SCOPERTO DOPO UN SECOLO L’ASSASSINO DI PETROSINO

SCOPERTO DOPO UN SECOLO L'ASSASSINO DI PETROSINO

«La mia famiglia è mafiosa da più di cento anni: è stato Paolo Palazzotto, lo zio di mio padre, a uccidere quel famoso detective, Joe Petrosino, che dall’America era venuto in Sicilia a rompere le scatole. Lo ammazzò per conto di Vito Cascio Ferro nel 1909…».

Durante le intercettazioni agli investigatori capita di scoprire i responsabili di un delitto diverso da quello su cui stanno indagando, ma mai ci si sarebbe aspettato, attraverso le parole del ventottenne Domenico Palazzotto, di venire a capo di un celebre caso che risale all’inizio del Novecento: l’omicidio del tenente di polizia Joe Petrosino.

Ai suoi tempi Paolo Palazzotto l’aveva fatta franca, ma non sembra che lo stesso si possa dire del discendente Domenico, che nel 23 giugno 2014 è finito in carcere insieme ad altre 94 persone con l’accusa di essere uno dei personaggi di spicco della mafia siciliana.

La notizia ci fa tornare al secolo scorso, ma la storia inizia ancora prima. Giuseppe Petrosino nasce a Padula, in provincia di Salerno, il 30 agosto 1860. Il padre Prospero è un povero sarto che riesce comunque a far studiare i figli. Quando Giuseppe ha 13 anni, emigra in America con la famiglia.

Come molti italiani che attraversano l’Oceano in cerca di fortuna, i Petrosino si stabiliscono a Little Italy, nel cuore di New York. Il giovane Giuseppe, che ora si fa chiamare Joe, inizia a lavorare per strada vendendo giornali e lucidando scarpe. Davanti alla centrale della polizia trova molti clienti tra gli agenti: fare il poliziotto è sempre stato il suo sogno.

A 18 anni, ottenuta la cittadinanza americana, Joe Petrosino cerca di entrare nel corpo, ma viene rifiutato e deve ripiegare sul mestiere di spazzino. Negli stessi anni cresce la potenza della mafia, portata in America dagli immigrati siciliani. I poliziotti, quasi tutti ebrei o irlandesi, non sanno che pesci pigliare. Siccome i netturbini dipendono dal dipartimento della polizia, i superiori arrivano alla conclusione che Joe potrebbe aiutarli dato che, per lo meno, capisce la lingua dei mafiosi.

Joe Petrosino passa così diverse dritte alla polizia finché, nel 1883, viene finalmente accolto come agente malgrado non raggiunga il metro e sessanta d’altezza. Per la determinazione mostrata nel combattere i criminali che infangano il buon nome degli italiani Petrosino finisce per entrare nelle grazie di Theodore Roosevelt, il capo della polizia, che a 35 anni gli toglie la divisa per metterlo in un ufficio con il grado di sergente.

Ora che Petrosino conduce le indagini, diventa ben presto un personaggio popolare: i giornali parlano dei casi che risolve travestendosi da delinquente o guidando di persona gli attacchi ai covi della “Mano nera”, nome con il quale si fa chiamare la mafia in America. Per cambiarlo negli anni successivi in “Racket” (dall’italiano “ricatto”), “Sindacato” e, infine, “Cosa nostra”.

Non volendo mai sfigurare, Joe Petrosino cura il proprio abbigliamento nei minimi dettagli: bombetta, abito scuro, camicia bianca e scarpe con il tacco alto per guadagnare qualche centimetro. Durissimo nei confronti dei criminali italoamericani, Joe si rende però conto che molti di loro hanno imboccato quella strada a causa della povertà e dell’ignoranza.

Non si occupa solo di mafiosi. Infiltratosi tra gli anarchici che avevano spedito in Italia l’assassino di re Umberto I, Petrosino scopre che anche il presidente americano William McKinley sarà ucciso durante una visita alla città di Buffalo. I servizi segreti non gli danno retta e, nel 1901, il presidente viene ucciso a Buffalo proprio come previsto.

Quando, due anni dopo, il cantante Enrico Caruso, celebre in tutto il mondo per la canzone “O sole mio”, viene ricattato da alcuni mafiosi durante la sua tournée americana, Petrosino arresta i malviventi con grande clamore dei giornali. Nello stesso 1903 dentro un barile viene trovato il cadavere di un uomo sfigurato. Petrosino scopre che era un mafioso ucciso per un regolamento di conti dal boss Vito Cascio Ferro, il quale riesce a fuggire in Sicilia prima dell’arresto. Lo scontro tra i due è solo rinviato.

