RENATO VALLANZASCA PIACEVA ALLE DONNE

Un ragazzo gli dice: “Grande! Voglio essere come te, voglio essere il Renato Vallanzasca del futuro”. E lui risponde: “Come vuoi, ma prima guardami. Mi sono fatto quaranta anni di galera, ed ecco come sono ridotto. Ora, se credi, fai pure”.
Escludendo i mafiosi, Renato Vallanzasca è il più celebre bandito italiano vivente. Eppure, malgrado si sia macchiato di molti delitti compreso l’omicidio, intorno a lui si è formato un alone leggendario…
“C’è chi nasce sbirro, io sono nato ladro”, diceva. Renato viene alla luce a Milano il 4 maggio 1950. Prende il cognome della madre, Maria Vallanzasca, perché il padre Osvaldo Pistoia è sposato con un’altra donna, Rosa, che gli ha dato tre figli.
A soli otto anni Renato viene prelevato mentre sta giocando con gli amichetti e portato nel carcere minorile Beccaria: il giorno prima era riuscito a liberare una tigre dalla gabbia del circo Medini!
A 15 anni, Renato è già un giovane boss della ligéra, la piccola criminalità milanese: con le persone ci sa fare, soprattutto con le donne. Oltre a essere bello e con gli occhi azzurri, ha modi eleganti: lo chiamano “il bel René”, anche se a lui questo nomignolo dà fastidio.
“Non sono una vittima della società”, spiegherà in seguito, “non mi reputo tale. Sono un ragazzo che poteva avere la possibilità di studiare. Anche se non ero di famiglia benestante non ci mancavano i mezzi. Ma fin da piccolo mi piaceva rubare i soldatini”.
Dopo qualche furto e qualche scippo, il giovane trova sempre più angusti i limiti della ligéra. Renato pensa in grande e forma una gang priva di scrupoli, la Banda della Comasina, dal nome del quartiere periferico di Milano in cui vive.
Ora i furti e le rapine si fanno all’ingrosso, senza guardare in faccia nessuno, e per Renato Vallanzasca inizia la bella vita. Indossa abiti di stilisti famosi e orologi d’oro. Lo si vede girare a bordo di auto sportive accanto alle più belle modelle di Milano nonostante abbia una compagna fissa, Consuelo, che il 17 luglio 1972 gli dà un figlio, Maxim.
Per questa sua esposizione eccessiva, la squadra mobile guidata da Achille Serra inizia a tenerlo d’occhio e, sempre nel 1972, alcuni giorni dopo la rapina in un supermercato, lo arresta.
Vallanzasca, con la solita strafottenza, si sfila il Rolex e lo mette davanti a Serra: “Se riesci a scoprire delle prove contro di me, è tuo”, gli dice.
La polizia le trova nei pezzettini di un foglietto buttato nel cestino di casa, dove sono registrati i movimenti dei soldi per gli stipendi destinati ai dipendenti del supermercato. Non è ancora diffusa, nelle aziende, l’abitudine di pagare i salari attraverso le banche.
In carcere, Vallanzasca partecipa continuamente a risse, rivolte e pestaggi. Ogni volta lo trasferiscono in una prigione diversa: ne cambia 36 in quattro anni. Capisce che può evadere solo se lo ricoverano in una clinica: così cerca di contrarre l’epatite iniettandosi nel sangue dell’urina contaminata e mangiando uova marce. Alla fine riesce ad ammalarsi.
Appena arriva in ospedale corrompe un poliziotto e, finalmente, evade. Ha solo 26 anni e tanta energia in corpo.
Nel 1976, Vallanzasca ricostituisce la banda e commette una settantina di rapine a mano armata, che costano la vita a sei persone: un medico, un impiegato di banca e quattro poliziotti.
Organizza anche quattro rapimenti, il più famoso dei quali è quello della giovane Emanuela Trapani, figlia sedicenne di un imprenditore, avvenuto nel dicembre del 1976. La ragazza fu liberata nel gennaio del 1977, dopo il pagamento di un riscatto di un miliardo di lire (considerata l’inflazione equivale a 4 milioni di euro di oggi).
Il bel René tiene solo delle percentuali per sé: i soldi li divide con generosità tra i suoi molti complici e basisti.
Il delitto più tristemente famoso avviene il 6 febbraio 1977, quando, al casello autostradale di Dalmine, in provincia di Bergamo, due agenti della stradale fermano l’auto di Vallanzasca per un normale controllo.
