MICHELE CAMMARATA E IL DELITTO D’ONORE

Il 9 agosto 1947, in via Leopardi a Milano, l’ingegnere Michele Cammarata, 43 anni, aspetta pazientemente per tutta la sera. Finché, verso mezzanotte, con il cuore colmo di disperazione, scorge in una strada vicina le due persone che stava aspettando, ma che, allo stesso tempo, sperava di non vedere insieme.
Nascondendosi dietro un portone, Michele Cammarata fissa la moglie Emma insieme al suo amante, Vincenzo Polidoro. Non riesce a capire cosa abbia questo avvocato di 57 anni di tanto irresistibile, dato che ha l’aria timida e un aspetto insignificante.
Li segue da lontano, studiandoli attentamente e stringendo l’oggetto metallico che tiene in tasca. Quando vede l’intimità con i quali i due si sfiorano e poi si abbracciano, a Michele va il sangue alla testa.
Lui adora la moglie sopra ogni cosa: è ancora innamorato di lei come quando la incontrò la prima volta, nel lontano 1927. E come quando, due anni dopo, la sposò davanti a Dio.
Di fronte a quella scena non riesce ad aspettare un secondo di più: estrae la sua pistola calibro 6,35, si avvicina alla coppia e la punta al petto del rivale. Il quale, accortosi dell’uomo, gli balza addosso.
Parte il colpo ed entrambi cadono a terra, ma solo uno di loro si rialzerà.
L’ingegnere Michele Cammarata, nato nel 1904 a Cerami (Enna), viene gravemente ferito durante la Prima guerra mondiale. A causa di questo incidente, nel corso degli anni ha dovuto subire diverse operazioni chirurgiche.
Non potendo più seguire gli affari, perde il lavoro.
Dato che i suoi guai derivano dall’impegno profuso per la patria, nel 1938 lo Stato italiano gli offre un buon impiego in Africa orientale italiana (così viene chiamato l’insieme di tre colonie: Eritrea, Somalia e l’appena conquistata Etiopia).
Probabilmente ci ha messo lo zampino il padre di sua moglie Emma, generale dell’esercito, con una bella raccomandazione. Anche se svolge l’incarico con il grado di maggiore, quello di Michele non è il lavoro di un militare.
L’anno successivo chiama a vivere con sé la moglie Emma e le loro due bambine, Giulietta ed Elena.
La vita di Michele Cammarata trascorre tranquilla a Mogadiscio, tra gli uffici amministrativi e la lussuosa abitazione che ha affittato, dove viene servito e riverito dai domestici locali. L’ingegnere rimpiangerà per sempre questi anni felici.
L’avvocato Vincenzo Polidoro è nato a Milano nel 1890. Si tratta di un uomo facoltoso che neanche durante la Seconda guerra mondiale rinuncia ai fine settimana sul lago di Garda o in montagna, ad Aprica.
In quest’ultima località sua moglie Maria fa la conoscenza di Emma Cammarata, che nel 1943 ha portato in Valtellina le due figlie.
La famiglia ha dovuto lasciare l’Africa per l’invasione inglese delle colonie italiane, a causa della quale il marito è stato internato in un campo di concentramento.
Le due signore prendono il tè insieme e passeggiano in montagna scambiandosi confidenze.
Quando Emma dice che sta cercando un appartamento in attesa del ritorno del marito, Maria e Vincenzo le offrono ospitalità nella loro grande casa milanese in via Leopardi.
Qui la signora Cammarata rimarrà spesso sola con l’avvocato, dato che la signora Polidoro viaggia spesso con il figlio.
Tra Vincenzo, un uomo risoluto, calvo e con il monocolo, ed Emma, una bella donna, alta, bionda e sempre elegante, scoppia una passione travolgente.
Un giorno Maria, forse insospettitasi, fruga tra la corrispondenza del marito e trova alcune lettere nelle quali Emma dichiara tutto il suo amore per lui.
Pentita di avergli incautamente presentato quella donna, chiede spiegazioni a Vincenzo.
Il marito reagisce in maniera brusca, esigendo subito la separazione legale.
Così la moglie deve andare ad abitare a Venezia con il figlio adolescente, da dove scriverà lettere supplichevoli e affettuose a Vincenzo, nella speranza di riunire la famiglia.
A questo punto la strada per Emma è sgombra, ma la guerra finisce e Michele Cammarata, liberato dagli inglesi alla fine del 1946, si stabilisce a Roma per riprendere il lavoro di ingegnere.
Ha qualche sospetto sulla passata condotta della moglie, che per un siciliano degli anni quaranta è pur sempre una faccenda maledettamente seria, ma rinuncia a fare indagini rendendosi conto della fragilità della natura umana in situazioni eccezionali.
Gli basta che la vita famigliare riprenda lealmente e, in apparenza, nulla è cambiato nei suoi rapporti con Emma.
Solo che, nel giro di pochi mesi, la donna va a Milano per ben tre volte con la scusa di dover trattare affari per un’azienda di profumi e di calze femminili.
Nell’agosto del 1947, Emma va a Milano per la quarta volta, dicendo al marito che vi resterà pochi giorni, come al solito. Invece non si fa sentire per più di due settimane.
A quel punto Michele è divorato dai sospetti: non riuscendo a telefonarle, le manda un telegramma, ma lei non risponde. Allora si rivolge alla primogenita, Giulietta, che ha appena compiuto 17 anni.
