CINA E RUSSIA SI INCONTRANO NEL SEICENTO

CINA E RUSSIA SI INCONTRANO NEL SEICENTO

Il consolidamento del controllo sulla Cina e la stabilità delle frontiere furono due aspetti strettamente connessi nella conduzione politica di Kangxi (Aisin Gioro Xuanye, anni di regno 1662-1722), imperatore della dinastia di origine mancese dei Qing.

Subito dopo la conquista dell’isola di Taiwan nel 1683, il sovrano Qing (dinastia subentrata nel 1644 a quella Ming nel governo dell’impero cinese) concentrò la propria attenzione sul problema che l’espansionismo russo poneva sul confine settentrionale.

Come per i rapporti con le popolazioni dell’Asia interna (mongoli, tibetani e altri popoli centroasiatici), anche quelli con la Russia ricaddero sotto la giurisdizione del Lifanyuan, un organismo peculiare del governo Qing, la cui guida fu sempre preclusa agli Han (il ceppo etnico maggioritario della Cina).

Agenzia creata nel 1638, quando ancora i mancesi si trovavano a nordest della Grande Muraglia, dopo il 1644 fu volutamente tenuta separata dal tradizionale Ministero dei Riti (Libu), incaricato delle relazioni con la Corea, gli Stati del Sudest asiatico e gli europei che arrivavano dai mari del sud.

In questo periodo le relazioni russo-mancesi passarono attraverso tre fasi: riconoscimento reciproco, confronto militare e accordo diplomatico.

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Alessio I (r. 1645-1676), primo zar a inviare una missione diplomatica a Pechino

 

Solo alla metà del Seicento i Russi si erano resi conto che i Qing avevano conquistato la Cina e che la regione del fiume Amur ricadeva quindi sotto la sovranità dell’imperatore che risiedeva a Pechino.
Allo stesso tempo, la corte Qing realizzò gradualmente che i cacciatori di pellicce e gli esploratori, comparsi nella parte settentrionale della Manciuria, erano sudditi dello zar di Russia (Eluosi).

In precedenza i contatti fra questi due mondi erano stati intrattenuti soprattutto dai mercanti, con le tribù mongole che fungevano da intermediarie. L’insediamento di Nerchinsk (a circa 640 km a est del lago Bajkal) fu fondato dai Russi nel 1654. Agli stessi anni risale anche Albazin, il primo centro russo sul fiume Amur.

Gli esordi diplomatici riflettono le carenze di una conoscenza reciproca, ancora lacunosa.
Dopo una prima ma inconcludente missione diplomatica russa, arrivata in Cina nel 1656 sotto la  guida del boiaro Fedor Isakovich Bajkov, e una serie di violenti scontri fra cosacchi e popoli tungusi, vassalli dei Qing, un funzionario mancese giunse a Nerchinsk nel 1670 per discutere del problema rappresentato da Ghantimur, un ribelle appartenente alla tribù dei Solun, che si era rifugiato presso i Russi.

Come risposta, il comandante della guarnigione di Nerchinsk inviò il cosacco Milovanov con il compito di assicurarsi la sottomissione del sovrano che governava il bacino dell’Amur, ancora non consapevole che si trattasse dell’imperatore della Cina.

Non appena il governo dello zar Alessio (r. 1645-1676, padre del più noto Pietro) apprese la vera identità dell’interlocutore, fu inviata nel 1675 una nuova missione, capeggiata dal diplomatico e scrittore moldavo Nicolae Milescu Spathari (1636-1708).

Giunto a Pechino, l’inviato dello zar compromise il proprio incarico, non solo rifiutando di praticare dinanzi all’imperatore il rituale del “kowtow” (una serie di genuflessioni, toccando il suolo con la fronte), ma anche affermando apertamente di non essere stato autorizzato a discutere i problemi territoriali relativi all’Amur, l’unica questione alla quale la corte Qing era interessata.

