MIMMO, L’IMBALSAMATORE NANO

Roma, notte del 25 aprile 1990. Domenico Semeraro detto Mimmo viene sollevato da terra dal suo aggressore che, con l’altro braccio, gli stringe lentamente il foulard intorno al collo fino a strangolarlo. Mimmo non ha potuto opporre molta resistenza perché era alto solo un metro e trenta centimetri. Insomma, era un nano, un adulto prigioniero nel corpo di un bambino.
No, non è stata decisamente una bella vita, quella che Mimmo ha dovuto interrompere a soli 44 anni.
La storia di questo delitto inizia nel 1986, quando Armando Lovaglio bussa a una porta in via Castro Pretorio. Armando, un bel ragazzo di 17 anni, è stato appena bocciato a scuola e non ha alcuna intenzione di ripetere l’anno, piuttosto vorrebbe iniziare a lavorare per comprarsi una moto di grossa cilindrata.
A quella porta è arrivato attraverso l’annuncio su un giornale: “Imbalsamatore di animali cerca assistente tuttofare”. L’imbalsamatore è Mimmo il “nano”, l’uomo che verrà strangolato quattro anni dopo. Mimmo, che è un omosessuale, rimane profondamente colpito da quel giovane dai tratti delicati e dagli occhioni neri. Lo assume su due piedi.
Per prima cosa, l’imbalsamatore gli dice che desidera essere chiamato “professore”, perché in passato ha insegnato educazione tecnica. Ha pure fatto la comparsa in alcuni film porno, ma di questo preferisce non vantarsi con il ragazzo. Per ora.
Piuttosto gli racconta che frequenta il mondo dorato di Cinecittà, anche se, in realtà, il suo lavoro (a parte l’hobby dell’imbalsamazione) è quello di modesto impiegato alla scuola di cinematografia nel quartiere Eur.
In ogni caso, Mimmo sa come gestire i giovani insicuri e squattrinati come Armando, per tenerli legati a sé: dopo pochi giorni di lavoro, gli regala la tanto sospirata Honda. Con i soliti modi paterni, Mimmo gli fa anche pratica di guida, in modo che possa prendere il patentino. I due hanno così modo di diventare sempre più intimi.
Sapendo che il ragazzo ogni tanto fuma qualche “canna”, da una parte lo sgrida per quel brutto vizio e dall’altra gli procura la droga lui stesso. In breve, Armando lascia la casa dei genitori (non è mai andato d’accordo con il padre tranviere), per andare a vivere in quella del professore. Inizia così la loro relazione sentimentale.
Per Mimmo non è certo la prima esperienza del genere, dato che da poco si è lasciato con un ragazzo ancora più giovane. E prima ancora andava ad adescare i ragazzini scappati di casa intorno alla stazione Termini, come faceva lo scrittore Pier Paolo Pasolini.
Alcuni mesi dopo il loro incontro, Armando, incoraggiato dal suo principale-amante-padre, riprende giudiziosamente ad andare a scuola, anche se con risultati sempre poco brillanti.
Nel 1988 fa la comparsa il terzo e ultimo personaggio di questa triste vicenda. Si chiama Michela Palazzina, una ragazza di diciotto anni. È una bella bionda dal carattere allegro che in pochi anni ne vedrà di tutti i colori, tanto da sfiorire precocemente.
Anche lei viene da una famiglia che la trascura, il padre fa l’attore teatrale ed è sempre in giro, e pure lei ha risposto a un annuncio di Domenico Semeraro perché va male a scuola e non vuole più studiare. Stavolta l’imbalsamatore, che evidentemente ha un giro d’affari notevole, cerca una segretaria e l’affascinante Michela sembra fare proprio al caso suo.
D’altra parte, quando Mimmo non era ancora diventato omosessuale, ci provava con le ragazze, anche se tutte le sue storie finivano male. Nel 1972 stava addirittura per sposare una sedicenne, quando lei, all’improvviso, lo denunciò per violenza carnale. Il giudice assolse Mimmo, non ritenendolo in grado, per la sua piccola statura, di sovrastare quella ragazzina molto più alta di lui.
Il “nano” deve aver imparato molte cose da allora, perché non solo riesce a conquistare la bella Michela, subito assunta come segretaria, ma la convince pure a iniziare un rapporto a tre con il suo assistente Armando. Con il tempo, però, qualcosa inizia ad andare storto in quella storia particolare.
I due giovani, al di là dei rapporti più o meno imposti, si innamorano davvero e vogliono lasciare Mimmo per condurre la vita normale di tante altre coppie. Soprattutto lo desiderano quando lei rimane incinta del ragazzo e, all’inizio del 1990, nasce una bimba.
Dato che con le buone non riesce più tenerli legati a sé, Mimmo passa alle maniere forti: minaccia di rovinare la reputazione dei due, rendendo pubbliche le foto che ha scattato durante i loro rapporti. Le più compromettenti rappresentano Armando truccato da donna, mentre Michela fa la parte dell’uomo.
A quel punto, i fidanzati si rifugiano nelle loro rispettive famiglie, ma il nano li querela accusandoli di aver violato il suo domicilio. Seguono altre litigate furiose, finché tutto si spegne per sempre nella notte in cui Mimmo viene strangolato.
