MORTAL KOMBAT 1995 CON FURORE

MORTAL KOMBAT 1995 CON FURORE

Facile con il senno di poi recriminare sulla qualunque e la qualsivoglia. Ecco, Mortal Kombat (da qui in poi facciamo Mortal Kombat 1995 per distinguerlo dall’altro film uscito nel 2021) in questo senso è piuttosto malleabile. Cioè, la questione si può affrontare in modi e prospettive talmente diverse, da poterla mettere addirittura pari-pari agli stadi Kubler Ross.

In altre parole, da elaborazione del lutto a elaborazione del film brutto è un attimo. Se da un lato abbiamo diniego, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione, dall’altro ci troviamo con attenzione, eccitazione, ansia, delusione e, alla fine, rabbia.
Il bello di film come Mortal Kombat 1995, il bello di questa “elaborazione”, sta nel fatto che tanto più grandi saranno le prime fasi, tanto più ferocemente esploderanno le ultime. Appunto, c’era poco da stare allegri quando uscì Mortal Kombat 1995.

Perché i presupposti, alla fine, erano quelli che erano: oggi, la maggior parte dei live action basati sui videogame sono considerati un azzardo. Intanto, persone disposte a investirci e a credere in questi progetti ci sono.
Nel 1995, invece, le cose erano giusto un tantino diverse: i live action erano considerati, nella migliore delle ipotesi, un’inutile perdita di tempo e soldi. Difficile stabilire un punto preciso, ma forse è proprio grazie a Mortal Kombat 1995 che le cose cominciarono a cambiare.

MORTAL KOMBAT 1995 CON FURORE


Vattelapesca quanti siano in anni, una volta ogni generazione si svolge il Mortal Kombat: un torneo di arti marziali inter-dimensionale simile a… una specie di regolatore sociale. Gli antichi dèi, per evitare cagnara tra i regni dislocati nelle varie dimensioni, se ne sono usciti con questa trovata brillante. Un qualunque regno, prima d’invaderne un altro, deve passare prima per il Mortal Kombat. 

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Quindi, una volta vinto il torneo dieci volte di seguito, può fare la guerra a chi gli pare e piace. Shao Kahn, l’imperatore dell’Outworld, si è fissato di conquistare il regno della Terra e, in effetti, sta lì lì per riuscirci.
Il malvagio stregone Shang Tsung (Cary-Hiroyuki Tagawa), campione di Shao Kahn, ha già vinto il Mortal Kombat nove volte su dieci. Se dovesse vincere anche in questa… generazione, ecco, allora le armate dell’Outworld potranno invadere la Terra.

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Però, attenzione, stavolta è diverso. Perché adesso ci sono non uno, non due, ma ben tre eroi pronti a combattere per difendere la Terra. E questi eroi sono: Johnny Cage, un famoso attore che si è iscritto al torneo per dimostrare di non essere solo un bel pupazzetto, interpretato da Linden Ashby. Tra l’altro ancora abbastanza attivo come attore, anche se in ruoli minori. Infatti, si è visto in Resident Evil: Extinction e Iron Man 3. Va be’, qua siamo ai limiti della comparsata.

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Poi, c’è Sonya Blade: agente speciale dell’Fbi che si ritrova al Mortal Kombat per seguire Kano (Trevor Goddard), un pericoloso criminale iscrittosi pure lui al torneo. Sonya è interpretata da Bridgette Wilson e pure se molto attiva negli anni novanta (un paio d’anni prima è stata la figlia di Jack Slater, il personaggio di Arnold Schwarzenegger in Last Action Hero, per dire) quello di Sonya rimane il suo lavoro più famoso. Nel 2008, abbandona definitivamente il mondo dello spettacolo.

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Trevor Goddard, invece, era pieno di casini ed è venuto a mancare pochi anni dopo, nel 2003, appena quarantenne, a causa di un’overdose di eroina, cocaina, temazepam e vicodin. La sua ultima apparizione è stata in Pirati dei Caraibi: La maledizione della prima luna, come uno dei membri della ciurma di Barbossa.

