INTERNET IMPOVERISCE LA CULTURA?

Bayeux

Frequento internet dalla seconda metà degli anni ottanta, quando ancora si chiamava Arpanet e viaggiava parallelamente ad altre reti come Fidonet e il Packet Radio, a volte intersecandosi con loro più o meno ufficialmente. Il mio primo sito (ospitato su un pc clone XT con due floppy drive da 5 pollici e 360 kb) risale al 1989.

A metà anni novanta Arpanet, cui avevano accesso utenti istituzionali (e privati con password scambiate sotto banco), si trasformò nel World Wide Web attuale, una rete a disposizione di tutti. La cosa fu annunciata come una grandissima opportunità per il mondo culturale: accesso ai cataloghi delle biblioteche di tutto il mondo, disponibilità online di testi scientifici e letterari, scambio immediato di informazioni rilevanti (le mail). Le immagini erano ancora pochissime e in bassa risoluzione, per scaricare una fotografia ci volevano dieci minuti, a volte anche un’oretta. I video esistevano solo nelle pubblicità della Fiat, l’audio era a 8 bit monofonico, praticamente dei bip.

Come era accaduto con la stampa, a velocizzare lo sviluppo della rete fu la pornografia. I negozi online arrivarono con lentezza, le biblioteche misero sì online i loro cataloghi, ma tutto sommato chi se ne fregava di sapere che la Nazionale di Francia possedeva un certo volume.

Dagli anni Duemila la faccenda della rete prese la piega che conosciamo oggi, grazie soprattutto a computer economici in grado di gestire non solo il peso crescente delle pagine web, ma anche e soprattutto le applicazioni cosiddette multimediali, quello che la gente voleva: come il porno ben visibile e in movimento. L’aspetto culturale di Internet finì pian piano nel dimenticatoio.

Arriviamo a oggi. Ma prima domandiamoci che cos’è la cultura. Una definizione in due parole può essere quella di conoscenza utilizzata per sé e gli altri. La cultura è un fatto soggettivo, un computer non può essere colto, così come non può esserlo una biblioteca. La definizione del dizionario Treccani è illuminante: la cultura è “l’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, rielaborandole peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo della sua personalità morale, della sua spiritualità e del suo gusto estetico, e, in breve, nella consapevolezza di sé e del proprio mondo”.
Quali esperienze e quale opportunità di studio offre Internet? Quando penso alla rete mi vengono in mente i grandi magazzini Amazon e milioni di siti banalissimi che si copiano l’un l’altro per cavare qualche soldo dalla pubblicità. E milioni di siti porno. Anche i cataloghi delle biblioteche e i servizi del municipio, e la possibilità di pagare le fatture online, tutte cose che peraltro già offriva quarant’anni fa la rete Minitel francese.

Possiamo comunque cercare di essere indulgenti e allora dire che Internet è un notevole serbatoio di informazioni grezze, le quali una volta elaborate dall’individuo diventano almeno in parte cultura?

E no, Internet non è un buon serbatoio, Internet è una gigantesca memoria in grado di fornire elementi base su moltissimi argomenti, ma solo elementi base. Qualsiasi buon manuale liceale contiene più informazioni di tutta Wikipedia su uno specifico argomento, ed esistono milioni di argomenti che Internet non sa neanche che esistano. Cercate il nome di un disegnatore di fumetti di quelli minori del “Monello” anni settanta. Probabilmente in Internet non lo troverete, o troverete una citazione di sfuggita. Prendete un certo prodotto in voga quarant’anni fa, facile che non ne troverete niente. Nei tardi anni Settanta la Halgher produceva un liquore di alghe pubblicizzato da Lucio Flauto, era probabilmente terribile ma grazie a una pubblicità martellante ne vendevano milioni di bottiglie. Un fatto notevole: cercatene notizie su Google e fatemi sapere.

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Il liquore d’alghe Halgher

Esistono 146 milioni di pagine sui Beatles e solo sei su Marcantonio Roffia (nobiluomo e musicista toscano di metà Settecento), e quelle sei rimandano ad archivi a stampa non consultabili online.

