ROBERTO SUCCO, IL KILLER DELLA LUNA PIENA

Roberto Succo

È il 12 aprile 1981, da due giorni l’appuntato Nazario Succo, 53 anni, non si presenta al lavoro nella questura di Mestre, la città che forma un unico comune con Venezia. Siccome non aveva chiesto permessi e non ha telefonato per comunicare di essere malato, il commissario manda due agenti a controllare.

I poliziotti, dopo aver inutilmente suonato alla porta, decidono di entrare sfondando una finestra. All’inizio non vedono tracce dell’appuntato, nemmeno della moglie Maria e del figlio Roberto. Poi gli agenti arrivano in bagno. Nazario e Maria sono lì, dentro la vasca piena d’acqua insanguinata, con i corpi trafitti dalle coltellate. Un duplice omicidio apparentemente inspiegabile, se si tiene conto che Succo lavorava in archivio, dove non aveva modo di inimicarsi i delinquenti.

La scientifica cerca di fare una prima ricostruzione dell’accaduto. La moglie Maria Lamon, 41 anni, è stata la prima a essere uccisa, con una decina di coltellate, mentre si trovava in cucina. Alcune ore dopo, di ritorno dal lavoro verso mezzanotte, è stata la volta del marito, colpito mentre richiudeva la porta di casa. Ma dove è finito il loro figlio?

Roberto Succo, 19 anni, occhi azzurri, frequenta l’ultimo anno del liceo scientifico. È un tipo introverso con la mania del culturismo, ma non aveva mai creato problemi a nessuno. A quanto risulta, gli unici litigi con i familiari avvenivano quando non gli lasciavano le chiavi della macchina.

Ciononostante è proprio lui l’unico sospettato del duplice omicidio, per due buonissime ragioni: nell’appartamento sono stati trovati i suoi abiti sporchi di sangue e qualcuno lo aveva visto uscire di casa la notte dell’omicidio.

Viene diramato l’identikit di Roberto Succo in tutta Italia, con informazioni sul suo vestiario (blue jeans e maglione marrone) e sulla Alfasud blu del padre, che ha preso dal garage. La cosa più preoccupante è la sparizione della pistola del genitore, una Beretta automatica 92S.

Due giorni dopo arriva una segnalazione dal Friuli: qualcuno ha visto l’Alfasud con il giovane Succo a bordo. È targata Udine, invece di Venezia, ma si accerta subito che si tratta di una targa rubata. Appena scende, un maresciallo dei carabinieri punta dritto verso Roberto. Allora il giovane, con uno scatto, afferra la custodia della macchina fotografica dove nasconde la pistola, ma il maresciallo è più veloce e riesce a bloccarlo in tempo. Sull’auto viene trovato il coltello con il quale erano stati uccisi i genitori.

Portato alla questura di Mestre, Roberto Succo la racconta a modo suo. Ha dovuto farli fuori, spiega, perché la madre non gli voleva più bene, mentre il padre non gli lasciava la macchina con la scusa che correva troppo. Si vanta di aver eseguito alla perfezione il duplice omicidio grazie all’esperienza acquisita da piccolo nel sezionare gli animali.

Nell’ottobre del 1981, gli psichiatri dichiarano Roberto Succo schizofrenico, cioè gravemente alterato nel pensiero, nel comporamento e nelle relazioni affettive. Poiché risulta non punibile per infermità mentale, viene ricoverato nel manicomio criminale di Reggio Emilia, dove dovrà rimanere sotto osservazione per almeno dieci anni.

Lì si comporta bene, non crea problemi, anche se con il personale medico si lascia andare confessioni inquietanti. “A scuola odiavo soprattutto le ragazze”, dice, “avrei voluto strizzarle tutte con le mie mani“. Intanto ottiene la maturità e si iscrive alla facoltà di Scienze naturali.

Prende ottimi voti, tanto che, per permettergli di frequentare alcuni corsi, gli vengono concessi dei permessi. Ormai siamo nel 1986, sono sei anni che è in manicomio. Un giorno, durante una di queste licenze, Roberto Succo fa perdere le proprie tracce.

Solo due anni dopo, nel 1988, si sentirà ancora parlare di lui, e le notizie proverranno dall’estero. Il 28 gennaio di quell’anno, due ispettori della polizia francese vanno all’hotel Premar di Tolone per indagare su una rissa avvenuta la notte precedente in un bar. Durante la rissa, un uomo era stato ferito alla schiena da un colpo di proiettile esploso da un certo André, ospite, appunto, del Premar.

Mentre i due agenti stanno chiedendo informazioni alla reception, “André” spara all’impazzata verso di loro. L’ispettore Ajazzi perde subito conoscenza e cade a terra ferito, mentre l’ispettore Morandin, colpito a un braccio e a una gamba, rimane in ginocchio implorando pietà. Senza dire nulla, André gli sfila dalla fondina la grossa Smith & Wesson calibro 38 Special, e con questa lo finisce sparandogli alla testa.

Il giorno dopo, Sabrina, una ragazza di 16 anni, si presenta in gendarmeria dicendo di essere l’ex fidanzata dell’assassino, che conosceva con il nome di Kurt. L’aveva appena piantato perché, spiega, con lei era troppo violento a letto. Intanto vengono confrontate le impronte digitali trovate nell’hotel con quelle negli archivi dell’Interpol: si scopre che appartengono all’italiano Roberto Succo.

Nel frattempo, il ricercato ha lasciato la Francia. Due giorni dopo la sparatoria si trova in Svizzera, tra Ginevra e Losanna. Qui, in una stazione di servizio, aggredisce il gestore per rubargli la macchina. Temendo che il veicolo sia stato segnalato alla polizia, lo abbandona poco dopo e con una scusa ferma un’auto di passaggio. Minaccia la ragazza alla guida di ucciderla, se non lo porta a Berna.

