UNABOMBER COLPISCE 30 VOLTE IN ITALIA

UNABOMBER COLPISCE 30 VOLTE IN ITALIA

“Alla fine uscirò a testa alta da questa vicenda: io non sono Unabomber, ho fornito prove inequivocabili della mia estraneità con la follia del bombarolo”, dice Elvo Zornitta, ingegnere di 49 anni.
Siamo nel 2006, l’ultimo anno di attività del misterioso attentatore che ha lasciato una scia di sangue in tutto il Nord-Est. Nello stesso anno inizia la tormentata vicenda giudiziaria dell’ingegnere che in passato aveva lavorato alla Oto Melara, un’azienda leader mondiale nella produzione di artiglieria. Ma siamo sicuri che sia proprio lui?

Tutto inizia l’8 dicembre del 1993, quando esplode una cabina telefonica a Portogruaro, in provincia di Venezia. Non ci sono feriti e il fatto viene presto dimenticato.
In Friuli, a Sacile (Pordenone), nell’agosto dell’anno successivo si tiene la “Sagra degli osei”, l’esposizione-mercato di uccelli canori che attira molti appassionati e curiosi.

Mentre la sagra è al culmine, una donna scorge un tubo tra un cespuglio di ortensie. Incuriosita, lo raccoglie per esaminarlo insieme ai suoi due bambini: si tratta di un oggetto di ferro lungo 30 centimetri. All’improvviso, il tubo esplode scagliando in aria le biglie che contiene all’interno.
Per fortuna i tre se la cavano con piccole ferite e un grande spavento. La polizia sospetta un attentato terroristico, anche se non immagina chi possa averlo compiuto.

Passano i mesi e il 17 dicembre, nel capoluogo di provincia, Pordenone, esplode un altro tubo bomba, stavolta di gomma. Il botto manda in frantumi una vetrina e una scheggia ferisce di striscio una ragazza che passava di lì.
Il giorno dopo, un altro tubo esplode davanti a una chiesa della stessa città mentre i fedeli escono dalla messa, senza fare feriti.
La paura aumenta. Dove colpirà, la prossima volta, il misterioso attentatore che non rivendica le proprie azioni?

Ad Azzano Decimo, sempre in provincia di Pordenone, durante il Carnevale del 1995 esplodono due tubi senza fare vittime tra la folla mascherata. Nel capoluogo, un giorno di settembre, due donne in momenti diversi raccolgono altrettanti tubi per strada. Evidentemente la voce sui pericoli non è circolata a sufficienza.

La prima signora, Anna Pignat, rimane investita in pieno dall’esplosione, che le provoca gravi lesioni alle braccia. L’altra donna, quando sente la notizia al telegiornale di questo ferimento, consegna il tubo ai carabinieri. I carabinieri lo fanno brillare, invece di chiamare la scientifica per cercare eventuali indizi.

Nei mesi successivi seguono altre cinque esplosioni tra Friuli e Veneto senza conseguenze per le persone, finché un altro grave attentato avviene nell’agosto del 1996. Per la precisione, vengono rinvenuti due tubi, uno a Bibione e il secondo nella vicina Lignano Sabbiadoro, località balneari tra le province di Venezia e di Udine.

Di mattina, un turista di Domodossola apre l’ombrellone che ha affittato. Dall’interno cade un tubo lungo 18 centimetri e largo 3. Appena Roberto Curcio, questo è il nome del bagnante,  lo raccoglie l’ordigno gli esplode in mano , dilaniandogli le dita mentre un bullone gli recide la vena femorale.

Dal tubo di Bibione, invece, esce solo una fiammata che sfiora un bagnino.
I giornali cominciano a chiamare l’attentatore misterioso “Unabomber”, prendendo in prestito il soprannome di Theodore Kaczynski, l’intellettuale bombarolo che aveva terrorizzato l’America dal 1978 al 1995 spedendo pacchi esplosivi.

Il direttore del Gazzettino, il principale quotidiano locale, storpia il soprannome in Monabomber, dalla parola in dialetto veneto “mona” che in questo caso sta per “stupido”.
Comunque lo si voglia chiamare, il bombarolo torna nell’ombra per quattro anni.

Alcuni pensano che si tratti di un militare coinvolto nelle operazioni di guerra contro la Serbia che avvengono in quegli anni, alle quali l’Italia ha partecipato come membro Nato. Per questo motivo non avrebbe trovato il tempo per preparare altri attentati. Del resto la zona è piena di caserme, a partire dalla base Nato di Aviano.