Qualche furbacchione dirà: e chi se ne frega del Marcantonio! E no, la cultura non è saper soffiarsi il naso ovvero conoscere il nome dei quattro Beatles, la cultura è qualcosa che si acquisisce. Saper fare la pipì non è un fatto culturale. Lo è saper suonare, anche male, uno strumento musicale, parlare un’altra lingua, godersi un fumetto: molti ragazzi attuali quando guardano una pagina di fumetti non la capiscono, non ne capiscono il pur semplice linguaggio. Sono monchi di quella competenza che si ritrova già presente in certi affreschi medievali, non potranno mai godersi le avventure degli Aristocratici o dei Peanuts e neppure quelle riportate sull’arazzo di Bayeux: realizzato nell’XI secolo è lungo quasi settanta metri. Illustra l’invasione normanna dell’Inghilterra: è, in un certo senso, la prima strip della storia.

I ragazzi storditi dalle spesso banalissime vignette di Facebook capiscono a volte i fumetti menagramo e legati all’attualità, forse perché sono sempre più privi di quella funzione avanzata della psiche che è il senso dell’umorismo, una di quelle competenze culturali profonde la cui sempre più diffusa assenza impedisce per esempio di capire che farsi una gita in macchina con la morosa non significa provocare lo scioglimento dei ghiacci polari. Sempre più ragazzi sono sempre serissimi e già vecchi a vent’anni. Almeno fossero coerenti e si leggessero Tonio Kröger per tormentarsi a dovere. Ah già, dovrebbero saper leggere e anche sapere che quel rompiballe di Thomas Mann è esistito, come non detto.

A dire il vero, il mainstream sta cercando di sostituire la progressiva cancellazione dell’apprendimento culturale con la nobilitazione dei fatti elementari, persino fisiologici della vita: mangiare, orinare, mettersi le dita nel naso, cose così. Pochi giorni fa il “Corriere della Sera” ha pubblicato un articolo su: “Doccia tutti i giorni? Gli errori da evitare e le istruzioni per l’uso”. Sei pagine di preziose istruzioni. Meno male che ho letto l’articolo. Chissà se in futuro sarà necessario un patentino per farsi la doccia.

Anni fa in un bel libretto intitolato De bibliotheca, Umberto Eco diceva che prima della disponibilità universale delle fotocopie, gli studenti erano obbligati a copiarsi a mano pagine e pagine di libri, magari riassumendole durante la copiatura per risparmiare tempo, e che quella operazione faceva sì che anche nella testa dello studente più svogliato rimanesse un qualche contenuto. Le fotocopie hanno inaugurato l’era dell’apprendimento per osmosi: uno va in copisteria, si fotocopia il libro per l’esame e se ne torna a casa con la falsa sensazione di avere già in qualche modo acquisito quei testi. Internet ha portato alla perfezione l’intuizione di Eco: la conoscenza universale è disponibile ovunque e in ogni momento, quindi in un certo qual modo la si possiede anche senza possederla, tanto è lì. Il cloud di cui tutti parlano come della salvezza dell’anima ne è la perfetta espressione: la nuvola del sapere, lassù per l’appunto, non nella testa.

Ma la vita reale non funziona così, prima o poi l’esame va dato e le fotocopie vanno lette. I politici sembrano però non accorgersene e trovano nel tecnologizzato nulla intellettuale la loro dimensione perfetta. Il primo ministro del Land tedesco del Baden Württemberg, un verde, ha recentemente dichiarato che tutto sommato imparare a scrivere non è più così importante, tanto esistono i tablet e i telefonini che ti correggono gli errori, quindi quello della scrittura è un insegnamento oggi irrilevante nella scuola primaria. Un’idea non nuova: in Finlandia da tempo ormai i bambini imparano a scrivere solo in stampatello sennò fa loro fatica. La scrittura non è solo scrivere, ma favorisce anche lo sviluppo di parti del cervello fondamentali per il ragionamento, scrivere costruisce la mente, soprattutto scrivere in corsivo. Così come imparare il greco e il latino o la matematica non è un qualcosa che serva direttamente una volta che si lavori in un call center, ma certamente aiuta a capire che a farsi sbattere giù il telefono dalla gente scocciata non si sta facendo un pregiato lavoro della new economy 4.0, ma si è semplicemente degli schiavi.

