IL METODO DI STENO IN 18 SEQUENZE

IL METODO DI  STENO IN 18 SEQUENZE

Se si comincia a studiare l’opera di Steno (Stefano Vanzina, Roma 1917-1988), con serietà e senza pregiudizi, ci si accorge che è limitativo definirlo un regista comico e che, forse, può essere addirittura considerato un autore importante, quindi meritevole di un discorso approfondito.

Partiamo dagli inizi della carriera dietro la macchina da presa, gli anni dei film diretti insieme a Mario Monicelli. Esordiscono nel 1949 con Al diavolo la celebrità, variazione brillante sul mito di Faust, una commedia fantastica che la dice lunga su quelli che saranno i temi preferiti dal regista.

Nello stesso anno, Totò cerca casa comincia a fondere il sociale del neorealismo con l’ironia e la farsa, segno che Steno aveva personalità e non era tipo da seguire la corrente.

Lo confermano i primi film diretti da solo: Totò e le donne (solo ufficialmente realizzato in coppia con Monicelli) e Totò a colori, entrambi del 1952. L’astrazione dal reale che il regista sembra perseguire fin da subito corrisponde all’insofferenza dei suoi personaggi. Steno infatti plasma un Totò furioso e ribelle.

Frammenta inoltre in episodi la linearità narrativa, utilizzando l’escamotage del racconto che poi tornerà nel suo film forse più famoso, Un americano a Roma (1954). Titolo imprescindibile perché sintetizza l’intera opera di Steno. Costruito su un Alberto Sordi debordante, sembra il classico film in cui il regista si limita a seguire gli estri del suo protagonista. È un errore però considerarlo in questa maniera, così come ritenerlo la prima commedia all’italiana. L’equivoco nasce forse dal fatto che Sordi ne diverrà uno degli alfieri e in ogni caso è con ogni probabilità quello che paradossalmente conferisce a Steno lo status d’autore, perché in realtà proprio con Un americano a Roma Steno metaforizza il suo desiderio di andare oltre, di cercare ispirazione nei territori dell’avventura, dei generi all’americana, della farsa, del disimpegno più che nel sociale o nel reale, base comunque della commedia all’italiana. Il rapporto di Mericoni con il padre, che lo vorrebbe serio lavoratore, ne è il simbolo.

Come tutti i registi che in vari film hanno lavorato alla stregua di artigiani/mestieranti, l’autorialità in certi casi è qualcosa di molto labile e sconfina (o il contrario) per l’appunto nel “mestiere”. L’utilizzo continuo di certe situazioni e ambienti può essere dunque ascrivibile al bagaglio narrativo del regista più che a una necessità “artistica”. Gli esempi in Steno potrebbero essere tanti, e comprendono la ripetizione di certe gag più o meno verbali. Come il “lo fermi questo dito” detto da Totò in Totò e i re di Roma e Totò contro i quattro e il dito fatto tagliare da Nerone a un cortigiano che ha l’abitudine di agitarlo sotto il naso in Mio figlio Nerone (1956).

Ma anche di circostanze narrative e ambientazioni. Per esempio l’uso frequente dei viaggi in treno, come nel film a episodi Letti sbagliati (1965).

Totò nella Luna (1958) è un omaggio al cinema di fantascienza, più che una parodia. In un periodo nel quale oltretutto in Italia il genere poteva contare solo su qualche sporadica produzione (nello stesso anno esce La morte viene dallo spazio, di Paolo Heusch). Il carattere affettuoso del film è dimostrato dall’editore interpretato da Totò, che disprezza i viaggi spaziali e la narrativa di fantascienza (la definisce “fantaschifezza”). Ma sulla Luna ci finisce davvero e troverà un motivo per apprezzarla.