Il ritorno di Unabomber avviene nel 2000 in maniera spettacolare con una serie di attentati nei dintorni di Portogruaro. Il dinamitardo ha camuffato gli ordigni, attirando anche la curiosità dei bambini.
Uno, inesploso, viene trovato a Carnevale all’interno di una bomboletta spray di stelle filanti, un altro viene raccolto da Giorgio Novelli, carabiniere in pensione, nella spiaggia di una colonia di bambini. Gli esplode in faccia, sfigurandolo.

Diversi tubi bomba vengono trovati in un vigneto e in un supermercato, mimetizzati tra i prodotti.  Uno ferisce gravemente la mano di Nadia Ros, di professione operaia. Era nascosto in una confezione di pomodoro sigillata: l’esplosivo era stato infilato da sotto.

Nelle confezioni delle uova e della maionese vengono individuati altri ordigni. All’interno di uno di essi la scientifica scopre un capello che permette di individuare il Dna dell’attentatore (a meno che sia stato messo lì apposta per depistare le indagini, come faceva l’Unabomber americano).

Nel 2001, il bombarolo colpisce nel cimitero di Motta di Livenza (Treviso), dove la custode, Anita Buosi, viene ferita gravemente alla mano e a un occhio da un cero esplosivo. L’anno successivo a essere presi di mira tornano i bambini, con piccole bombe in un tubetto per le bolle di sapone, per fortuna senza gravi conseguenze per le vittime.

Domenico Labozzetta, procuratore di Pordenone, si occupa del caso contemporaneamente ai responsabili di altre tre procure, dato che gli attentati sono avvenuti in località diverse. Una frammentazione che non giova alle indagini. Proprio Labozzetta viene preso di mira dall’Unabomber italiano.
Nel 2003, una bomba esplode nel bagno del Palazzo di giustizia, a pochi metri dall’ufficio del procuratore. Si spera che le telecamere a circuito chiuso abbiano ripreso l’attentatore, ma i videonastri risultano troppo usurati per poter distinguere le immagini.

L’attentato che fa sensazione in tutta Italia avviene alla festa del 25 aprile dello stesso anno, durante il picnic di una famiglia a San BIagio di Callata (Treviso). Francesca, una bambina di 9 anni, raccoglie un evidenziatore in un prato che, esplodendo, le fa perdere un occhio e le amputa una mano. Le dovrà essere impiantata una protesi.

L’anno seguente, per puro caso non esplode una potente bomba alla nitroglicerina inserita nel cuscino dell’inginocchiatoio di una chiesa. Gli attentati continuano. Un ragazzino prende a calci un ovetto delle sorpresine che trova in strada, e per questo rimane illeso quando un secondo dopo esplode.

Va peggio a una bimba di sei ani che accende una candela elettrica nello stesso cimitero in cui era stata ferita la Buosi, innescando una piccola bomba. Solo grazie a un’operazione la piccola riesce a salvarsi.
Nel 2006 gli attentati cessano di colpo, dopo che l’infermiere Massimiliano Bozzo e la sua fidanzata rimangono feriti maneggiando una bottiglia raccolta in riva al mare, dentro la quale sembrava trovarsi un messaggio.

In tutto le esplosioni sono state più di trenta, la maggior parte delle quali non ha provocato feriti. Alcune vittime hanno dovuto subire l’amputazione delle dita o hanno perso un occhio, anche se nessuno ci ha rimesso la vita.
Il bombarolo, proprio perché non ha mai ucciso, non è classificabile come serial killer.

In tutti questi anni gli inquirenti hanno brancolato nel buio perché, mancando un movente, è praticamente impossibile concentrarsi su qualcuno in particolare, tra i numerosi potenziali sospetti individuati fino a quel momento. Non è servita nemmeno la taglia di 50mila euro offerta da un imprenditore locale. Oltre al numero eccessivo delle procure che seguono il caso, un altro problema è rappresentato dal continuo avvicendamento dei procuratori nel corso degli anni.

Finché, a un certo punto, si decide di unificare le indagini costituendo una task force speciale. La quale rimette insieme tutti gli elementi raccolti: il Dna, una mezza impronta digitale, la tecnica di costruzione degli esplosivi (inseriti quasi sempre in tubi con due tappi alle estremità).

