SAM PECKINPAH, IL REGISTA DELLE CAUSE PERSE
In una scena del western diSam PeckinpahIl mucchio selvaggio(The Wild Bunch, 1969), il bandito Pike e gli altri componenti della sua banda decidono di andare contro le truppe del generale Mapache per salvare il loro compagno messicano, votandosi sostanzialmente alla morte. Lo fanno sorridendo, tanto che il sottotitolo del film potrebbe essereAndare incontro alla morte sorridendo.Vari film di Peckinpah si concludono con la morte del protagonista e in generale l’andare incontro alla morte è visto come uno dei tanti modi di essere perdenti, di scegliere la sconfitta come forma di ribellione. Non è detto che non si possa vincere anche perdendo, se si perde per qualcosa in cui si crede.Questa sembra essere sempre stata la filosofia, in soldoni, del regista californiano, definito dal giornalista William Murray (in unarticolo-intervistapubblicato dal mensile Playboy nel luglio del 1972)“screen’s Picasso of violence”. (Il Picasso della violenza sullo schermo) Sam Peckinpah (1925-1984) Sam Peckinpah è il cineasta americano che forse più di ogni altro ha riportato nei film il proprio vissuto e le proprie idee in maniera quasi maniacale: così che l’ostinazione con cui molti dei suoi personaggi scelgono cause perse in partenza sembra la proiezione narrativa delle prese di posizione artistiche, quasi mai allineate, del loro autore.Personaggi che è forse fuorviante definire soltanto anti-eroi, e che hanno contribuito a ridefinire la mitologia hollywoodiana, diventando il modello di riferimento per quasi tutte le figure più rilevanti del cinema americano degli anni settanta e ottanta che guardavano al western e al noir. Molti film di quel periodo devono qualcosa a Sam Peckinpah: daTaxi driver(id., 1976), di Martin Scorsese, aStrade violente(Thief, 1981), di Michael Mann, daUna calibro 20 per lo specialista(Thunderbolt and Lightfoot, 1974), di Michael Cimino aCuore selvaggio(Wild at Heart, 1990), di David Lynch.Come ha scritto Valerio Caprara nella sua monografia sul regista (edita da La Nuova Italia nella collana Il Castoro cinema nel 1996),“il patrimonio che ci ha lasciato è, non a caso, uno dei più sottovalutati e dimenticati”.È quindi doveroso rendere omaggio a Sam Peckinpah, nato il 21 febbraio del 1925 a Fresno e scomparso a soli cinquantanove anni il 28 dicembre del 1984 a Inglewood, Los Angeles. Sam aveva due vite: il cinema, che era la sua realtà, e la vita, che era un’illusione. Vengo sempre criticato per la violenza nei miei film, ma se non ne uso, nessuno viene a vederli. Peckinpah, motivo di costernazione per molti, fu colui che iniziò la vera saga di violenza nel cinema. Ma quando lo fece, era una novità. Stava rivoluzionando il mondo del cinema. La violenza non è bella. Non la mostrava come evento spettacolare, non penso. Credo volesse mostrare l’orrore di certe cose. I fuorilegge del West mi hanno sempre affascinato. Teoricamente avevano le qualità di Robin Hood, il che non rispecchiava proprio la realtà. Ma erano individui forti. In una terra che a tutti gli effetti era senza legge, se ne crearono una loro. Suppongo di essere io stesso una sorta di fuorilegge. Mi identifico con loro. L’apporto artistico di Sam Peckinpah al western probabilmente è come quello di Orson Welles al film noir, che contribuì a scavargli la fossa. Forse io mostro la vera essenza del sogno americano, del mito del successo. Il sogno americano è un qualcosa avvolto nella plastica, un bell’imballaggio con l’etichetta appiccicata sopra. La critica di Peckinpah al progressismo assume dimensioni teoriche e formali assai profonde: la morte della nazione è anche la fine del western; i suoi film – è stato detto – sono western sull’impossibilità di fare western. Ho un certo temperamento e non posso restare lì come uno stupido, così sono sempre in guerra con i produttori: io voglio il controllo di tutto, dal copione alla moviola. Era un uomo che non aveva paura di guardare se stesso onestamente e togliersi la maschera. A teatro, anche quando uno spettacolo è fallito, due mesi dopo se ne parla come di un successo, proprio quello che non può succedere per un film, che rimane visibile agli occhi di tutti. Ai registi che si danno il compito di guardare al futuro, i film di Peckinpah hanno molto da dire – e non solo perché spesso hanno preconizzato l’evoluzione della società. Al contempo lirici e brutali hanno descritto l’uomo e il suo mondo, senza paura di guardarlo diritto negli occhi. Non ho vistoIl padrinoma dicono che sia bello: odio Coppola per questo. Non credo che ci siano dei film di Peckinpah che non mi piacciano, per una ragione o per l’altra. Tutti i suoi film sono permeati, “abitati”, da qualcosa di profondo. Ce ne sono di più o meno riusciti, ma trovo che non ce ne sia uno in cui non riesca a ritrovare ciò che amo delle sue opere. Che ricordi! Bellissimo articolo