Interessante è rilevare come divergerà la carriera di Steno da quella dagli altri registi che negli anni cinquanta creano la commedia all’italiana: Risi, Monicelli, Comencini. Mentre Comencini, dopo Pane, amore e fantasia, gira La finestra sul luna park e poi Tutti a casa, mentre Risi dopo Poveri ma belli continua con la commedia di costume (Il mattatore, Il vedovo) e poi gira Un amore a Roma e Una vita difficile, mentre Monicelli, dopo il sodalizio con Steno gira Proibito e nel 1959 vince a Cannes con La grande guerra, Steno si dà alla farsa più sfrenata e alla parodia. Di Totò, Eva e il pennello proibito (1959) fa addirittura il manifesto teorico del suo cinema, con la figura del copista Scorcelletti che difende rabbiosamente la dignità del proprio lavoro (“Tutti sono capaci di fare, è copiare che è difficile”), anche e soprattutto contro il committente che lo sottovaluta.

In questa difesa del prodotto “basso”, del mestiere e dell’artigianato, c’è la stessa guerra contro il mondo, a volte disperata, che muove i personaggi di Steno. Nel voler praticare la parodia e il cinema di genere c’è la stessa ossessione, la stessa fissazione che anima i suoi personaggi. Il cinema di Steno è pura astrazione, che lo colloca ai margini della considerazione critica. In questo senso la sua potrebbe persino essere ritenuta artistica. Se, come sentenziò Orson Welles (che oltretutto Steno è stato uno dei pochi registi italiani a dirigere in L’uomo, la bestia e la virtù, 1953), “l’artista deve essere sempre emarginato”.

Steno, pur dirigendo film di successo, pur firma apprezzata, un po’ emarginato dall’intellighenzia che guardava con diffidenza i suoi film di consumo, d’evasione, lo è sempre stato. Eppure ha continuato per la propria strada, e in ogni suo film anticipa quello successivo, i ritorni dello stesso tema e i rifacimenti sono molteplici, a dimostrazione di un percorso creativo e artistico consapevole, affatto casuale o dettato dalle mode. Amore all’italiana, per esempio, contiene già Arriva Dorellik, la commedia alla siciliana con Buzzanca e Giuffrè e persino Febbre da cavallo.

Non è detto, comunque, che il ricorso al mestiere sia segno di debolezza espressiva e in ogni caso va considerato che Steno, sempre anticipatore, ha fatto ricorso in maniera molto moderna, spregiudicata e ironica ai rimandi, alle citazioni e alle autocitazioni. Tra i tanti esempi, spiccano i riferimenti ai vari slogan pubblicitari di successo, come quello “occulto” in Arriva Dorellik, con frase pronunciata da Baby/Margaret Lee “Dorellik vuol dire fiducia”, ripreso da una serie di spot della Crema Belpaese Galbani diretta proprio da Steno e interpretata da Dorelli nello stesso periodo.

O le due dita alzate da Cantalamessa in Doppio delitto (1977) e riprese da I due colonnelli. In entrambi i casi l’interlocutore crede che si tratti del segno di vittoria e invece Cantalamessa e, nel caso di I due colonnelli, Di Maggio, chiedono semplicemente il permesso di andare in bagno. Ne I due colonnelli però le usava prima il colonnello Anderson per indicare la vittoria dell’esercito mentre Di Maggio lo interpretava come la richiesta di andare in bagno.

La tendenza di Steno a svolgere la narrazione coinvolgendo più personaggi è esemplificata dall’utilizzo in vari film e sequenze del coro. In molti casi si ha una corona di personaggi che sta intorno ai protagonisti, e spesso si tratta proprio di una precisa composizione della scena in cui si svolge l’azione e/o dell’inquadratura. Il coro/microcosmo/mondo che circondano ed entro cui si muovono i protagonisti è, sia ben chiaro, uno dei topoi del cinema e della commedia (e dunque anche della commedia all’italiana che, come scrive Gianni Canova nel saggio Dalla commedia italiana alla commedia all’italiana “rende pubblico il privato”), ma in Steno diventa davvero parte integrante del suo modo di costruire le sceneggiature. La sua abilità nel creare storie e dialoghi nasce anche da questo interagire dialettico tra le figure principali, le secondarie e l’ambiente. E spesso figure secondarie e ambiente diventano tutt’uno, assumono il ruolo di cartina al tornasole per evidenziare le sfaccettature dei protagonisti. Risalta ovviamente la Napoli di Piedone lo sbirro (1974). Ed è proprio in un film come questo, prodotto “popolare” (in tutti i sensi) così mirabilmente costruito, tanto da dare vita a una vera e propria serie che poi, in fin dei conti, è servita come “pilota” del telefilm Big Man – Il professore, che infatti mutua situazioni, personaggi e, nella puntata Polizza droga, persino il tema musicale da Piedone lo sbirro, che si coglie l’attenzione che il regista riserva alle figure “collaterali” e l’importanza di ognuna di esse per la composizione dell’inquadratura, funzione narrativa dunque ma anche figurativa e, volendo, persino etica.

