PIETRO CAVALLERO, BANDITI A MILANO

“Dite pure che ero una belva feroce, che ho assassinato senza pietà persone innocenti. Quell’uomo ora non c’è più e voglio dedicarmi ad aiutare gli altri”. Con queste parole Pietro Cavallero uscì dal carcere toscano di Porto Azzurro nel 1988: la sua vicenda e quella dei suoi complici rimane una delle pagine più sanguinose della cronaca giudiziaria del secolo scorso.
Il 25 settembre del 1967, Pietro Cavallero e i suoi, durante uno scontro a fuoco con la polizia, spararono sulla folla inerme, facendo tre vittime e una ventina di feriti. La vicenda sconvolse l’Italia. Per la ferocia del crimine venne appioppato al capo della banda il soprannome di “belva”.
Ma chi era quest’uomo?
Pietro Cavallero, detto “il Piero”, è nato nel 1928 a Torino, nel quartiere conosciuto come la Barriera di Milano. Ha conseguito il titolo di perito chimico e, fino ai primi anni sessanta, è uno degli attivisti di spicco della sezione giovanile del Partito comunista.
In una società ancora nettamente divisa tra benestanti e povera gente, Pietro sostiene i lavoratori durante le manifestazioni e organizza gli scioperi nelle fabbriche.
Fa politica dal 1944, quando era ancora un ragazzino e c’erano gli occupanti tedeschi, ma il partito rifiuta di nominarlo dirigente a causa del suo estremismo. Pietro ci rimane male, gli brucia non essere considerato.
Un problema che torna sul lavoro: ha un buon impiego in una industria di vernici, dove mette a frutto le sue conoscenze chimiche, ma per qualche motivo viene costretto a lasciarlo. Ha una moglie da mantenere, Anna, che ha sposato nel 1955.
“Mi piacerebbe portarti nei grand hotel di Sanremo e di Montecarlo”, le dice. “Piuttosto prenotiamo quella pensioncina di Varazze per una settimana a giugno”, risponde lei più realisticamente.
La loro abitazione verrà descritta così dal giornalista e scrittore Giorgio Bocca: “Una casa di ringhiera, un cortile lungo e stretto che a guardarlo viene da piangere, A scendere le scale di corso Vercelli ti cala addosso tutto il grigiore di una periferia che non è più neppure operaia, ma solo di poveri cristi piemontesi e terroni”.
Pietro si sfoga con i tre amici che incontra al bar all’angolo, gli unici che apprezzano la sua cultura (ha riletto tre volte le opere filosofiche di Karl Marx) e il suo carattere deciso.
C’è il suo migliore amico, e braccio destro, Sante Notarnicola, un pugliese nato nel 1938. Abbandonato dal padre, Sante ha passato l’infanzia in un istituto prendendo la licenza elementare.
Gli altri due amici sono Adriano Rovoletto, un aiuto falegname figlio di emigranti veneti, e Danilo Crepaldi, un contrabbandiere ex partigiano che ancora custodisce le armi in un cascinale.
Nel 1963, dopo lunghe discussioni intorno a una bottiglia di barbera, i quattro decidono di appropriarsi delle comodità di cui sono privi compiendo una serie di rapine. “Eravamo a terra e per questo decidemmo di darci da fare”, diranno.
La banda Cavallero comincia l’attività assaltando un’agenzia dell’Istituto bancario San Paolo di Torino. Pietro sfila le banconote anche a una giovane cliente, che scoppia a piangere e dice: “Ma questi sono soldi miei!”. Allora lui glieli restituisce facendo un inchino di scuse.
Per depistare le indagini, grida le poche parole francesi che conosce: “Vite, vite!” (cioè “presto, presto”) e “le cassefort!”.
Il trucco riesce e la polizia pensa di avere a che fare con una banda di marsigliesi in trasferta. I colpi, tutti in banche o in gioiellerie, alla fine arriveranno a 18 o 23, il numero è controverso. I quattro comprano un’autorimessa in via Asiago, che diventa il loro covo.
Aprono pure una cartoleria e sul posto di lavoro Pietro Cavallero è molto formale. Per esempio, dice a una giovane impiegata: “Signorina, la prego, si metta una gonna più lunga”.