Ne segue un furioso scontro a fuoco durante il quale muoiono i poliziotti Luigi D’Andrea e Renato Barborini, mentre lo stesso Vallanzasca viene ferito all’anca.
Viene rintracciato e arrestato a Roma una settimana dopo. Nella prigione milanese di San Vittore il “bel René” riceve centinaia di lettere dalle ammiratrici di tutta Italia. Alla fine ne sceglie una, Giuliana, e la sposa nel 1979.
L’anno seguente riesce a far entrare in carcere tre pistole dall’esterno e, con i suoi complici, evade di nuovo. Viene fermato in metropolitana, dove scoppia una furibonda sparatoria nella quale rimane nuovamente ferito.
Un anno ancora e, nel carcere di Novara, partecipa a una sommossa durante la quale vengono uccisi alcuni “pentiti”.
Tra loro c’è Massimo loi, un collaboratore di giustizia che aveva lasciato la banda di Vallanzasca. Il giovane, dopo essere stato accoltellato, vene decapitato e la testa usata per giocare a pallone.
Adesso per Renato Vallanzasca si aprono le porte del carcere duro, l’isolamento, ma lui non si arrende e ripensa alla fuga.
Il momento buono arriva nel 1987, quando viene scortato da due giovani carabinieri al porto di Genova per prendere il traghetto diretto verso il carcere dell’Asinara, in Sardegna.
Il detenuto dice: “Voi caramba venite sempre trattati da schifo. A me danno la cabina più grande, mentre a voi quella più piccola”. I due ingenui carabinieri ci cascano, andando a dormire nella cabina prevista per Vallanzasca, mentre quest’ultimo evade dall’oblò di quella destinata ai carabinieri.
Si taglia i capelli, si schiarisce i baffi e va in vacanza con un’amica a Grado, in Friuli, dove viene arrestato di nuovo. In tutto, ha goduto della libertà per meno di un mese.
Nel 1990 divorzia e cinque anni dopo, a causa di una soffiata, fallisce un nuovo tentativo di fuga da Nuoro. La sua legale Simonetta, che si innamora di lui, viene accusata di complicità.
Vallanzasca sembra ormai destinato a rimanere in galera per sempre, avendo collezionato 4 ergastoli e 295 anni di carcere per una lunga serie di delitti, tra i quali sette omicidi.
Invece, dal 2005, riceve dei brevi permessi per vedere la madre, che morirà nel 2011, a 94 anni, in una casa di cura milanese.
Nel 2008 Renato Vallanzasca si risposa con un’amica d’infanzia, Antonella.
“Ne ho le balle piene e non vedo l’ora di liberarmi del mio mito. Il bel René, la Banda della Comasina… Ma andassero tutti a cagare!”, dice all’inizio della sua nuova vita.
Nel 2010, mentre esce il discusso film di Michele Placido, Vallanzasca – Gli angeli del male, con Kim Rossi Stuart, che ripercorre le sue imprese, ottiene la semilibertà. E scopre che il mondo intorno a lui è profondamente cambiato.
“Bruciano i barboni per noia. Mandano a battere le bambine o le schiave. Per il grano o per un tiro di quella merda che manda in pappa il cervello sono disposti a tutto. Niente regole, niente onore, niente amicizia, niente rispetto”.
Nel 2012, Renato Vallanzasca ottiene il permesso di lavorare come magazziniere a Sarnico, in provincia di Bergamo, ma la gente del luogo protesta perché lì vicino abita la famiglia di una delle vittime di Dalmine, e così viene licenziato.
Della sua città dice: “Quaranta anni fa Milano era più cupa, più sporca. Ma ad avere paura era solo chi aveva il grano. Le porte delle case restavano aperte. Gli operai che tiravano la lima alla Marelli lasciavano i ragazzini alla vicina di casa o in cortile. Oggi chi ha il grano paura non ne ha più. La paura è dei disgraziati. Paura di essere scippati, violentati, accoltellati”.
Nel 2014 viene condannato a dieci mesi di carcere per avere rubato merce di poco conto in un supermercato, come un banditello alle prime armi. Nel 2018 divorzia da Antonella, nello stesso anno il tribunale decide che Renato Vallanzasca non potrà più uscire dal carcere a causa del suo mancato ravvedimento.
(Immagine in apertura tratta dal film Vallanzasca – Gli angeli del male)
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