Internet può essere vista o come un’occasione sprecata o come uno strumento sottile di annullamento, non so se pilotato. Perché comprare un disco quando se ne hanno a disposizione milioni online? Già, solo che una mente umana può gestire facilmente una collezione di trecento dischi (o CD o cassette, comunque oggetti fisici) comprendenti canzoni preferite e canzoni che non si sopportano, mentre quaranta milioni di brani astratti sono ingestibili: è impossibile anche solo frugare in una tale massa di suoni, e così le persone finiscono con l’ascoltare sempre solo quelle trenta o quaranta canzoni molto note (il loop positivo di cui parlo più avanti) riducendo il loro campo di esperienza sonora.

I guru della rete la chiamano democrazia digitale, perché per esempio nel caso della musica non si deve dipendere dai gusti di un DJ. Così come gli esponenti della sedicente pedagogia democratica gioiscono del fatto che gli insegnanti siano sempre meno autorevoli e che l’idea cretina degli studenti che insegnano a studenti si faccia sempre più strada: e infatti i voti oggi sono gli studenti a darli ai professori. Questa non è democrazia, ma baratro intellettuale. Fra non molto i ragazzi così esaltati nelle loro esistenze elementari si aspetteranno di essere lodati per aver fatto un bel rutto, non per aver preso 8 in chimica.

Parlando del suo contributo alla realizzazione dell’Enciclopedia Europea di Garzanti, Gianandrea Piccioli (in seguito divenuto direttore della casa editrice) racconta che nel riordinare le voci “dedicavamo ore alle proporzioni degli spazi. Se Dante merita un certo numero di righe, quante ne diamo a Brunetto Latini? Il che comporta un’idea del mondo e dei suoi ordini, ossia la costruzione di una mappa che non è la Verità assoluta ma uno strumento provvisorio con cui orientarsi”. Esattamente ciò che Internet ha demolito: “È venuto meno il progetto illuministico di codificazione intellettuale della realtà. […] e la cultura informatica fatta di tessere che non si compongono in mosaico è – nel bene e nel male – frutto e insieme volano del crollo della progettualità” (“la Repubblica”, 3 aprile 2012).

Google Books ha l’ambizione di digitalizzare tutti i libri esistenti, ambizione condivisa da archive.org. Una bella comodità per chi faccia ricerca e abbia bisogno di una citazione, di un riferimento, o anche solo di sapere che un certo argomento è citato in un certo libro da procurarsi poi in biblioteca. Ma per tutti gli altri? Il fatto è che un libro poi va anche letto e capito, bisogna possedere gli strumenti per collegare una informazione a un’altra che si possiede già, o per metterla opportunamente da parte per eventuali collegamenti futuri.
Bisogna anche saper leggere, cosa che non darei troppo per scontata al momento visto l’andazzo. E siamo alle fotocopie di Umberto Eco, i libri sono tutti lì online e questo basta. La cosa sublime è che per la maggior parte sono lì online, ma sono oscurati per questioni di diritti, un cloud perfetto: la conoscenza è a portata di mano, puoi accedervi ma non vederla. Ma fa lo stesso.

Se anche fosse tutto ben visibile, il giorno in cui volessi cercare notizie su un John Lennon ciabattino di Bristol omonimo del John Lennon cantante non ne uscirei vivo mancando filtri critici forniti per esempio dai bibliotecari. Democrazia digitale.

