LUCIANO LUBERTI, IL BOIA DI ALBENGA

Roma, 3 aprile 1970. I pompieri sfondano una porta in via Pallavicini. I vicini non vedono la signora Carla Gruber uscire dal proprio appartamento da mesi, ma a richiamare i vigili del fuoco è stata una lettera firmata da un certo Luciano Luberti, nella quale si parlava confusamente del suicidio di una donna.
Cercando di resistere al cattivo odore, i pompieri scorgono un biglietto attaccato all’ingresso della camera da letto: “Chiudo la porta il 20 gennaio alle ore 16. Che potevo fare di meglio, se non amarti fino alla fine dei tuoi giorni, mia diletta Regina?”.
Sfondata anche questa seconda porta, i vigili del fuoco scoprono il cadavere della trentunenne Carla Gruber circondato da fiori appassiti e bottigliette di lisoformio. Sul petto, in pieno centro, si distingue il foro di un proiettile.
Luciano Luberti nasce a Roma nel 1921, ma si trasferisce ben presto con la famiglia a Padova, dove il padre meccanico apre un’officina.
Diventato ragioniere, Luciano viene arruolato e mandato a combattere nella Seconda guerra mondiale.
Nel 1943, quando l’Italia esce dal conflitto dopo l’invasione americana della Sicilia, Luciano Luberti rimane nel Nord occupato dai tedeschi, e preferendo loro ai fascisti italiani si arruola come sergente nella polizia militare (Feldgendarmerie) dell’esercito tedesco.
Luberti partecipa così alle operazioni poliziesche degli occupanti contro i propri connazionali.