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Kangxi (Aisin Gioro Xuanye, r. 1662-1722), sovrano della dinastia mancese dei Qing (1644-1911)

 

Agitato dal numero crescente di coloni che giungevano a Nerchinsk e Albazin, Kangxi sfruttò le abilità linguistiche dei gesuiti europei presenti a corte e inviò delle lettere indirizzate a Mosca, nel tentativo di comprendere le intenzioni russe.

L’assenza di buone mappe da entrambe le parti, la pressione per ulteriori occupazioni di terre da parte dei coloni e del clero ortodosso nonché la fuga in territorio Qing di un numero crescente di disertori ed esiliati aumentarono le tensioni e la confusione generale.

A tutto ciò si deve aggiungere l’ostilità mancese alla presenza, lungo il proprio confine, di una linea di fortificazioni russe, sebbene queste apportassero indubbi benefici agli scambi commerciali.

Alla fine del 1682 Kangxi comandò ai generali mancesi Langtan (1634–1695) e Pengcun († 1701) di compiere missioni di ricognizione in tutta la regione dell’Amur e di creare basi operative a Ningguta (Ning’an) e Wula, entrambe nell’odierna provincia dello Heilongjiang (nome cinese dell’Amur).

L’imperatore inoltre ordinò a due comandanti, che in precedenza avevano servito agli ordini dei ribelli Wu Sangui (1612-1678) e Zheng Chenggong (meglio conosciuto come Coxinga, 1624-1662), di dirigersi alla volta della Manciuria settentrionale e unirsi alle forze di Pengcun.

Non è da escludere che con questo incarico il sovrano volesse allontanare gli ufficiali in questione da ulteriori tentazioni sovversive. Nel tragitto furono accompagnati da un contingente di circa cinquecento soldati che avevano già combattuto per il regime separatista dei Zheng a Taiwan.

Il risultato delle esplorazioni e dei sondaggi fu la conclusione che un corpo di spedizione di circa tremila soldati, equipaggiato con una ventina di cannoni e sostenuto da un’adeguata flotta fluviale, sarebbe stato sufficiente per sloggiare i russi da Albazin.

Dopo alcuni ritardi, causati anche dalla cautela imposta da Kangxi, l’avamposto russo, protetto da una palizzata di legno, fu attaccato e conquistato il 26 giugno 1685.

Alla maggior parte dei prigionieri, circa seicento, fu permesso di dirigersi verso Nerchinsk, ma una quarantina (prevalentemente cosacchi) decise di rimanere: quelli con mogli e concubine native, alle quali non era permesso lasciare il territorio Qing. Furono inviati a Pechino, dove si unirono a circa settanta altri russi, catturati in precedenza o disertori.

Integrati nell’organizzazione delle Bandiere mancesi, costoro formarono il nucleo di una stabile comunità russa, alla quale fu poi concesso di costruire nella capitale una chiesa ortodossa, ricavata in una vecchia sala da preghiera buddista.

Le autorità Qing avevano preso seriamente la questione logistica della campagna militare del 1685, ordinando il trasporto di cereali, via fiume e via terra, l’allestimento di riserve e l’addestramento delle truppe al combattimento fluviale.

La notizia della presa di Albazin fu perciò accolta con gioia dall’imperatore e dall’intera corte. Si può comprendere anche lo sgomento di Kangxi quando venne a sapere che i russi erano tornati agli inizi del 1686 ad Albazin, ricostruendone le mura (questa volta in terra battuta) e attaccando le pattuglie Qing.

Immediatamente fu allestita una nuova spedizione, al comando del generale mancese Sabsu († 1700) con Langtan come secondo. A farne parte anche un contingente di veterani del Fujian, presumibilmente scelti per la loro esperienza con le armi da fuoco e le tattiche fluviali.

A luglio Albazin fu accerchiata ma i difensori riuscirono a resistere con successo all’assedio, che si protrasse per tre mesi, fino a quando giunse la notizia che un inviato russo era in viaggio verso Pechino. L’esercito Qing ricevette l’ordine di ritirarsi poiché Kangxi aveva scelto di risolvere la controversia percorrendo la via diplomatica.