A chiamare i carabinieri sarà la mamma di Armando, dopo che il figlio e Michela gli avevano chiesto le chiavi della sua casa di campagna, dicendole con noncuranza che dovevano seppellire il nano strada facendo: l’avevano chiuso in un sacco caricato in macchina. I due, prima di venire arrestati, si erano già sbarazzati del cadavere in una discarica.
Quando il delitto viene reso noto, i giornali si schierano in difesa dei due giovani, vittime di un farabutto della peggior specie. Mimmo, però, non può più parlare per difendersi, e mancano pure i testimoni indipendenti. La sola versione che conosciamo, e che fino a qui abbiamo riportato, è quella dei due assassini. Che molto probabilmente non hanno interesse a dire la verità. Non tutta, almeno.
L’omicidio potrebbe essere dovuto ad altre ragioni, la storia della coppia prigioniera di un maniaco potrebbe essere stata inventata per commuovere la corte del tribunale. Non vogliamo difendere la memoria di Mimmo, perché è evidente che l’imbalsamatore non era una persona per bene, ma davvero Armando e Michela (21 e 20 anni al momento dell’omicidio) sono stati solo vittime e non, anche, degli sfruttatori? In fondo, nessuno li aveva costretti a iniziare quella relazione a tre, a ricevere regali costosi, compresa la droga che comunque già consumavano in precedenza.
Ecco la poco lineare dichiarazione di Armando Lovaglio: «Sì, ho ucciso Domenico Semeraro con le mie mani. Era un essere ignobile, mi aveva schiavizzato. Non meritava di vivere. Aveva minacciato di mettere in giro le foto che aveva scattato a me e a Michela in certe posizioni. Ci costringeva a fare le porcherie di fronte a lui. In cambio di quelle esibizioni mi ospitava nel suo appartamento, dove imbalsamava animali, soprattutto razze protette, usando acidi particolari. “Non tagliatemi fuori dalla vostra vita, altrimenti con i miei acidi vi eliminerò, come anni fa ho fatto con un ragazzino che non ci stava”, diceva. Tornai a casa di Mimmo verso mezzanotte perché non riuscivo a dormire e avevo voglia di droga. Ero sicuro che lui me ne avrebbe data. Mimmo, nonostante il diverbio che avevamo avuto, fu contento di vedermi. Era calmo, e a un certo punto chiamò per telefono Michela dicendole di venire: “Dobbiamo discutere tutti e tre per chiarire definitivamente il nostro rapporto”. All’arrivo della mia ragazza, però, iniziò una lite furibonda. “Ora io e Michela ce ne andremo per sempre”, urlai a un certo punto. Semeraro si mise tra me e la porta dicendo: “Ti prego, non andartene. Domani partiremo tutti e tre per una vacanza a Ostuni. Servirà a schiarirci le idee”. Ci calmammo e iniziammo a parlare dei nostri problemi. A un certo punto, mi alzai e andai verso la cucina per prendere una bibita dal frigorifero. Sentii Michela che urlava: “Armando, attento!”. Mi voltai e vidi Mimmo che si stava avventando contro di me, stringendo un bisturi che usava per imbalsamare gli animali. Lo presi per il collo e lo strangolai con il suo foulard, poi lo lasciai cadere. Non sembrava ancora morto, rantolava. Allora lo presi a calci, fino a quando non respirò più. Feci tutto da solo, Michela non c’entra».
La corte del tribunale non è del tutto convinta perché, come risulta dal referto dell’autopsia, Mimmo era stato ferocemente percosso prima di venire ucciso. Come se fosse stato torturato: i due volevano qualcosa e lui non intendeva dargliela?
Ma alla fine la corte si dimostra di manica larga. Armando Lovaglio viene condannato a 12 anni di arresti domiciliari (cioè da scontare a casa) e Michela Palazzini, assolta per il reato di omicidio, si prende solo un anno e mezzo (da non scontare affatto) per occultamento di cadavere.
Al processo d’appello, invece, la giuria si dimostra meno comprensiva: 15 anni da scontare in carcere per lui, mentre la compagna viene ritenuta colpevole in concorso di omicidio e condannata a 9 anni e 9 mesi.
«La verità è che il nano cattivo si era lasciato rovinare dalle sue vittime: era rimasto senza soldi e non serviva più a nessuno», commenta Massimo Consoli, rappresentante delle associazioni gay romane. «Finché per la coppia diabolica, formata da Armando e Michela, Domenico Semeraro era una fonte di reddito, andava bene anche la sua “perversione”. Poi quel nano omosessuale divenuto povero in canna si era trasformato in un peso da eliminare».
Ma ci sono altre possibilità. Quattro anni dopo, nella stessa casa maledetta in via Castro Pretorio, viene ritrovato il cadavere nudo di un giovane di 20 anni, Adriano Cogo. Si scopre che è stato ucciso per una questione di droga. Probabilmente questo omicidio non c’entra nulla, ma se anche il nano fosse stato ucciso per la droga, nessuno verrebbe a raccontarcelo.
Nel 2002 il regista Matteo Garrone ha dato la sua versione dei fatti nel film L’imbalsamatore (in apertura dell’articolo la foto tratta da una locandina del film). Non si tratta però di una ricostruzione fedele del delitto, come ammette lo stesso Garrone: «Sono andato altrove, mi sono allontanato dalla realtà. In fondo, questa è la storia di una felicità impossibile, di una ricerca che mette tutti nei guai».
(Per gli altri articoli sui delitti famosi pubblicati da Giornale POP clicca QUI).