L’URLO DI RIBELLIONE DI ALLEN GINSBERG

La poesia di Allen Ginsberg esplode in uno dei periodi più controversi della storia statunitense. La Seconda guerra mondiale è appena terminata, ma la popolazione non appare disposta ad abbandonarsi completamente all’euforia per la vittoria sul totalitarismo nazista. La gente tende a preoccuparsi per un altro totalitarismo, un totalitarismo uscito vincente dalla guerra, il comunismo.
La guerra fredda era appena cominciata e già l’ombra del maccartismo iniziava ad opprimere silenziosamente il paese delle libertà. Il be-bop, una musica tenuta a battesimo in due fumosi locali di New York, il Minton’s Playhouse e il Monroe’s, divenne la colonna sonora di una generazione veloce e furiosa, insofferente delle regole e dedita alla benzedrina (il solfato di anfetamina).
Fu nei vicoli bui di Harlem che questi suoni nerissimi e primordiali catturarono i cuori e le menti migliori di coloro che di lì a poco sarebbero diventati i poeti della beat generation.
Nel jazz di Charlie Parker e degli altri boppers, in quei ritmi sincopati e in quei riff stravolti, c’era un’urgenza incontrollabile. Era la stessa che affliggeva i loro spiriti, che li teneva svegli fino all’alba a bere e a fumare e a parlare nervosamente cercando di trovare se stessi.
C’era anche Allen Ginsberg in quelle notti di Harlem a respirare la libertà e la musicalità del be-bop, cercando di tradurla in poesia.
Le prime poesie che pubblica nel 1947, quando ancora frequenta la Columbia University, The Proposal e Love Letter: Easter Sunday 1947 sono entrambe dedicate a Neal Cassady, il pazzo eroe beat che aveva conosciuto l’anno prima e di cui si era perdutamente innamorato.
“Vieni a vivere con me e sii il mio amore”, scrive Ginsberg in The proposal.
“Non lasciare che qualche malata perplessità dell’amore assente ti distragga”, in Love Letter: Easter Sunday 1947.
Diciamo che questi primi componimenti non lasciavano per nulla presagire la forza dei versi che verranno, quelli che si stamperanno in maniera indelebile nella memoria di un’intera generazione: quelli di Howl, l’urlo.
Ginsberg inizia la stesura di Howl nel 1954 a San Francisco, sotto l’effetto del peyote, il potente allucinogeno utilizzato durante i riti degli sciamani messicani.
Mentre osserva dall’appartamento del suo compagno, Peter Orlovsky, la facciata avvolta nella nebbia del Sir Francis Drake Hotel, l’albergo delle star di Hollywood, la bizzarra costruzione gli appare come un enorme demone. Nella poesia gli darà il nome di Moloch, la divinità cornuta dei cananei a cui venivano sacrificati bambini arsi nel fuoco sacro dell’olocausto.
“Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia, affamate isteriche nude, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa”, Howl inizia apparentemente come un lamento per tutti quei giovani promettenti che si sono persi lungo le strade della tossicodipendenza.
Ma è solo un’impressione, quei giovani per l’autore non sono i beat, gli sconfitti, le vittime della società americana. Sono i “beati”, gli unici che non hanno perso di vista i valori fondamentali dell’esistenza e che riescono a vedere oltre il desolante spettacolo dell’imperante capitalismo.
Nella profetica visione del poeta, descrivendo il modus vivendi di questi “hipster” Ginsberg dà forma all’intero immaginario della controcultura della contestazione giovanile che si incarnerà in una sola poesia, forse la poesia più importante del Novecento: Howl.
La prima parte di Howl parla di tante cose, tenta di scattare, in modo confuso e ridondante, la fotografia di un’intera generazione. Un’ambizione forse eccessiva porta Ginsberg a disperdere la sua poetica in mille rivoli apparentemente scollegati, che alla fine confluiscono in due argomenti cardine: la droga e il sesso.
Per l’autore le droghe sono uno strumento per guardare il mondo con occhi diversi. Come altri membri della Beat Generation, Ginsberg usava le droghe sia come dichiarazione sociale di ribellione sia per intuizione artistica.
Era entrato consapevolmente in una tradizione consolidata di scrittori che guardano alle droghe come muse moderne. All’interno di questa eredità, le droghe erano comunemente viste come porte chimiche verso un regno trascendentale di verità visionaria in cui gli artisti potevano entrare e tornare, diventando così dei veggenti letterari.
Jack Kerouac, altro simbolo della beat generation, mentre scriveva utilizzava droghe per elaborare il suo metodo di prosa spontanea. Ginsberg usava droghe come anfetamine, marijuana e peyote. Ognuna offriva, secondo lui, modalità di percezione uniche per entrare in nuove strutture di coscienza, e poi ricreare questi stati alterati per iscritto.
“Ritornando da Laredo con una cintura di marijuana”, “Solidità peyote di corridoi” e “si incatenavano ai subways in corse interminabili dal Battery al santo Bronx pieni di simpamina”, sono tre versi emblematici tratti dalla prima parte del poema.
Riguardo al sesso, Ginsberg, come altri esponenti della Beat Generation, rifiuta l’opposizione binaria tra il sacro e il profano, tra il fisico e lo spirituale. Li fonde, invece, in una specie di misticismo ibrido in cui l’integrazione di desiderio, piacere ed energia sessuale diventa parte integrante della ricerca di una coscienza più autentica.