Nominato tenente, nel 1905, Petrosino organizza una piccola squadra di cinque poliziotti specializzati nelle operazioni antimafia, chiamata Italian Branch (“Filiale italiana”). Quando gli uomini ai suoi ordini salgono a una trentina, il nome viene cambiato in Italian legion (“legione”, come i reparti di battaglia degli antichi romani).

Theodore Roosevelt, il suo vecchio capo che nel frattempo è diventato presidente degli Stati Uniti, è molto contento di Petrosino: dopo che ha operato 2500 arresti ed espulso 500 gangster, gli conferisce una medaglia al valore. Nel 1907, Joe sposa Adelina Saulino, una vedova di 37 anni.

Dall’Italia, il capo del governo Giovanni Giolitti gli fa avere un orologio d’oro con incisa questa dedica: “In segno di riconoscimento per l’intelligente opera nell’identificazione e nell’arresto dei criminali sfuggiti alla giustizia italiana”.  

Petrosino arriva alla conclusione che per stroncare una volta per tutte la mafia deve andare in Sicilia. Il suo piano è quello di creare nella regione italiana una rete di informatori per scoprire immediatamente i criminali che sbarcheranno in America.

I motivi della missione rimangono segreti, ma i giornali parlano della sua partenza per l’Italia. Lui non se ne cura, convinto che, come in America, anche lì nessuno oserà toccarlo per paura della rappresaglia della polizia. Il suo unico cruccio è quello di lasciare la figlioletta nata solo due mesi prima.

Il 22 febbraio 1909, Joe Petrosino è a Roma, dove ottiene dal ministro dell’Interno un lasciapassare per la sua missione ufficiale, quella di esaminare i precedenti penali di alcuni pericolosi criminali trasferitesi in America. Per un pomeriggio si ferma a Padula, dove riabbraccia il fratello che da alcuni anni è tornato al paesello.

Il 28 giunge a Palermo. Alla moglie scrive: “Non mi piace l’Italia. Dio quanta miseria!”. Al console americano di Palermo spiega che non dovrà indagare solo sui criminali, ma anche sui politici e gli imprenditori collusi con la mafia. Invece non riesce a scoprire nulla neppure sui pregiudicati emigrati in America, perché negli archivi del tribunale siciliano i loro fascicoli sono stati svuotati e le cartelle penali abrase per cancellare le condanne.

La sera del 12 marzo 1909, quattro colpi di pistola abbattono il quarantanovenne tenente Joe Petrosino nei pressi del giardino Garibaldi di Palermo. Alcuni giorni dopo, New York rimane bloccata dalle 250 mila persone che sfilano al funerale del detective.

Il governo americano offre 10 mila lire a chi fornirà informazioni utili. Non ne arriva nessuna. La polizia italiana, dopo aver letto il nome di Vito Cascio Ferro in cima alla lista dei criminali più pericolosi lasciata da Petrosino in albergo, indirizza le indagini su questo pregiudicato.

Era tornato in Sicilia per sfuggire alla cattura quando Petrosino aveva scoperto che aveva ucciso l’uomo nel barile. Durante l’arresto, a Cascio Ferro viene trovato addosso una foto del detective americano. Al processo, nel 1911, viene assolto perché ha un alibi di ferro: la sera del delitto stava cenando con un amico deputato.

Anche i pregiudicati Antonino Passananti e Carlo Costantino, accusati di essere i sicari, vengono assolti insieme a lui. Come pure Paolo Palazzotto, un altro delinquente scappato dall’America a causa di Petrosino, accusato genericamente di complicità. A svelare, più di cento anni dopo, che in realtà era stato lui a uccidere materialmente Petrosino sarà, come abbiamo visto, un discendente della sua famiglia.

Il mandante, Vito Cascio Ferro finirà condannato all’ergastolo per altri delitti alcuni anni dopo. Morirà di sete e di fame nel 1943, durante la Seconda guerra mondiale, dimenticato in cella durante l’evacuazione del carcere di Pozzuoli causata dai bombardamenti.

Subito dopo la morte, Joe Petrosino viene trasformato in una specie di Sherlock Holmes “terrore della Mano nera” in diversi fascicoli con racconti fantasiosi pubblicati in Germania, Francia e Italia. Durante il fascismo diventa un eroe dei fumetti che combatte un supercriminale ebreo.

Il personaggio torna nella sua dimensione reale in uno sceneggiato della Rai tramesso nel 1972, intitolato semplicemente Joe Petrosino, interpretato dal carismatico Adolfo Celi. Nel 2006, a interpretare Petrosino in televisione è Beppe Fiorello.
Nel 2017, la Bonelli pubblica nella collana “Le storie” l’albo scritto e disegnato da Onofrio Catacchio: La Mano Nera, dedicato al famoso poliziotto italoamericano (poi ristampato in volume).



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