Per chi come me si occupa di storia della tecnologia, le riviste tecniche pubblicate fino agli anni Settanta del Novecento sono una benedizione, in particolare le pubblicità aprono spesso nuove prospettive. Al di là degli articoli, ogni tanto capita sotto gli occhi un’architettura notevole: un ponte, la sede di una società, l’arredo urbano di una piazza. Cerco in Internet notizie e non trovo niente di niente. Al massimo rimandi a opere a stampa quasi sempre di difficile reperibilità. Provate a cercare informazioni sugli interessanti benché bruttini lampioni di cemento centrifugato istallati di fronte alla stazione di Porta Nuova a Verona prodotti dalla Scac. Peraltro se cercate in Internet informazioni sulla Scac (una azienda che per decenni ha fornito i migliori manufatti di cemento armato a tutto il mondo, dai ponti ai pali del telefono) troverete poche righe striminzite e qualche rimando a libri introvabili, anche se presenti su Google Books.

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Oggi persino il mio fruttivendolo discetta di arredo urbano. Ma il nome del progettista di questi non belli, tuttavia interessanti lampioni del 1951 non lo troverò mai, in Internet.

Su un sito dedicato all’architettura urbana sono anni che alcuni appassionati di storia milanese cercano notizie su una affascinante torre detta delle milizie che esisteva un tempo in viale Troya a Milano. Un’architettura di epoca fascista e luogo nel 1945 di fatti tragici. Diventata nel dopoguerra sezione credo abusiva del Movimento sociale italiano fu demolita nei primi anni Settanta. Quei tizi del sito di architettura ci hanno messo non so quanti anni a racimolare in internet qualche informazione e una manciata di immagini. Se si fossero presi la briga di uscire di casa e andare in biblioteca a frugare nei vecchi quotidiani o tra le concessioni edilizie degli anni Trenta, avrebbero risolto in un paio di pomeriggi; magari anche fare un salto in viale Troya a chiacchierare con gli abitanti più anziani del quartiere avrebbe aiutato.

Su Internet c’è solo quello che c’è, niente di più. Nel mondo reale c’è tutto e spesso anche quello che non c’è.

Torre delle milizie di viale Troya a Milano. Fonte dell’immagine sconosciuta

Ci si potrebbe non a torto domandare perché mai uno dovrebbe investire tempo e denaro per fare una ricerca su un palazzo a pianta circolare di viale Troya. Dovrebbe essere quanto meno finanziato da un’università o una fondazione, o dovrebbe cavarne una tesi di dottorato. Ma il mondo, in particolare accademico, vuole sempre più notizie su argomenti politicamente solidi e popolari, nel bene e nel male, ovvero portatori di denaro pubblico e non: immigrazione, riscaldamento globale, condizione dei transgender, tutte faccende di sicura importanza che però finiscono con il monopolizzare in modo ipertrofico le menti degli studiosi. La qual cosa si trasferisce su Internet.

Perché Internet funziona in modo autoreferente e regolato da loop negativi e positivi (positive / negative feedback loops): meno informazioni esistono su un certo argomento, meno ne emergono e ne sono prodotte, perché gli algoritmi dei motori di ricerca premiano i siti e gli argomenti di maggiore interesse generale, qualsiasi essi siano, i quali grazie a un loop positivo vengono sempre più enfatizzati. Mentre gli interessi di nicchia sono abbandonati al loro destino, fin quando il proprietario del sito dedicato alla metallurgia in Transilvania nel primo Settecento non decide che è stufo di pagare per niente lo spazio web e la relativa conoscenza va perduta.

Finché la cultura era considerata il fondamento della civiltà, qualsiasi argomento trovava sostegno da parte dei governi, delle fondazioni, di mecenati. Oggi il travasamento del metodo quantitativo da Internet al mondo accademico e sociale sta provocando la cancellazione della conoscenza, anche in senso materiale: le biblioteche e le facoltà meno popolari sono smantellate nel nome della bassa redditività.

