperanno a tutte e 103 le azioni criminali della banda, mentre diversi soci si alterneranno al loro fianco.
Tra loro c’è anche l’ultimogenito dei Savi, Alberto (nato nel 1965), pure lui poliziotto a Rimini. Avendo un carattere debole, si lascia trascinare dai fratelli maggiori senza opporre resistenza. E agenti di polizia sono anche gli altri tre elementi del gruppo: Pietro Gugliotta, operatore radio alla questura di Bologna; Marino Occhipinti, vice sovrintendente della sezione Narcotici della Squadra mobile, e Luca Vallicelli, agente scelto a Cesena.
Nel gennaio 1988, durante la rapina a un supermercato, la banda uccide la guardia giurata Giampiero Picello. Il mese dopo viene uccisa un’altra guardia giurata, Carlo Beccari, davanti a un supermercato. Nell’aprile del 1988, i Savi ammazzano due carabinieri, Cataldo Stasi e Umberto Erriu, che li avevano fermati per un normale controllo.
Nell’anno successivo, a perire sotto i colpi dei tre fratelli è Adolfino Alessandri, un pensionato che passa per caso mentre è in corso una rapina. Altre sei persone vengono uccise durante i vari colpi messi a segno nel 1990. Tra queste c’è Primo Zecchi, un semplice passante che i malviventi avevano avvistato mentre prendeva il loro numero di targa.
Nel gennaio dell’anno seguente avviene la strage del Pilastro, la più tristemente famosa di tutte quelle compiute dalla banda. Oltre ai tre carabinieri, sempre nel 1991 vengono uccise altre sei persone. Due della quali, i senegalesi Ndaj Malik e Babou Chejkh, per puro razzismo. Nel 1992, i Savi organizzano solo cinque rapine senza uccidere nessuno.
In tutto questo periodo i componenti della banda continuano, come se niente fosse, il loro normale lavoro nelle file della polizia. Roberto Savi, per aver rasato a zero un ragazzo trovato in possesso di droga, non viene più ritenuto adatto al lavoro sulla Volante e, con il grado di assistente capo, viene spostato all’interno della questura a operare con la radio.
I delitti continuano: nel 1993, due passanti vengono ammazzati dalla Banda della Uno bianca e, nel 1994, l’ultimo anno delle imprese dei Savi, vengono portate a compimento le rapine ad altre nove banche, durante le quali ci scappa “solo” un morto.
Dopo sette anni di terrore in tutta l’Emilia-Romagna, la magistratura di Rimini costituisce una task force per cercare di risolvere il caso una volta per tutte. Ma il pool viene sciolto pochi mesi dopo, in mancanza di risultati. Tuttavia due agenti che ne facevano parte, l’ispettore Luciano Baglioni e il sovraintendente Pietro Costanza, non vogliono darsi per vinti.
I due pensano che i criminali studino bene le banche prima di assaltarle, perché hanno dimostrato di conoscere alla perfezione le abitudini dei dipendenti. Per questo motivo, Baglioni e Costanza decidono di tenere d’occhio con discrezione gli istituti bancari delle zone in cui agiscono i rapinatori, nella speranza di scoprirli mentre fanno gli appostamenti.
Parrebbe un terno al lotto, ma nel novembre del 1994 scorgono Fabio Savi mentre effettua un sopralluogo a un istituto di credito di Santa Giustina, vicino Rimini. L’uomo è a bordo di un’auto con la targa irriconoscibile perché imbrattata di fango, così i due poliziotti decidono di seguirlo fino a casa sua, a Torriana. Sembra un caso davvero fortuito, anche troppo.
Sarà andata veramente così o i due agenti stanno coprendo un informatore che deve rimanere anonimo? Comunque sia, raccogliendo informazioni su Fabio Savi, scoprono che ha due fratelli poliziotti, e questo spiegherebbe perché la Banda della Uno bianca sembra sempre sapere dove è appostata la polizia.
Interrogando a fondo la compagna di Fabio Savi, Eva Mikula, un’immigrata priva di permesso di soggiorno, i due ottengono una piena confessione: la giovane ammette che i fratelli Savi sono a capo della Banda della Uno bianca.
La sera del 21 novembre, il questore di Bologna arresta personalmente Roberto Savi durante il suo turno alla centrale operativa. Pochi giorni dopo è la volta del fratello Fabio, catturato a pochi chilometri dalla frontiera con l’Austria, dove stava cercando di scappare.
Interrogati, i Savi ammettono senza battere ciglio di avere ucciso 6 carabinieri, 3 pensionati, 2 zingari, 2 immigrati africani, 2 guardie giurate, 2 benzinai, 1 poliziotto, 1 commerciante, 1 artigiano, 1 dirigente d’azienda, 1 fattorino, 1 elettrauto e 1 direttore di banca. In totale, 24 persone.
Quando viene a sapere di cosa sono accusati i suoi figli, il 72enne Giuliano Savi si suicida per il dispiacere.
Al processo, che si svolge nel 1996, Roberto Savi risponde alle domande in maniera beffarda e provocatoria. Tutti e tre i fratelli vengono condannati all’ergastolo, insieme al complice Occhipinti; Gugliotta a 18 anni di detenzione, mentre Vallicelli, che non aveva partecipato personalmente ai colpi, patteggia 3 anni 8 mesi. Eva Mikula, per la quale il pubblico ministero aveva chiesto 12 anni per aver svolto i sopralluoghi prima delle rapine, viene assolta tra le proteste dei parenti delle vittime.
Grazie all’indulto, Gugliotta torna completamente libero nel 2008. Occhipinti ottiene la semilibertà nel 2012. Nel 2008, Roberto Savi, lasciato dalla moglie che non lo aveva mai denunciato, si risposa con una donna olandese detenuta nel carcere di Monza.
Malgrado i loro avvocati abbiano inoltrato le richieste di scarcerazione, i tre fratelli sono tuttora detenuti.
“Ho un figlio, Simone, che oggi è un uomo adulto”, dice Roberto Savi. “Non so com’è, non ho nemmeno una sua foto. Non mi cerca e non mi telefona. Io continuo a scrivergli, anche se lui non mi risponde mai”. Con lo sguardo spento e rassegnato, parlando della sua banda dice: “Il male che abbiamo fatto è tanto. Forse per noi sarebbe stato meglio morire tanti anni fa”.
(Per leggere gli altri articoli sui delitti famosi pubblicati da Giornale POP clicca QUI).