Il giovane Luciano Luberti (in basso)
Di stanza ad Albenga (Savona), grazie alla sua buona conoscenza del tedesco diventa il braccio destro del maresciallo Strupp. In barba a qualsiasi legge di guerra, Luberti si mette in mostra torturando madri, mogli, sorelle e figlie di partigiani o supposti tali.
Ufficialmente lo fa per scoprire dove si nascondono i nemici dei tedeschi, in realtà perché la violenza gli piace in tutte le sue forme, soprattutto se esercitata su persone indifese.
Prima di commettere i suoi delitti, legge sempre con grande attenzione qualche pagina della Bibbia.
Luberti diventa tristemente famoso nel ponente ligure come “Il boia di Albenga”.
L’aguzzino non risparmia nemmeno i vecchi amici. Quando, nel 1944, Umberto Spizzichino, un ebreo che conosce dalle scuole elementari, in nome della vecchia amicizia gli chiede di aiutarlo a fuggire in Svizzera, Luberti lo fa arrestare dalle SS, che lo spediscono a morire nel campo di sterminio di Auschwitz.
Però la guerra un giorno finisce e, stavolta, a dover fuggire è lui.
Dopo essere stato tenuto nascosto dalle suore in un convento, nel 1946 parte con l’intenzione di arruolarsi nella Legione straniera francese, nella quale non viene chiesto alcun documento di identità alle reclute. Ma viene riconosciuto vicino al confine francese dal fratello di un uomo che aveva fatto uccidere.
Arrestato, al processo lo condannano a morte mediante fucilazione alla schiena. In un secondo tempo viene riconosciuto infermo di mente e la condanna viene commutata in ergastolo. A seguito dell’amnistia varata nei confronti di chi si è macchiato di crimini di guerra, la pena gli viene ridotta ulteriormente a soli sette anni di carcere.
Di nuovo libero nel 1953, viene assunto dall’Azione cattolica per dirigere l’agenzia pubblicitaria dell’associazione. Probabilmente a trovargli il posto è stato un importante abate, del quale suo padre è figlio non riconosciuto.
Nel 1956 Luberti assume come segretaria una giovane e bellissima profuga giuliana, fuggita alla fine della guerra dall’Istria insieme agli altri italiani in seguito all’annessione della penisola alla Jugoslavia. Si chiama Carla Gruber, ha 18 anni mentre il suo principale 35.
I due diventano amanti, anche se Carla finisce per sposare un altro profugo giuliano, che le dà tre figli. Pure Luberti si sposa e ha due figlie.
Nel 1964 i due amanti riescono a far ricoverare il marito di Carla in manicomio, mentre Luberti lascia la moglie.
Vanno a vivere insieme a Ostia (Roma), dove lui trascorre molto tempo a fotografare Carla nuda in pose sadomasochistiche. La sua inclinazione alla violenza, che in tempo di guerra sfogava sui civili, ora sembra trovare un modo innocuo per esprimersi.
Carla, però, inizia a tradire Luberti con altri uomini. Proprio in questo periodo la donna ha il suo quarto figlio. A causa di ciò, i due amanti litigano continuamente, ma finiscono sempre per fare pace.
Alla fine, l’uomo impara ad accettare i tradimenti di lei sapendo che tornerà sempre da lui. Lo scrittore Vincenzo Ceranti cerca di spiegare così questa strana relazione: “La risposta non va cercata nella normale natura delle cose. I lacci che legavano l’uno all’altra, ognuno ed entrambi al mondo, non appartenevano al raziocinio. Erano persone che non avevano più una concezione reale di ciò che avveniva attorno a loro”.
Tra Luberti e la sua compagna esiste una fortissima solidarietà, tanto che il marito di Carla, quando riesce a farsi dimettere dal manicomio dimostrando di essere sano di mente, si guarda bene dal mettersi contro i due: preferirà scomparire per sempre.
Intanto Carla deve farsi ricoverare sempre più spesso perché ammalata di tubercolosi.
Luciano Luberti, dopo avere fatto con scarsa fortuna l’editore di libri di saggistica scritti da lui stesso, alla fine degli anni sessanta diventa cassiere del Fronte Nazionale, una organizzazione neofascista guidata da Junio Valerio Borghese, potente personaggio ai tempi della Repubblica sociale.
Luberti viene genericamente accusato di aver ospitato gli esecutori della strage di piazza Fontana del 1969, ma la sua vita cambierà l’anno dopo, per una più precisa accusa di omicidio, quando i pompieri di Roma trovano il cadavere di Carla Gruber, morta per un colpo di pistola al cuore il 18 gennaio.
Nel 1972 Luciano Luberti, che aveva fatto perdere le proprie tracce, viene catturato a Portici (Napoli) dopo uno conflitto a fuoco con la polizia.
In quei due anni di latitanza si era mantenuto smerciando materiale pornografico illegale.
Al processo, sostiene con foga che l’amante si era suicidata, come aveva scritto nel biglietto ritrovato con il cadavere.
In effetti, nel corpo della Gruber era stata riscontrata una dose elevata di barbiturici, ma la donna, dopo aver tentato di avvelenarsi, non avrebbe potuto spararsi da sola perché la mano destra era stata trovata infilata sotto il cuscino.
I giudici del processo di primo grado si convincono che Luberti abbia ucciso la donna per gelosia e lo condannano a 22 anni.
Al processo d’appello, il professor Aldo Semerari, autorevole psichiatra forense, sostiene che Luberti in quel periodo non era in grado di intendere e di volere, ammesso che sia stato lui a sparare.
I giudici stavolta propendono per un caso di eutanasia: la Gruber si era avvelenata perché la sua tubercolosi stava peggiorando e lui, per farla morire più velocemente, le aveva sparato.
La pena scende a otto anni, da scontare nel manicomio criminale di Aversa (Caserta).
Luberti, esibendo un ulteriore certificato rilasciatogli da Semerari che attesta la sua sopravvenuta guarigione, si rivolge alla Corte europea dei diritti dell’uomo protestando perché non è stato liberato allo scadere della condanna. Riesce così a ottenere un milione di lire di risarcimento dallo stato italiano per ingiusta detenzione.
Uscito di prigione nel 1981, Luciano Luberti si trasferisce a Padova, dove si laurea in Giurisprudenza con una tesi sui manicomi criminali, considerata dai docenti meritevole di pubblicazione.
Nel 1989 viene arrestato di nuovo perché sorpreso a sniffare cocaina con una ragazzina alla quale dava ripetizioni di diritto commerciale, ma viene rilasciato perché considerato troppo malandato per subire un’altra detenzione.
Non potendo dare più lezioni private, comunque, perde la sua ultima fonte di reddito rimasta.

Luciano Luberti
Negli anni novanta varie organizzazioni antifasciste cercano invano di farlo processare per crimini di guerra.
Luberti, intervistato dalla televisione, non appare per nulla pentito delle sue antiche malefatte e, anzi, ricorda con nostalgia quello che ritiene il periodo più bello della sua vita. Ora, invece, è solo un vecchio abbandonato da tutti che chiede la carità per sopravvivere.
Muore il 10 dicembre 2002 per un tumore alla prostata, all’età di 81 anni.
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