Quando scrivo su “Giornale Pop”, il software del giornale mi ammonisce infallibilmente con un pallino rosso che il mio linguaggio e i miei contenuti non saranno apprezzati dai motori di ricerca: non dai lettori, si badi, ma da altri computer. Faccio frasi troppo lunghe e difficili (sic) e non uso parole-chiave forti, cioè le parole che vanno per la maggiore. E infatti “Giornale Pop” non è tra i siti preferiti da Google, con frustrazione mia e penso di Pennacchioli.

Anche se alcuni ci provano da decenni a farlo credere, Internet non è il mondo, così come un film porno non ha il profumo della propria fidanzata. Per sentire una canzone ci vuole il tempo che dura, per leggere un libro ci vogliono molte ore, non basta cliccare sul titolo. L’impaginazione di un libro è il prodotto di secoli di affinamento dell’arte tipografica teso a rendere sempre più leggibile il contenuto, un e-book sta a un libro quanto un film porno in bassa risoluzione sta alla fidanzata profumata di cui sopra.

Il meccanismo di loop positivo promosso da Internet e dai suoi siti più importanti come Facebook fa sì che la maggior parte delle persone ormai consideri sempre più il mondo attraverso le fotografie dei telefonini altrui, vada cioè a vedere sempre le stesse cose e solo perché le hanno viste fotografate da altri. Quante volte avete sentito dire frasi tipo: “non si può non vedere…”. Ogni giorno su Facebook sono caricati tre miliardi di immagini, tutte uguali. Servono solo al signor Zuckerberg a far soldi, quando caricate una foto state lavorando gratis per Facebook. Forse non ve ne rendete conto perché quel giorno in cui spiegavano Marx avevate l’influenza.

Molti sedicenti designer e aspiranti intellettuali da social network citano volentieri Gropius e il Bauhaus, ma quanti di loro sono stati a vedere o anche solo conoscono la fabbrica di Gropius per forme di scarpe Fagus ad Alfeld in Bassa Sassonia? Certo, citare la poltrona Wassily di Breuer fa subito colpo, il pubblico si dà di gomito annuendo, le forme per scarpe che accidenti sono?

Quando la gente scrive su TripAdvisor che la visita della cripta della chiesa di San Sepolcro a Milano si è rivelata poco interessante è solo perché non si rende conto di camminare sulle pietre del Foro romano (e probabilmente non sa che cosa sia un foro romano né chi fosse Augusto, né perché esistano le cripte). TripAdvisor avrebbe potuto limitarsi a recensire gli alberghi, un servizio utile, invece attraverso una massa di persone ignoranti è diventato giudice di un sapere che quelle persone non sono in grado di cogliere.

Perché le cose hanno valore per la conoscenza attraverso cui si osservano, non perché il vicino di casa le ha messe su Instagram, altrimenti diventano noiosissime. Ricordo anni fa un poveretto dall’accento napoletano smadonnare davanti alla casa natale di Bach a Eisenach, perché non c’era una pizzeria “in questo cazzo di posto”, parole sue. Era arrivato con un tour organizzato, e aveva perfettamente ragione, si stava annoiando tantissimo a guardare una per lui insignificante casa seicentesca della Sassonia. Solo che il giudizio di quello sciagurato diventa poi metro di giudizio della rete, la quale finirà con il valutare la Eisenach di Bach e di Lutero sulla base delle pizzerie disponibili. E dalla rete la cosa passerà ai finanziamenti pubblici, che sulla base delle stelline di TripAdvisor riterranno il luogo poco degno di essere sostenuto.

La Val Pusteria è sempre piena di gente che affolla il lago di Braies dove abitava Terence Hill nello sceneggiato Un passo dal cielo: gente infreddolita che si domanda perché mai sia lì a guardare una pozza d’acqua probabilmente annoiandosi e che trova una qualche soddisfazione fotografandosi con alle spalle la caserma della serie televisiva. Foto che finiranno su Facebook invogliando altri ad affollare il lago, distruggendolo.
Un fallimento per tutti, per quelle persone che sprecano le loro vacanze e per il lago di Braies, un bel laghetto alpino al fianco del quale hanno costruito un parcheggio per centinaia di auto. E anche per quelle poche persone che amano davvero il luogo e vorrebbero passarci qualche ora nel silenzio che gli è proprio. Ma per l’effetto del loop positivo di Internet, un processo aculturale e puramente quantitativo, nonostante la delusione sempre più gente affollerà Braies e magari per non far figure scriverà su Facebook che è un posto incantevole – e via di foto del telefonino.