Così come Letto a tre piazze è il prodromo delle commedie biandriche e di coppia degli anni settanta e ottanta come Fico d’India.

In ogni film di Steno c’è qualcosa di bizzarro, di grottesco, di visionario, di surreale, che non solo rende difficoltoso definirlo soltanto un regista comico; non solo dimostra il suo estro non comune e la sua illimitata fantasia anche visiva, ma rappresenta un filo rosso che unisce ogni suo titolo e che certifica persino il mistero di un regista che aveva una matrice certamente diversa da quella puramente farsesca, come a prima vista potrebbe sembrare, e che sceglieva la comicità per poter sviscerare una creatività che oseremmo definire gotica, dunque non certo puramente comica. Come nella variazione brillante (difficile definirlo una parodia) sul vampirismo in Tempi duri per i vampiri (1959).

Se dovessimo mettere in questo senso una dietro l’altra alcune immagini o sequenze steniane dovremmo quasi compilare un elenco. Si pensi soltanto alla figura del regista horror in Sballato, gasato, completamente fuso (1982).

Tra i registi italiani di film comici e commedie, Steno inoltre è stato, con ogni probabilità, quello che ha dato più spazio alla figura del poliziotto, sia in versione brillante che seria. Si va dal celebre Guardie e ladri (1951), diretto insieme a Monicelli, al drammatico La polizia ringrazia (firmato con il suo vero nome), del 1972. Interpretato da Enrico Maria Salerno e Mariangela Melato, può essere considerato l’iniziatore di un genere, il poliziottesco, che negli anni settanta si ritaglierà uno spazio considerevole nel nostro cinema.

Il caso di Bonnie e Clyde all’italiana (1982) è esemplare. Pur trattandosi di un film considerato minore, e pur essendo uno di quelle produzioni messa in piedi quasi esclusivamente sul nome degli attori (Paolo Villaggio e Ornella Muti all’apice del successo), o forse proprio per questo, permette a Steno di creare la sua situazione narrativa preferita e di lavorarci sopra senza troppi vincoli, che appesantiscono invece i coevi Dio li fa poi li accoppia e Mani di fata. I personaggi vengono tolti dal loro contesto e mandati in giro per il mondo, come in tanti titoli precedenti. Il riferimento è al film di Arthur Penn Gangster Story (1967), che si rifaceva alle imprese di una famosa coppia di fuorilegge degli anni trenta. I protagonisti sono due modesti impiegati, Leo Gavazzi, che lavora come rappresentante di scherzi di carnevale, e Rosetta Foschini, annunciatrice delle Ferrovie. Durante una rapina a una banca i due vengono presi come ostaggio. La fuga dei banditi finisce giù da un ponte, e Leo e Rosetta scappano scambiando la valigia di rappresentanza di lui con la valigia della refurtiva. Inseguiti dalla banda del Marsigliese, che vuole recuperare i soldi, fuggono attraverso la Toscana finché non incontrano un evaso che li coinvolge in una rapina a un portavalori. Ma l’evaso si rivela un comandante dei carabinieri, che li ha usati per catturare il Marsigliese. Alla fine la ragazza scambia le valigie e fugge con il protagonista e i soldi. Il personaggio di lei è il più significativo: ci vede poco senza gli occhiali, che perde durante la rapina in banca, e sogna una vita sui modelli proposti dai film americani (è un continuo riferirsi ad attori celebri storpiandone i nomi: Jon Vaine, Gari Coper e Sterlin Haiden, come d’altra parte facevano Ave Ninchi e Totò con Gregorio Pecco nella scena del litigio in Totò e le donne). Ha cambiato il nome Rosetta in un più esotico Giada e, ovviamente, crede che il suo occasionale compagno di avventure sia un fusto eroico, e lui approfitta della situazione per lasciarglielo credere. Ma a Rosetta piace anche un tipo di uomo buono, gentile e timido e dunque, quando infine riesce a recuperare un paio di occhiali e vede Leo per la prima volta, lo preferisce comunque all’aitante carabiniere. Bonnie e Clyde all’italiana è un film chiaramente girato su commissione, che può sembrare simile a tanti film comici italiani degli anni ottanta e che, nonostante l’apparente semplicità e meccanicità della messa in scena, evidenzia in ogni inquadratura e sequenza un gusto e un’idea cinematografica squisitamente steniana.