Le delegazioni russa e mancese si incontrarono nella città di Nerchinsk nell’agosto del 1689. In qualità di interpreti Kangxi inviò due gesuiti, il francese Jean-François Gerbillon (1654–1707) e il portoghese Tomé Pereira (1645-1708), al seguito dei propri rappresentanti.

Con le loro conoscenze del latino e del mancese, i gesuiti furono in grado di comunicare con entrambe le parti, agevolando così la risoluzione della disputa. La folta delegazione Qing (più di 2000 uomini, scorta compresa) era guidata dal Gran Segretario Songgotu († 1703), zio da parte di madre di Kangxi, mentre a capo di quella russa c’erano Fedor Alekseevich Golovin (1650-1706) e Ivan Astafievich Vlasov, governatori rispettivamente di Astrakhan e Nerchinsk.

Facendo la spola tra le due parti, gli instancabili gesuiti prepararono un documento multilingue (in latino, russo, mancese, mongolo e cinese), che per la prima volta tracciava la frontiera tra i due imperi (contrassegnata da precise pietre di confine), stabiliva l’abbandono definitivo del forte di Albazin (riconoscendo allo stesso tempo l’incapacità russa di mantenere la posizione e le rivendicazioni mancesi sul bacino dell’Amur) e permetteva un lucroso commercio per tutti coloro che fossero stati in possesso di passaporti validi, rilasciati dalle due autorità.

Nel 1693 un’ambasceria russa arrivò a Pechino per definire ulteriori aspetti commerciali dell’accordo. Fu infine autorizzata una missione triennale composta da un massimo di duecento persone, che avrebbe potuto trattenersi in territorio Qing per una durata di ottanta giorni.

La linea rossa segna il confine fra impero russo e cinese dopo il trattato di Nerchinsk (1689), frontiera che si sarebbe mantenuta sino al 1858

 

Il trattato di Nerchinsk, siglato ufficialmente il 7 settembre 1689, non solo permise al governo Qing di impegnarsi contro le tribù degli zungari nella Mongolia occidentale senza il timore di interferenze esterne, ma mutò, in senso positivo, i sentimenti di Kangxi nei confronti dei Russi.

In occasione della missione diplomatica che giunse a Pechino nel 1720, il sovrano ormai anziano accolse cordialmente il diplomatico Lev Izmailov. Nel proprio diario, Kangxi riferì, non senza divertimento, dell’usanza russa di rompere i bicchieri dopo un brindisi.

Nel 1727, durante il regno di Yongzheng (Aisin Gioro Yinzhen, r. 1723-1735), i due Stati conclusero l’accordo di Kyachta (città oggi nella Repubblica autonoma di Buriazia) che da un lato definì, a favore dei Qing, la frontiera tra Mongolia e Siberia, dall’altro permise ai russi, consapevoli della locale superiorità mancese sia dal punto di vista militare sia da quello logistico, l’apertura di altri due mercati di confine e la creazione di un ostello russo a Pechino.

Alla luce di questi eventi, la relazione tra la Cina dei Qing e la Russia degli zar tra Seicento e Settecento secolo assume un carattere eccezionale se paragonata a quella con le altre nazioni europee (Portogallo, Olanda o Inghilterra).

Alla Russia fu concesso infatti fu uno status eccezionale e privilegiato, come dimostra il fatto che ai suoi mercanti fu permesso di soggiornare a Pechino per un tempo più lungo rispetto ad altri: conseguenza dell’essere percepita dalle autorità mancesi come l’unica potenza continentale meritevole di essere trattata su un piano paritario.

 

Il primo trattato ufficiale tra una potenza occidentale e il vasto impero sovranazionale retto dalla dinastia Qing è il soggetto di uno splendido lavoro in italiano, pubblicato nel 2017 da L’Erma di Bretschneider, “Aeternum foedus tra Russia e Cina. Il trattato di Nercinsk (1689). Testi, lessici e commentari”, a cura di G. Maniscalco Basile. Purtroppo il saggio costa la bella cifra di 120,00 euro (cartaceo) e 96,00 (digitale).

 

 

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