La Tour Eiffel rimanda su Google a 75 milioni di pagine escludendo le traduzioni, tower, torre, Turm eccetera. il viadotto del Garabit dello stesso Eiffel, che si mangia in un boccone la torre quanto a interesse e bellezza, arriva sì e no a centomila pagine comprendendo tutte le lingue principali. Sono pronto a scommettere che in due anni la torre arriverà a cento milioni di pagine, il ponte resterà più o meno fermo. Così funziona il mondo vissuto attraverso Internet: un ambiente fatto di immensa aria fritta e spazi vitali sempre più angusti.

Internet ha spaventosamente impoverito la vita intellettuale delle persone, e anche quella economica, visto che nel nome della democrazia digitale qualsiasi contenuto costato decenni di studio e di lavoro è dato via gratuitamente se non rubato legalmente. E si sa che le cose gratis non hanno valore anche se sono preziose, quindi tanto meno ha valore la persona che le ha prodotte.

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Clifford Stoll, “Eretico High-Tech. Perché i computer nelle scuole non servono”, Garzanti, Milano, 1999

Anni fa suggerii a Garzanti di pubblicare un volumetto di Clifford Stoll, drammatico e profetico pur se divertente, Eretico High-Tech. Perché i computer nelle scuole non servono, che poi tradussi. Racconta, nel 1999, di un nuovo mondo incipiente fatto di rapporti non più tra persone ma di rapporti di persone con i computer, di biblioteche senza più libri, il nulla esaltato a perfezione, come le case deserte di Marie Kondō.

Lo spostamento dei rapporti dalle persone alle macchine pilotate da algoritmi pensati da persone ignoranti fa sì che in teoria oggi gli insegnanti non possano più seguire il proprio sapere e la propria esperienza, non esiste più il bravo insegnante. Gli insegnanti devono seguire i protocolli, altrimenti rischiano anche il posto. I protocolli sono manuali di istruzione di comportamento umano che prescindono dall’essere umano. L’obiettivo di una parte della classe dirigente è far sì che le persone non pensino ma seguano le istruzioni: l’operazione è perfettamente riuscita, ma il paziente è morto.

Per seguire i protocolli pedagogici, gli insegnanti devono affidarsi ai protocolli online. Oggi un insegnante passa la maggior parte del suo tempo non a spiegare le tabelline e a fare entrare nella zucca dei bambini qualche concetto intelligente, ma a comunicare per iscritto a un server che alle 15.00 di martedì ha spiegato all’allievo 15674 che aprendo il rubinetto con il bollino rosso esce l’acqua calda, l’informazione prescritta dal protocollo. Ha rapporti con un sistema informatico, non con l’alunno 15674 che in realtà è un simpatico ragazzino dai capelli rossi e di nome Ugo. L’entusiasmo della conoscenza è abolito, i contenuti anche.

Nel 1999 sapevo che negli Usa la situazione della cultura era quella grottesca descritta dall’autore, lo vedevo dalle novità di saggistica che dovevo leggere per lavoro, ma non avrei mai creduto che un disastro del genere (Internet, cioè il veicolo, come sostituto dell’insegnamento, cioè il contenuto) avrebbe potuto diffondersi in Italia e più in generale nei Paesi del Sud Europa. E invece con la chiusura delle scuole dovuta al virus ci stanno quasi riuscendo. Di questo libro parlerò in un altro articolo.

(Copyright © 2020 Andrea Antonini, Berlino. Foto di apertura dettaglio dell’arazzo di Bayeux citato nell’articolo).

1 commento

  1. Ho amato questo articolo.

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