I complici, meno formali, escono di sera insieme a lei.
Il capo della banda, da intellettuale qual è, studia i libri di criminologia e si informa sulle disposizioni che le banche danno ai dipendenti in caso di rapina. “Sapevo che si raccomandava di non fare resistenza perché i furti sono coperti dall’assicurazione”, racconterà, “ma la voglia di fare l’eroe non è mai morta e ogni tanto qualcuno ci provava, magari tirandoci addosso un timbro”.
Con il tempo, la banda Cavallero diventa sempre più violenta: all’occorrenza spara all’impazzata o prende una ragazza come ostaggio, per poi rilasciarla con mille scuse.
Finché, il 16 gennaio 1967, durante una rapina a Ciriè (Torino), Pietro Cavallero uccide un cliente della banca, il dottor Giuseppe Gajottino. Apre il fuoco su di lui solo perché si è messo una mano nella tasca. Sbagliando, pensava che stesse per estrarre una pistola.
In quel periodo, per ragioni mai chiarite, Danilo Crepaldi abbandona i soci dicendo che vorrebbe vederli tutti morti. Al suo posto, Pietro Cavallero arruola Donato Lopez, di soli 17 anni.
Molti dei colpi vengono messi a segno a Milano, dove in una sola giornata la banda compie tre rapine, una dopo l’altra.
Durante le azioni, Pietro Cavallero è sempre euforico, ride mentre spara, si affaccia dall’auto lanciata a velocità gridando ai passanti: “Ehi, plebe, siamo i padroni del mondo!”.
Il commissario Mario Nardone, fondatore della squadra mobile di Milano, si sente colpito nel proprio orgoglio perché non riesce ad agguantare questi rapinatori. Neppure ha idea di chi siano. Decide allora di “lavorarsi” le sue vecchie conoscenze nella mala, per estorcere loro quello che sanno.
A parlare è uno del quartiere della Barona, che dice di non sopportare quei “piemontesi”. Finalmente una traccia sulla quale lavorare, ma chi saranno mai questi piemontesi?
L’ultima e più tristemente famosa rapina della banda Cavallero avviene sempre a Milano, il 25 settembre 1967. I quattro partono da Torino in pullman, arrivati nel capoluogo lombardo scendono in piazza Castello e rubano una Fiat 1100 blu scuro.
Alle 14.25 si fermano davanti all’agenzia 11 del Banco di Napoli, in largo Zandonai. Rovoletto rimane in macchina con il motore acceso, mentre i suoi tre compari disarmano la guardia giurata all’ingresso. La spingono dentro e ordinano al personale della banca di tirare fuori i soldi.
Senza farsi vedere, un dipendente preme il pulsante dell’allarme collegato con la questura.
I banditi infilano rapidamente le mazzette di banconote nei sacchetti ed escono di corsa. Il malloppo è di 10 milioni di lire, che con i soldi rapinati nei quattro anni precedenti fanno 80 milioni. I banditi si infilano in auto e partono a tutto gas, o almeno ci provano, perché finiscono imbottigliati nel traffico.
Tre volanti con le sirene spiegate li intercettano in piazza Bande Nere e per mezz’ora si scatena l’inferno. Come in un film americano, Cavallero e i suoi aprono il fuoco con mitra e pistole sulle pantere della polizia che li inseguono.
Tre persone che si trovano casualmente sulla traiettoria dei proiettili finiscono uccise: alle ore 15.36 viene colpito Virginio Odone, fattorino di una cartiera; alle 15.40, Giorgio Grossi, uno studente 17enne che sta camminando con la racchetta da tennis sotto il braccio; alle 15.42, il napoletano Franco De Rosa, a bordo della sua 600.
Un’altra dozzina di persone rimane ferita in maniera più o meno grave, compresa una donna che morirà due anni dopo.
In piazza Gramsci l’auto esce di strada e non vuole saperne di ripartire, i malviventi devono scappare a piedi. A braccarli per le vie della città ci sono ormai una trentina di agenti.
