PAOLO GALLO, IL MORTO CHE CAMMINA

Paolo Gallo

Agli inizi degli anni cinquanta, Avola è un paese agricolo dove la campagna si confonde ancora con le case sparpagliate del centro abitato. Qui vivono i fratelli Gallo, il robusto Salvatore e l’esile Paolo, detto Chiodo, che possiedono un terreno in comune nella contrada Cappellani.

Sono uomini rozzi e semianalfabeti: Salvatore ha quant’anni, Paolo quasi cinquanta. I due litigano su tutto e ad avere la peggio è sempre il debole Paolo, perseguitato anche dalla moglie Cristina. Insieme alle rispettive famiglie, i due fratelli abitano in una catapecchia dai muri scrostati dove allevano qualche animale.
Un altro fratello, Giuseppe, vive da solo, rinunciando ai suoi diritti su quel terreno difficile da lavorare.

Le cose vanno avanti come al solito fino alla mattina del 6 ottobre 1954, quando Salvatore avverte la cognata Cristina di aver trovato la coppola di Paolo abbandonata sul terreno, accanto a grandi macchie di sangue. La donna si mette subito a gridare, accusandolo di averle ammazzato il marito. Anche i carabinieri, avvertiti dal figlio di Salvatore, Sebastiano, sospettano di lui perché Paolo era andato da loro diverse volte per denunciarlo a causa delle sue percosse.

In una perquisizione fatta nella camera da letto di Salvatore, i carabinieri scoprono alcuni vestiti sporchi di sangue, che il sospettato dice di aver lordato sgozzando un agnello. Secondo il medico legale, le macchie di sangue sul terreno intorno alla coppola sono così copiose da far pensare che Paolo sia morto dissanguato.

Siccome il cadavere non si trova, oltre a Salvatore, anche il figlio Sebastiano viene accusato di averlo fatto sparire. Nemmeno i cani da fiuto riescono a trovarne le tracce, eppure non dovrebbe essere stato portato lontano, dato che i due non possiedono l’automobile o altri mezzi di locomozione.

In ogni caso, Salvatore viene arrestato il 26 novembre dello stesso anno e il figlio Sebastiano il 18 febbraio del 1955. Solo Giuseppe, l’altro fratello, crede nella loro innocenza. Per questo batte le campagne dei dintorni chiedendo se qualcuno ultimamente ha visto Paolo in giro. Trova due testimoni, Salvatore Masuzzo e Giuseppe La Quercia, che affermano davanti al magistrato di aver incontrato Paolo alcuni mesi dopo la sua presunta morte. Per tutta risposta, il magistrato li fa arrestare per intralcio alle indagini e li scarcera solo quando ritrattano tutto.

Il processo a Salvatore e Sebastiano Gallo si svolge nel 1956. Il figlio viene condannato a 12 anni per complicità in omicidio e occultamento di cadavere, mentre Salvatore si prende l’ergastolo. In appello, la pena di Sebastiano viene abbassata a un anno e quattro mesi solo per occultamento di cadavere, dato che la complicità nell’omicidio viene lasciata cadere, ma rimane la condanna al carcere a vita per il padre.

Il fatto che durante il processo Salvatore si fosse chiuso in un orgoglioso silenzio non era servito a renderlo simpatico, ma Enzo Asciolla, giornalista del quotidiano “La Sicilia”, dopo aver seguito le udienze dei due processi si è convinto della sua innocenza.

Nel 1961, dopo che anche la corte di Cassazione ha confermato l’ergastolo, Asciolla decide di indagare per proprio conto. Per prima cosa rintraccia i due contadini che avevano visto “il morto camminare”, Masuzzo e La Quercia, già condannati a sei mesi per falsa testimonianza.

Masuzzo gli conferma l’incontro avvenuto in località Serramezzana, il giorno dell’Ascensione del 1955, sei mesi dopo il presunto omicidio. «Don Paolino», gli aveva detto, «cosa fa qua?». «Me ne vado», aveva risposto lui scappando di corsa, «vado via subito, non abbia paura».

Anche La Quercia lo aveva incontrato nella stessa zona: «Che ti è successo, Don Paolino, sei morto e resuscitato?». Anche stavolta, “il morto che cammina” era scappato: «Aveva uno zaino sopra la spalla e la giacca sul braccio. Era proprio lui, con la sua corporatura magra e la pelle giallognola».