Nella prima parte di Howl, Ginsberg celebra l’atto sessuale nella sua duplice valenza di momento di espressione di una fisicità primordiale cruda e aspra, e di momento di comunione con l’universo in generale. Quindi, è una porta verso il sacro e lo spirituale.
Lo fa con una serie di versi tanto scandalosi quanto sublimi: “Si lasciavano inculare da motociclisti beati, e strillavano di gioia”, “si scambiavano pompini con quei serafini umani, i marinai”, “scopavano da mattina a sera in giardini di rose e sull’erba di parchi pubblici e cimiteri spargendo il loro seme liberamente su chiunque venisse”.
La seconda parte del poema è una spietata critica alla società americana, che l’autore denomina Moloch e alla sua supposta totale mancanza di valori umani. “Moloch il cui sangue è denaro che corre”, scrive Ginsberg e “ragazzi che gemono negli eserciti! Vecchi che piangono nei parchi!”.
È un invettiva assoluta dove nessuno si salva. La terza e ultima parte è dedicata (come l’intero libro) a Carl Solomon, il poeta del Bronx internato nel manicomio di Rockland a New York, dove si praticavano lobotomie ed elettroshock.
È una specie di canto di redenzione dove il poeta folle assurge a incarnazione del perfetto beatnik, eroe moderno dotato di poteri salvifici.
“Sono con te a Rockland, nei miei sogni cammini gocciolante sull’autostrada di ritorno da un viaggio al mare dopo aver attraversato l’America in lacrime, fino alla porta della mia villetta nella notte occidentale”.
Ginsberg lesse per la prima volta il suo poema in pubblico il 7 ottobre 1955, durante un reading alla Six Gallery al 3119 di Fillmore Street in San Francisco, pubblicizzato da una cartolina che proclamava: “Notevole raccolta di angeli tutti riuniti in una volta nello stesso luogo. Vino, musica, ballerine, poesia seria, satori libero”.
Fu un evento epocale, c’erano tutti i protagonisti della San Francisco Poetry Renaissance che bevevano bordeaux californiano e applaudivano. Ginsberg più che leggere mugolava in una specie di trance da ubriaco, con le braccia tese verso l’alto mentre tutti gli gridavano di andare avanti.
Finì che tutti piangevano, il poeta e il suo uditorio. Il successo fu clamoroso e di colpo la Beat Generation fu proiettata sotto i riflettori. Dopo aver ascoltato la performance alla The Six Gallery, il poeta editore Lawrence Ferlinghetti era determinato a pubblicare il poema: “Il mondo repressivo, conformista, razzista e omofobo degli anni cinquanta lo richiedeva”.
Quella sera rientrando a casa mandò a Ginsberg un telegramma salutando l’inizio di una grande carriera e richiedendogli il manoscritto. La prima edizione di Howl and Other Poems fu pubblicata dalla City Lights nel novembre 1956, numero quattro della serie Pocket Poets.
Ne furono stampate mille copie dalla tipografia inglese Villiers a Holloway, Londra.
Ginsberg dovette apportare alcune modifiche al testo, per cercare di evitare l’intervento della censura. Le poche modifiche non furono abbastanza. Il 25 marzo 1957, il Federal Collector of Customs, Chester Macphee, sequestrò 520 copie di Howl and Other Poems per oscenità.
L’oscenità risiedeva soprattutto nelle crude parole utilizzate da Ginsberg e nelle numerose scene di sesso descritte nel testo. Un paio di giorni dopo il capitano William Hanrahan ordinò gli arresti degli editori Murao e Ferlinghetti, senza probabilmente aver letto il libro.
Questa mossa proiettò il libro verso lo status di cult. Tutti volevano leggere il testo che la polizia cercava di censurare. Quando in agosto si arrivò al processo il poema era già un caso nazionale, non si parlava d’altro.
Il verdetto che il giudice Clayton Horn emise al termine della requisitoria del pubblico ministero è passato alla storia.
“Non credo che Howl sia un libro privo di una sua importanza sociale”, esordì. “Nessuna regola rigida può essere fissata per determinare ciò che è osceno, perché tale determinazione dipende dal luogo, dal tempo, dalla mente della comunità e dai costumi prevalenti”, proseguì. “Ci sono un certo numero di parole usate in Howl che sono attualmente considerate grossolane e volgari in alcuni ambienti della comunità, ma un autore dovrebbe essere libero di trattare il suo argomento con le parole che ritiene più adatte”, concluse.
Il giudice Horn doveva aver letto Howl. Il libro fu tradotto in 24 lingue, arrivando a vendere oltre un milione di copie.
In Italia, fu pubblicato nel 1965 da Mondadori, all’interno della raccolta Jukebox all’Idrogeno, tradotto da Fernanda Pivano.
Tra i primi a leggerlo ci fu un giovane Francesco Guccini, che ne copia quasi letteralmente l’incipit nella sua Dio è morto.
“Ho visto
La gente della mia età andare via
Lungo le strade che non portano mai a niente
Cercare il sogno che conduce alla pazzia
Nella ricerca di qualcosa che non trovano”.
Ricostruzione storica bella e fedele allo spirito di quei tempi. Proprio vero che “les États-Unis d’Amérique sont le seul pays passé de la barbarie à la décadence sans jamais avoir connu la civilisation.” (G. Clemenceau).