Ferito a un braccio, Adriano Rovoletto viene individuato da Ronaldo Piva, un coraggioso invalido di guerra. L’uomo avverte alcuni agenti e lo blocca insieme a loro (stravolto dalla tensione, Piva morirà due giorni dopo per infarto).
Immediatamente interrogato, Rovoletto fa i nomi dei suoi complici, compreso quello del giovane Donato Lopez, che viene catturato a casa sua. I due pezzi da novanta, Pietro Cavallero e Sante Notarnicola, sono però riusciti a salire su un tram senza farsi riconoscere. Arrivati alla stazione di Porta Genova, hanno preso il treno per Alessandria.
I due iniziano a vagare senza meta per le campagne intorno alla città piemontese. Sanno che con l’arresto dei due complici di cui parlano i giornali i loro vecchi rifugi non sono più sicuri. Ne cercano uno provvisorio sul posto, un vecchio casello ferroviario abbandonato di Villabella.
Quando cominciano ad avere fame, Notarnicola va in paese a comprare pane, salame e sigarette. Una negoziante lo riconosce, dato che la sua foto è su tutti i quotidiani, e telefona ai carabinieri. Così, dopo una settimana, i due fuggiaschi, ormai esausti, si arrendono agli uomini del maresciallo Dino Olivieri senza opporre resistenza.
All’arrivo dei fotografi, Cavallero sorride come al solito. Anche per questo atteggiamento sfrontato, i giornali lo bollano come “la belva”.
A Milano, il giorno dopo, diecimila persone si radunano davanti alla questura con l’intenzione di linciarlo al suo arrivo.
Il processo si svolge a Milano nel giugno del 1968. I tre banditi più anziani vengono condannati all’ergastolo, mentre la nuova recluta minorenne, Donato Lopez, si prende 12 anni di prigione.
Alla lettura della sentenza, gli imputati alzano il pugno chiuso intonando la canzone operaia “Figli dell’officina”.

Da sinistra: Pietro Cavallero, Sante Notarnicola e Adriano Rovoletto mentre intonano “Figli dell’officina” in tribunale
Nello stesso anno, il regista Carlo Lizzani ricostruisce il sanguinoso colpo in banca nel film Banditi a Milano, con Gian Maria Volontè nella parte di Pietro Cavallero e il cantante Don Backy in quella di Sante Notarnicola.
Durante la detenzione, Pietro Cavallero si comporta da detenuto modello, dedicandosi alla pittura e scrivendo per il giornale del carcere. Quando esce di prigione per buona condotta, nel 1988, è un altro uomo.
Ha abbandonato le sue idee ribellistiche, avvicinandosi alla religione. Tanto che inizia una corrispondenza con il cardinale di Milano, Carlo Maria Martini, il quale scriverà anche la prefazione di un suo libro.
Pietro Cavallero chiede perdono ai parenti delle vittime, per il dolore che ha arrecato loro. “Con la legge ho pagato il mio debito”, dice, “resto con quello della coscienza”. Si dedica al Servizio missionario giovanile di Torino (il Sermig), che offre cibo e assistenza a immigrati e vagabondi.
Muore di cancro a 68 anni, nel 1997. Al suo funerale partecipa anche la figlia di una donna che aveva ferito.
Se Pietro Cavallero ha preso le distanze dalla sua vita precedente, il suo ex braccio destro, Sante Notarnicola, ha continuato a far parlare di sé come agitatore all’interno del sistema carcerario.
Nel 1972 scrive un libro, “L’evasione impossibile”, che nel clima della Contestazione studentesca diventa un best seller.
Ormai è un “rivoluzionario” talmente celebre che il gruppo terroristico delle Brigate Rosse lo mette in cima all’elenco dei detenuti dei quali chiedono la liberazione in cambio della vita di Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana rapito il 16 marzo 1978.
Viene citato in alcune canzoni, come “Liberiamo” (1977) di Gianfranco Manfredi.
In regime di semilibertà dal 1995, Notarnicola va a gestire un’osteria a Bologna. Muore a 82 anni nel 2021, dopo aver preso il Covid e poi un’influenza.
(Immagine in apertura: particolare del manifesto del film Banditi a Milano, di Carlo Lizzani).
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