Il giornalista Asciolla, a questo punto, va a indagare a Serramezzana. Gli abitanti del posto gli confermano che in quelle campagne si aggirava un vagabondo di mezza età chiamato don Paolino, ma non conoscono il suo cognome perché era poco espansivo. Tirava a campare badando agli animali dei contadini della zona e andando a dormire nella stalla insieme a loro.

Aveva frequentato la scuola elementare serale del posto per cercare di imparare a scrivere meglio, ma la maestra spiega che si era fatto vedere solo per poche settimane. Quando Asciolla le mostra una foto del contadino scomparso, la maestra risponde che è proprio lui e va a prendere il quaderno che aveva dimenticato in classe, sulla copertina del quale aveva scritto con mano tremolante il proprio nome: Paolo Gallo. La firma sapeva scriverla anche prima, osserva il giornalista, perché l’aveva utilizzata per alcuni atti notarili e la calligrafia è la stessa.

Seguendo le indicazioni della gente del posto, Asciolla arriva fino alla confinante provincia di Ragusa, dove apprende che i carabinieri di Santa Croce Camerina avevano interrogato don Paolino come testimone in un incidente capitato a un mulo. Sotto il verbale c’è di nuovo la sua firma tremolante: Paolo Gallo. Così, in sole due settimane, Enzo Asciolla riesce a scoprire quello che i magistrati non avevano scoperto in sette lunghi anni.

Portando la documentazione raccolta alla caserma dei carabinieri di Ragusa, il giornalista riesce a ottenere la riapertura informale delle indagini. In pochi giorni, il 7 novembre 1961, i militi rintracciano Paolo Gallo in una casetta fatiscente alla periferia di Ispica. Sul posto vengono portate anche la moglie Cristina e le loro due figlie per il riconoscimento.

Senza proferire parola le tre donne fissano stupefatte il congiunto che ritenevano morto, mentre lui respira affannosamente senza guardarle, come un animale preso in trappola. Poi Paolo viene condotto in prigione, mentre per il fratello Salvatore si aprono finalmente le porte del carcere di Ventotene. Ormai non ci sperava più e quando mette il primo piede all’esterno dell’istituto di pena, famoso per la sua durezza, scoppia a piangere come un bambino.

L’errore giudiziario è un shock per la magistratura, che con leggerezza aveva condannato all’ergastolo un uomo per omicidio senza che il cadavere della vittima fosse mai stato trovato. Per fortuna la pena capitale era stata abolita qualche anno prima, altrimenti Salvatore sarebbe stato sicuramente condannato a morte.

Stavolta è Paolo Gallo a rimanere in prigione per un anno, con l’accusa di calunnia. Al processo, il nuovo imputato racconta che litigava continuamente con il prepotente fratello Salvatore. La mattina del 6 ottobre dell’ormai lontano 1954 si erano accapigliati di nuovo e, come al solito, ad avere la peggio è stato lui, più anziano e debole. Salvatore lo aveva percosso con una pietra.

Sanguinante, Paolo aveva deciso di andarsene da lì, di non avere più a che fare con il fratello e con la propria moglie, che considerava una strega. Anche a causa del dolore bruciante delle ferite, iniziò a correre come un matto, senza fermarsi mai per voltarsi indietro.

Dato che il pubblico ministero non riesce a provare che l’imputato si era finto morto per far incarcerare il fratello, il tribunale di Siracusa lo assolve con formula dubitativa rimettendolo in libertà. Pur mantenendo i rapporti con la famiglia ritrovata, Paolo preferisce riprendere la vita del vagabondo.

Questo caso incredibile induce il governo italiano a varare per la prima volta, nel 1965, una legge per risarcire chi subisce una detenzione ingiusta. Allora Salvatore Gallo si rivolge speranzoso al tribunale per avere qualche soldo. Invece non ottiene nemmeno una lira, anzi, viene condannato a quattro anni e mezzo per aver aggredito il fratello con una pietra provocandogli lesioni gravi (la pena, naturalmente, è già stata largamente scontata).

Essendogli morta la moglie nel frattempo, Salvatore si risposa con una contadina calabrese e inizia a coltivare un orto davanti alla casetta che ha comprato con i soldi ottenuti dalla vendita delle sue terre. L’artrosi sviluppata nel clima insalubre del carcere, però, lo costringe presto sulla sedia a rotelle e, infine, lo stronca nel 1974.

Nel frattempo Paolo, il fratello più debole, divenuto noto come “il morto che cammina”, decide di abbandonare la vita errabonda per tornare stabilmente in famiglia. Lascerà questa valle di lacrime molti anni dopo, ormai ultranovantenne.


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