A causa della grande tensione, avviene un incidente quasi subito. La giovane donna ne approfitta per scappare, mentre si sta avvicinando un’auto della polizia. Appena gli agenti scendono, lui li minaccia con la pistola e riparte con un’altra auto.

Sfogando slevaggiamente la tensione accumulata, a Lyss, nei pressi Berna, il fuggiasco sequestra due donne e le violenta. Una cade in stato confusionale, ma l’altra riesce a dare una descrizione dello stupratore alla polizia. Non ci sono dubbi, si tratta proprio di Roberto Succo.
Tutte le polizie europee si mobilitano alla ricerca del fuggiasco, tanto che, all’inizio, vengono arrestati alcuni uomini solo perché gli assomigliano.

In Francia, al semplice sospetto che si aggiri nei dintorni, si approntano posti di blocco intorno alle città. Roberto Succo è diventato il pericolo pubblico numero uno. Alcune segnalazioni del 28 febbraio 1988 appaiono più attendibili di altre. Una Rover 800 rubata il giorno prima, con a bordo una persona che sembrerebbe essere Succo, sta per attraversare il paese di Santa Lucia di Piave (Treviso).

Accorrono una decina di poliziotti in borghese e gli uomini delle squadre speciali. Gli agenti saltano addosso al ricercato appena scende dall’auto, ma lui riesce a divincolarsi e a tendersi verso il cruscotto, per impugnare la Smith & Wesson. Non ci riesce, perché altri poliziotti lo immobilizzano giusto in tempo.

Addosso gli trovano 15 milioni di lire in franchi, oltre a una mappa con il suo piano di fuga verso la Sicilia prima, e poi in traghetto fino in Africa. I documenti di identità rubati che ha con sé gli avrebbero permesso di spacciarsi per un dipendente delle ferrovie.

“Sono un killer”, risponde sprezzante quando alla centrale di Treviso gli chiedono la professione, “di mestiere ammazzo la gente”. Prima di finire la sue vittime, racconta lo stesso Roberto Succo, diceva loro in francese “Je te tue” (“Ti uccido”). In questi due anni si era mantenuto facendo rapine e sfruttando i servizi di tre donne innamorate di lui (i francesi le incrimineranno per favoreggiamento).

Altre donne le aveva rapite solo per stuprarle. Una, in particolare, l’aveva incatenata e violentata per un mese intero. Queste rivelazioni permettono di attribuirgli numerosi abusi sessauli avvenuti in Francia e Svizzera, che fino a quel momento erano rimasti senza un colpevole.

Solo adesso gli investigatori francesi si dicono certi che sia stato lui, il 27 aprile 1987, a rapire, violentare e poi a uccidere a coltellate una bella ragazza vietnamita di nome France Vu Dinh. Nello stesso anno, avrebbe eliminato per motivi sconosciuti André Castillo, un brigadiere svizzero.

Si sospetta anche che nei giorni appena precedenti alla sua cattura abbia ucciso un medico di Annecy, Michel Astoul, dopo che gli aveva offerto un passaggio in auto. E di sicuro, sempre ad Annecy, ha ammazzato una donna, Claudie Duschisal, colpita da un proiettile sparato dall’arma che Roberto Succo aveva preso all’ispettore Morandin.

I quotidiani, soprattutto in Francia, dedicano molte pagine alle ultime notizie sul serial killer. Qualcuno lo chiama “l’assassino della luna piena”, anche se non sempre le sue folli gesta erano avvenute dopo il calare delle tenebre.

Ormai prigioniero del carcere Santa Bona di Treviso, la mattina del primo marzo Roberto Succo prende l’ora d’aria circondato da tre guardie che non lo perdono di vista. O almeno dovrebbero, perché il detenuto, con uno scatto, si aggrappa a una tettoia e da lì si arrampica fino al tetto del carcere. Attaccandosi a un cavo, raggiunge poi il tetto di un edificio vicino. Intorno a lui si radunano gli agenti con le pistole spianate e arrivano anche le tv locali.

Roberto Succo si spoglia, rimanendo in mutande, poi inizia una specie di conferenza stampa. Per un’ora inveisce contro Sabrina, la sedicenne di Tolone che lo aveva lasciato. L’unica che, dice, avesse mai amato. Alle quattordici si attacca a un altro cavo, per raggiungere l’abitazione del direttore del carcere: “Adesso vi faccio vedere come si muovono i parà”.

Si dondola per lanciarsi verso un terrazzino, ma manca il bersaglio e fa un volo di sei metri, rompendosi tre costole e la spalla. Dopo essere stato curato, viene rinchiuso nel carcere di Vicenza.

Dall’estero piovono le richieste per una decina di rogatorie, ma l’Italia sembra poco propensa a prenderle in considerazione, perché considera sempre Roberto Succo uno schizofrenico non perseguibile, provocando la protesta ufficiale del sindacato di polizia francese.

La mattina del 23 maggio, gli agenti vedono dallo spioncino della cella che Succo è ancora a letto, con la testa sotto il cuscino. Dato che non si decide ad alzarsi, entrano e si avvicinano: il detenuto ha la testa infilata in un sacchetto, che aveva riempito con il gas di una bomboletta da campeggio. Ancora una volta, ha beffato tutti.

D’altra parte l’aveva detto tre mesi prima ai poliziotti che l’avevano arrestato nel trevigiano: “Non rimarrò in carcere, anche a costo di suicidarmi”.
A Roberto Succo sono stati attribuiti sette omicidi, più altri probabili, ma nessuno potrà più accertarli.


Immagine in apertura dell’articolo tratta dal film Roberto Succo (2001), di Cédric Kahn con Stefano Cassetti.


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