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Infine, c’è Liu Kang: il classico raccomandato che grazie al potere delle conoscenze fa il prescelto. Perciò viene mandato al Mortal Kombat. Dopo il ruolo di Liu Kang, Robin Shou non è che abbia fatto chissà cosa. Infatti, i film maggiori a cui ha preso parte sono stati il live action di Dead or AliveStreet Fighter: The Legend of Chun-Li, Mai dire ninja con Chris Farley e Death Race con Jason Statham. Dal 2015 è praticamente scomparso dalle scene.

A ogni modo, terminata la classica carrellata pubblicitaria d’introduzione, Johnny, Sonya e Liu Kang si imbarcano sulla nave diretta all’isola di Shang Tsung, dove si svolgerà il Mortal Kombat. Durante il viaggio fanno pure la conoscenza di uno strano quanto misterioso personaggio: Raiden (Christopher Lambert). Di professione dio del tuono, cosplayer di Claudio Baglioni nel tempo libero.



Una volta arrivati sull’isola, tra combattimenti abbastanza mosci messi come riempitivo qui e un abbozzo d’intrigo là, viene ripresa la sottotrama di Sonya; che s’incontra con Kano e lo batte, naturalmente. Dopodiché si fanno cose, si vede gente… In sostanza, i classici filler montati assieme nel tentativo di allungare il brodo e dare l’impressione che ci sia una trama da far avanzare.

Fino al personaggio che qualunque adolescente dei primi anni novanta stava aspettando di vedere: Goro, l’uomo-drago, principe (non tanto azzurro) della razza Shokan e braccio destro di Shang Tsung. A quanto pare, Goro è sostanzialmente invincibile. Almeno fino a quando viene liquidato in cinque secondi da Johnny Cage che lo abbatte, molto correttamente, con un cazzottone proprio nelle sue “uova di drago”.

A questo punto, visto che Goro non è più in grado di combattere (e probabilmente manco di avere figli) Shang Tsung rapisce Sonya e costringe gli altri eroi a seguirlo nell’Outworld. Lì, difatti, i poteri di Raiden (il pippone motivazionale, fondamentalmente), sono inefficaci. Oltretutto, trattandosi dell’attuale campione in carica, Shang Tsung può esercitare il diritto di scegliere e sfidare chi gli pare e piace.



Appunto, sceglie di sfidare Sonya. Tutta questa tiritera era già stata pianificata a monte: a parte togliersi dalle palle Raiden, Tsung sa perfettamente che Sonya non avrebbe mai potuto batterlo da sola (perché non è la protagonista, eh); e se lei si fosse rifiutata di combattere, lui avrebbe comunque vinto il Mortal Kombat a tavolino per abbandono dell’avversario. Il piano perfetto, praticamente. Su carta, però. Perché nella pratica si rivela perfetto nella misura della sceneggiatura a favore degli eroi.

Infatti gli eroi arrivano e ci mettono subito la proverbiale pezza a colori. Con Liu Kang, lanciatissimo, nel classico sfidone finale in cui sconfigge il malvagio stregone e si finisce a tutti felici e contenti. Ora, tutto questo succedeva nel 1995. Un’epoca in cui, soprattutto a causa di film come Super Mario Bros., Double Dragon e Street Fighter, cioè robe divertenti quanto una lavanda gastrica, c’era veramente poco da stare allegri e sperare.

In altre parole, con presupposti meno affidabili di un cane in una salumeria, era piuttosto difficile credere che Mortal Kombat fosse diverso. Invece, chi l’avrebbe mai detto, il film non solo si piazzò primo al box office, ma ci rimase per ben tre settimane. Con un incasso globale che superò i centoventi milioni di petroldollaroni sonanti, a fronte di un budget di appena diciotto, Mortal Kombat è il film che all’epoca spezzò la maledizione live action = ciofeca.