Filmografia completa di Steno

Al diavolo la celebrità (1949) (co-regia con Mario Monicelli)
Totò cerca casa (1949) (co-regia con Mario Monicelli)
Vita da cani (1950) (co-regia con Mario Monicelli)
È arrivato il cavaliere (1950) (co-regia con Mario Monicelli)
Guardie e ladri (1951) (co-regia con Mario Monicelli)
Totò e i re di Roma (1951) (co-regia con Mario Monicelli)
Totò e le donne (1952) (co-regia con Mario Monicelli)
Totò a colori (1952)
Le infedeli (1953) (co-regia con Mario Monicelli)
L’uomo, la bestia e la virtù (1953)
Cinema d’altri tempi (1953)
Un giorno in pretura (1953)
Un americano a Roma (1954)
Le avventure di Giacomo Casanova (1954)
Piccola posta (1955)
Mio figlio Nerone (1956)
Guardia, ladro e cameriera (1958)
Femmine tre volte (1957)
Susanna tutta panna (1957)
Mia nonna poliziotto (1958)
Totò nella luna (1958)
Totò, Eva e il pennello proibito (1959)
I tartassati (1959)
Tempi duri per i vampiri (1959)
Un militare e mezzo (1960)
Letto a tre piazze (1960)
A noi piace freddo…! (1960)
Psycosissimo (1961)
I moschettieri del mare (1961)
La ragazza di mille mesi (1961)
I due colonnelli (1962)
Totò diabolicus (1962)
Copacabana Palace (1962)
Totò contro i quattro (1963)
Gli eroi del West (1963)
I gemelli del Texas (1964)
Un mostro e mezzo (1964)
Letti sbagliati (1965)
Rose rosse per Angelica (1965)
Amore all’italiana (1966)
La feldmarescialla (1967)
Arriva Dorellik (1967)
Il mostro della domenica, episodio di Capriccio all’italiana (1967)
Il trapianto (1969)
Cose di Cosa Nostra (1971)
Il vichingo venuto dal sud (1971)
La polizia ringrazia (1972)
Il terrore con gli occhi storti (1972)
L’uccello migratore (1972)
Anastasia mio fratello (1973)
Piedone lo sbirro (1973)
La poliziotta (1974)
Piedone a Hong Kong (1974)
Il padrone e l’operaio (1975)
Febbre da cavallo (1976)
L’Italia s’è rotta (1976)
Tre tigri contro tre tigri (1977) (co-regia con Sergio Corbucci)
Doppio delitto (1977)
Piedone l’africano (1978)
Amori miei (1978)
Dottor Jekyll e gentile signora (1979)
La patata bollente (1979)
Piedone d’Egitto (1980)
Fico d’India (1980)
Quando la coppia scoppia (1981)
Il tango della gelosia (1981)
Dio li fa poi li accoppia (1982)
Banana Joe (1982)
Sballato, gasato, completamente fuso (1982)
Bonnie e Clyde all’italiana (1983)
Mani di fata (1983)
Mi faccia causa (1984)
Animali metropolitani (1987)
L’ombra nera del Vesuvio (1987, miniserie TV)
Big Man (1987-1988, miniserie TV) (5 episodi)

 

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