Aveva deciso di non indagare sulle eventuali amicizie della moglie durante la guerra, ma ora la situazione è diversa.
Tra le lacrime, Giulietta racconta che la mamma aveva avuto una tresca con un avvocato di Milano. La stessa città dove si reca con sempre maggior frequenza.
L’ingegnere pensa subito al suicidio, ma poi cambia idea: in fondo non ha prove che quella relazione continui. Inoltre la figlia, all’epoca quasi una bambina, potrebbe avere frainteso.
Per approfondire la questione, l’8 agosto chiede alla contessa Lambertenghi, amica di famiglia, se ha notizie della moglie.
La nobildonna gli dà appuntamento in un elegante caffè romano, promettendo di spiegargli tutto.
Mentre Michele inghiotte a fatica alcuni cucchiaini di gelato, la contessa gli rivela che la sua signora non ha mai smesso di farlo “cornuto”.
L’uomo decide di prendere un treno per appurare la verità con i propri occhi.
Arrivato nella metropoli lombarda, va negli uffici dell’azienda con la quale Emma aveva detto di collaborare, ma lì nessuno la conosce.
La casa della famiglia che doveva ospitarla è vuota, ma da un inquilino di un altro appartamento Michele Cammarata apprende che sua moglie si è trasferita da un certo avvocato Polidoro.
L’ingegnere entra in un bar e consulta l’elenco telefonico per trovare il suo indirizzo. Ormai è solo questione di ore per la resa dei conti…
Dopo il colpo di pistola sparato nella notte, l’unico a rialzarsi è Michele Cammarata.
Emma, atterita e con gli occhi sgranati, guarda l’amante che si lamenta per terra coperto di sangue e poi il marito, che cerca di sparare ancora. Ma la pistola fa cilecca.
Uno dei rari passanti porta subito Vincenzo Polidoro in ospedale, ma per lui non c’è più niente da fare: il proiettile gli ha attraversato il torace.
L’uomo muore stringendo la mano dell’amata e sussurandole con un filo di voce: “Quando si ama come me, si ammazza o si viene ammazzati”.
L’ingegnere, intanto, si è lasciato accompagnare tranquillamente dai funzionari di polizia.
Ai quali Michele dichiara che, dopo Polidoro, intendeva uccidere la moglie fedifraga e se stesso: non c’è riuscito solo perché l’arma si è inceppata. “Ma quella maledetta donna me la pagherà”, conclude minaccioso.
Firmata la deposizione, viene portato verso la sua cella.
A quel punto, Michele Cammarata chiede di poter prendere le sigarette dalla borsa che gli è stata appena sequestrata, ma appena vi infila le mani tira fuori un coltello e tenta di suicidarsi.
Viene fermato all’ultimo istante dalle guardie.
Poche settimane dopo, Emma si riavvicina al marito. “Sono stata preda di un’oscura forza dalla quale non potevo liberarmi”, dirà la donna.
“Vincenzo, al contrario del suo aspetto apparentemente dimesso, era un uomo forte e sicuro di sé. Esercitava un vivo fascino non soltanto per la sua complessa personalità intellettuale, ma soprattutto per il suo carisma che a volte mi suggestionava”.
Aggiunge enigmaticamente che Michele “era stato costretto a uccidere per salvare se stesso”.
Il codice penale in quegli anni prevede ancora il cosiddetto delitto d’onore, secondo il quale chi uccide il coniuge o il suo amante ottiene una condanna mite.
Per questo motivo il processo a Michele Cammarata, nel settembre del 1948, si svolge in un’atmosfera piuttosto distesa.
Il pubblico maschile sembra interesato soprattutto agli abiti attillati della bella Emma, che depone al processo con un elegante vestito nero e, in testa, un turbante bianco.
Invece il pubblico femminile si commuove fino alle lacrime alla testimonianza dell’uomo tradito.
“Molte belle e distinte signore sfoggianti tailleur grigi e volpi argentate, portavano spesso il fazzoletto agli occhi”.
Lo stesso pubblico ministero riconosce che l’ingegnere “si è fatto giustizia da solo perché è stato offeso in quanto aveva di più caro”.
Anche Maria Polidoro, la vedova che si è costituita parte civile, sorride affettuosamente verso Michele, mentre ignora del tutto l’ex amica Emma.
L’entità della condanna decisa dal giudice? Solo un anno e quattro mesi, ossia il periodo di prigione trascorso in attesa del processo.
Un giornale del pomeriggio titola con evidente sollievo la notizia della pena simbolica inflitta a Michele Cammarata: “Per il bene delle figlie innocenti, il condannato guarda al futuro e a una nuova vita con la peccatrice umiliata”.
Il giorno dopo, Giulietta va a trovare il padre nel carcere di San Vittore portandogli una gardenia, lo stesso fiore che molti anni prima Michele aveva offerto a Emma per chiederle la mano.
Michele Cammarata esce di prigione come un divo, accolto dagli applausi e dai flash dei reporter.
L’ex carcerato parte in macchina con il fratello Franco, uno psichiatra che a Firenze possiede una clinica dove Michele trascorrerà qualche mese.
Alla fine degli anni sessanta il delitto d’onore viene messo in discussione dalla Corte costituzionale, ma solo nel 1981 il parlamento decide di eliminarlo: uccidere a causa di una moglie adultera diventa un omicidio come gli altri.
(Per leggere gli altri articoli sui delitti famosi pubblicati da Giornale POP clicca QUI).