Tutto, grazie al produttore Larry Kasanoff che nel 1993, in visita negli studi di Midway Games per salutare alcuni amici, vide per la prima volta il videogioco Mortal Kombat. Era sanguinoso, iperrealistico (ovviamente al secolo) e Kasanoff automaticamente ci mise pochissimo a vederci dentro i big money, immaginando Mortal Kombat come un fenomeno multi-franchising globale fatto di film, serie tv, fumetti. Persino spettacoli teatrali. Di tutto e di più, insomma.

Effettivamente, Kasanoff ci vide piuttosto lungo, e in gran parte è riuscito nei suoi propositi. Tuttavia, il successo economico non è indice incontrovertibile di qualità. Tuttavia, Mortal Kombat 1995 rimane pur sempre quel che è: un film che prende spunti da un videogioco controverso e violento (per ragazzi), e lo trasforma in un giocattolone super-colorato a misura PG-13 (per bambini). Perciò, la prima cosa a cui uno non può far a meno di pensare è proprio Street Fighter.

Non tanto perché, nel settore videoludico, Mortal Kombat si era imposto come diretto competitor di Street Fighter. Il parallelismo è quasi d’obbligo a causa del fatto che un adattamento live action del gioco di Capcom era uscito pochi mesi prima, ottenendo risultati diametralmente opposti. Questo è il punto: per quanto con Mortal Kombat 1995 le cose andassero meglio, essere il minore fra i due mali non è un risultato di cui andare fierissimi. 



Mortal Kombat 1995, si concentra, giustamente, sui personaggi più interessanti del gioco, sviluppandoli e portando avanti una trama di senso compiuto che ruota attorno a loro. A differenza di Street Fighter, con Capcom che diede il tormento a Steven de Souza per fargli ficcare dentro tutti i personaggi del roster senza senso. Anche se questa cosa ha indubbiamente dei vantaggi, il film fallisce miseramente su quasi tutto il resto. 

Tra Paul W.S. Anderson alla regia e Kevin Droney alla sceneggiatura, si prova disperatamente a conciliare molti dei concetti del gioco (che pure questa ha senso come cosa), ma alla fine sia l’uno sia l’altro vanno liscio di brutto. Il problema maggiore riguarda l’approccio: nel tentativo di dargli una struttura, Mortal Kombat 1995 finisce per appoggiarsi troppo su meccanismi da revenge thriller con sottotrame irrilevanti, tirate in mezzo e poi tolte nel tempo di un rutto. 

Per dire, Sonya Blade che insegue Kano per aver ucciso il suo compagno oppure Liu Kang che vuole vendicarsi di Shang Tsung che ha ucciso il fratello minore, ok?  Anche se piuttosto ballerine, le motivazioni per questi due sono abbastanza logiche, ma… Johnny Cage? Perché Shang Tsung si preoccupa così tanto che Johnny Cage partecipi al torneo? Naturalmente Cage è nel cast perché fa parte del roster del gioco. 



Siccome eravamo ancora agli albori del franchise (metti che il videogioco Mortal Kombat 3 era uscito praticamente insieme al film) si poteva spostare l’attenzione su personaggi sicuramente più popolari e attraenti, come Sub-Zero e Scorpion, ridotti qui a semplici plot device.
Inoltre, considerando quanto sia semplice la backstory, la narrazione è ridotta a meno del minimo indispensabile. Sia chiaro, non è che uno sta dicendo di voler vedere l’intero story arc di ogni personaggio, corredato di ‘azzi e mazzi, eh.

Però vedere i vuoti riempiti con il trio di eroi che avanza a mossette, glissando poi su tutto il resto, non è il massimo. Tipo Goro: eliminato, letteralmente, in cinque secondi con un pugno alle palle. Oppure ancora, come si finisca più e più volte nell’irritante reame dell’immotivatamente banale. Esempio lampante, Sonya Blade. Per tutto il film, Sonya è l’emblema del femminismo aziendale annacquato con litri di politicamente corretto. 