Inizialmente, la miscela esplosiva usata è semplice e di facile reperimento, essendo formata con le componenti chimiche dei fuochi d’artificio, delle cartucce e dei diserbanti. Solo in seguito Unabomber ha adoperato nitroglicerina, che può essere maneggiata solo da esperti.
Il dinamitardo non sembra avere un obiettivo preciso, perché colpisce i bambini come gli anziani, di solito nei giorni di festa. Elementi troppo vaghi, come si è detto.

In aiuto degli investigatori arriva però un software messo a disposizione dall’Fbi americana, in grado di incrociare tutti gli elementi raccolti facendo una classifica dei maggiori sospettati. L’attenzione si restringe così a una dozzina di persone, tra le tante che erano state prese in considerazione.

Una dei sospettati, interrogato, si proclama innocente e come possibile colpevole fa il nome di Elvo Zornitta, un ingegnere che vive a Corva di Azzano Decimo, in provincia di Pordenone, insieme alla moglie e a una figlia piccola. In effetti, gli indizi contro Zornitta sembrano consistenti.

L’ingegnere ha le competenze tecniche necessarie per costruire bombe e per ragioni di lavoro si sposta nelle zone interessate dagli attentati. In casa sua, durante una perquisizione, viene trovato del materiale che potrebbe essere stato usato per gli ordigni, come alcuni grossi petardi svuotati dalla polvere pirica.

Individuato nel 2004, Zornitta viene sorvegliato nei successivi due anni, come capisce lui stesso scoprendo alcune cimici elettroniche nascoste in casa. Però, quando Unabomber torna a colpire, appare evidente che, almeno in alcuni dei nuovi attentati, non può essere stato lui perché si trovava da tutt’altra parte.
Allora gli inquirenti sospettano che, per confondere le acque, Zornitta li abbia compiuti attraverso alcuni suoi parenti, ma l’esame del Dna li scagiona.

La prova definitiva contro Zornitta sembra arrivare nel 2006, l’ultimo anno delle imprese di Unabomber, quando una perizia stabilisce che un paio di forbici da elettricista appartenute all’indagato hanno tagliato il pezzo di lamiera di una delle bombe. L’anno dopo la controperizia della difesa stabilisce, invece, che quelle forbici non hanno tagliato alcuna lamiera. Giudizio confermato da un terzo esame indipendente dei Ris.
Il 2 marzo 2009 la procura scagiona l’ingegnere, chiedendo l’archiviazione del fascicolo che lo riguardava.

Ciononostante, l’ex sospettato ha perso il lavoro e speso tutti i risparmi per difendersi dalle accuse che gli erano state rivolte.
“Avevo la fortuna di fare un lavoro che mi piaceva molto”, ha raccontato Zornitta. “La sera tornavo a casa soddisfatto, abbracciavo mia figlia e non chiedevo altro”. Ora, a 53 anni, deve ricominciare da zero.

In precedenza, i magistrati avevano battuto senza esito altre piste. Come quella di un giovane di Aviano rimasto ferito dalla bomba che stava costruendo, o di un insegnante di Pordenone che aveva lavorato nelle zone dove si erano verificati gli attentati.

Rimane in sospeso una domanda: perché Unabomber ha smesso di colpire?
Ci sono diverse ipotesi, compresa quella che sia stato toccato dalle indagini e ora tema di trovarsi sotto controllo della polizia. Ma nulla esclude che possa tornare in azione. Del resto, già in passato aveva fatto pause di diversi anni.

Di lui si sa solo quello che dice il profilo tracciato dagli psichiatri della polizia.
Si tratta di un uomo di mezza età (o, ormai, di età avanzata), laureato e dotato di grandi capacità manuali. Probabilmente ha prestato il servizio militare nel Genio, dove ha imparato a maneggiare l’esplosivo, e ama mettersi in mostra, far parlare di sé come tutti i mitomani.

Anche se da tempo la task force che indagava sul suo conto è stata sciolta per mancanza di risultati, le procure del Nord-Est riesaminano periodicamente tutti gli elementi di questo caso nella speranza che, prima o poi, si possa dare un nome al vero Unabomber.

 

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1 commento

  1. Se non ricordo male ci fu una manipolazione delle prove contro Zornitta da parte degli inquirenti, che vennero incriminati per questo reato.

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