Una donna-guerriera forte, indipendente, risoluta e qualsiasi altro aggettivo sinonimo di perfezione assoluta appiccicato addosso senza la benché minima motivazione. Se non fosse sufficientemente chiaro, in tutto e per tutto la classica Mary Sue; mappazzone di cliché e trionfo di luoghi comuni che messi assieme fanno sentire molto speciali i produttori, nonché marchio di fabbrica di Paul W. S. Anderson. Fosse rimasta almeno coerente per tutto il film, allora tanto quanto.



Invece no. Perché alla fine, di botto e senza senso, si trasforma nella principessa in pericolo che ha bisogno dell’eroe-macho-virile per essere salvata. Cioè, Liù Kang: giga-chad 1.0 forte e potente perché è il “prescelto” e per contratto alla fine non può prendere gli schiaffi. Manco da quelli che per tutto il tempo, come Shang Tsung, si sono dimostrati più forti di lui e devono stare lì ad aspettare di farsi picchiare invece di stenderlo subito.



Non è il caso di sottolineare oltremodo l’ovvio: Mortal Kombat 1995 è ridicolo, esagerato e ai limiti del caricaturale sotto qualunque punto di vista lo si voglia guardare. Eppure, al di là di tutto, fino ai primi anni del 2000 è stato il miglior adattamento live action di un videogame. Nella sua assurda semplicità è divertente e visivamente accattivante.

Il fatto che oggi ci siano film ben più miseri, la cui struttura è addirittura più semplice (più debole) di questa, non è che cambi di molto la situazione. Però, a fronte dei suoi difetti e di quella che in generale è la situazione, almeno dalla sua Mortal Kombat 1995 ha il fascino di un film le cui sorti non sono giocate su scene di distruzione di massa, eserciti infiniti o esplosioni in Cgi per raccontare la sua storia: lo fa e basta. Nel bene o nel male.


Ebbene, detto questo anche per stavolta è tutto.

Stay Tuned, ma soprattutto Stay Retro.



(Da Il sotterraneo del Retronauta).









1 commento

  1. (qualche spoiler, per chi ci fa caso)
    MK era oggettivamente un filmettino, però onesto, e proprio per questo riuscì diversi ordini di grandezza meglio di quell’orrore con Van Damme dedicato al povero Street Fighter. Gli sceneggiatori e i costumisti di MK fecero i compiti a casa, studiandosi per bene i personaggi e le mosse, per cui l’appassionato non si sentiva preso in giro. E questo faceva tutta la differenza.

    Poi, è vero, varie soluzioni erano al ribasso: come Goro, anche il più carismatico di tutta la serie, cioè Sub Zero, aveva sì il look giusto ma ci faceva una grama figura e non realizzava neppure la famosa fatality dell’estrazione spinale (sicuramente giudicata troppo splatter); e poi tutto il meccanismo del torneo era alquanto legnoso e farlocco. Però altre parti erano perfette: Scorpion, il calcio volante di Liu Kang, le mosse di Cage (compreso il nutcracker/schiaccianoci).

    Ricordo che lo vidi poco dopo l’uscita e in sala di over 20 eravamo forse un paio. Quando comparve d’improvviso Reptile, che nel primo MK era il personaggio segreto difficilissimo da incontrare, mi scappò un “toh!” di ammirato stupore, mentre la calca di regazzini nelle prime file esultava in coro – credo partì perfino un piccolo applauso. Capii che era per l’appunto un film che non prendeva a schiaffi i fan tradendo totalmente i personaggi.

    E poi la musica rullava ed è rimasta nell’immaginario: a Londra 2012 qualche nerd titolista in RAI la usò per introdurre tutti i match olimpici di scherma.

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