L’ORIGINE DELLA INFLUENZA CINESE SUL TIBET

Tibet

Il periodo che va dall’ascesa di Ngawang Lozang Gyatso (1617-1682), Dalai Lama dal 1642 ricordato come il Grande Quinto, alla morte del reggente Desi Sangye Gyatso nel 1705, vide l’unificazione politica e religiosa del Tibet nonché il fiorire della sua vita culturale ed economica.

Particolare del dipinto che ritrae l’incontro tra il quinto Dalai Lama e l’imperatore Shunzi, della dinastia Qing, avvenuto a Pechino nel 1653 (XVII secolo, Museo del Potala)

 

Nel gennaio 1653 l’autorevole Dalai Lama visitò persino Pechino, dietro invito del giovane imperatore Shunzi (anni di regno 1644-1661) della dinastia mancese dei Qing, ancora impegnata nella pacificazione della Cina.
Per l’occasione, ricordata dalle fonti sia cinesi sia tibetane, la capitale cinese si arricchì del “Tempio Giallo” (Huangsi), costruito per ospitare l’illustre ospite e il suo seguito, composto da alcune migliaia di persone.

Le mai sopite rivalità tra gli ordini, in cui era divisa la comunità monastica, posero fine a questa fase storica. Non estranee furono le interferenze straniere e in particolare dei mongoli, che del Tibet si consideravano protettori sin dal XIII secolo e dal quale avevano adottato il buddismo lamaista.
Nel 1705 il reggente Desi Sangye Gyamtso fu assassinato e il sesto Dalai Lama (passato alla storia per la sua passione per donne, caccia e poesia) fu destituito dai mongoli khoshot del Kokonor, guidati da Lajang Khan. Quest’ultimo, d’accordo con l’impero Qing, impose ai Tibetani un nuovo Dalai Lama, che però non fu riconosciuto come incarnazione autentica.

Le autorità religiose si rivolsero quindi agli zungari, altro gruppo mongolo il cui dominio si estendeva allora dalla Mongolia occidentale al Kazakistan orientale, comprese le oasi del bacino del Tarim. Artefici dell’ultimo grande impero nomade della storia, gli zungari invasero il Tibet e sconfissero i khoshot, uccidendo Lajang Khan alla fine del 1717.

L’imperatore Kangxi (r. 1662-1722) reagì immediatamente: due eserciti entrarono in Tibet (uno dagli altipiani del Kokonor, l’altro dal Sichuan), per un totale di circa 300mila soldati agli ordini del principe imperiale Yinti.
Nell’autunno del 1720 le due forze si riunirono a Lhasa e un nuovo Dalai Lama, questa volta riconosciuto come vero, settimo incarnato, fu posto sul trono del Potala, il palazzo la cui costruzione era iniziata nel 1645 per volere del Grande Quinto.
Il problema zungaro sarebbe stato risolto dallo Stato Qing solo negli anni cinquanta del XVIII secolo, grazie all’azione risoluta e spietata dell’imperatore Qianlong (r. 1736-1796).

Sul Tibet si stabilì così un protettorato destinato a durare quasi due secoli. Un protettorato alquanto morbido che fu accettato di buon grado dai tibetani, nonostante che parte dell’est e del nordest (le regioni del Kham e dell’Amdo) fossero annesse al Sichuan cinese.
Dopo la rivolta di un principe khoshot anche la regione del Kokonor fu dichiarata, nel 1724, provincia cinese con il nome di Qinghai.

In seguito a una sollevazione popolare che aveva portato all’uccisione dei commissari mancesi (gli amban) residenti a Lhasa, le autorità Qing decisero nel 1750 di ridurre l’autogoverno dei tibetani. Le mura della capitale tibetana furono abbattute, la guarnigione di stanza a Lhasa fu aumentata sino a 1500 soldati, mentre la storica figura del reggente non fu più nominata.
Se da un lato l’alta aristocrazia tibetana venne esautorata dal potere, dall’altro il Dalai Lama fu tacitamente riconosciuto come unico sovrano del Tibet, a esclusione ovviamente delle regioni annesse al territorio metropolitano cinese.

Il principe Yinti (1688-1755), quattordicesimo figlio dell’imperatore Kangxi; come generale si distinse alla guida dell’esercito Qing durante la campagna tibetana del 1720

 

Gli anni turbolenti che si conclusero con l’imposizione dell’ordine mancese videro anche alcuni missionari italiani, fra i quali il gesuita toscano Ippolito Desideri (1683-1733) e un gruppo di cappuccini marchigiani, soggiornare in Tibet.
Ben accolti dai locali, costruirono una prima chiesa a Lhasa e scrissero alcuni trattati apologetici del cristianesimo in tibetano, dopo averne studiato la lingua. Con loro muoveva i primi passi la disciplina della tibetologia.

La dinastia Qing si fece carico anche di proteggere il Tibet dalle invasioni straniere, in particolare da quella dei gurkha nepalesi tra il 1788 e il 1792, una delle ultime grandi vittorie dell’esercito imperiale.
Il generale mancese Fuk’anggan (1753-1796), che già si era distinto nel reprimere una rivolta a Taiwan, prima cacciò gli invasori e poi li inseguì in Nepal, costringendoli al riconoscimento della sovranità Qing e al pagamento di un tributo ogni cinque anni (impegno mantenuto, seppur in maniera incostante, sino al 1908).

In cambio di questa protezione il governo di Pechino si riservò il diritto di controllare la scelta sia del Dalai Lama sia del Panchen Lama (la seconda carica della gerarchia lamaista), imponendo diverse candidature tra le quali si operava un’estrazione a sorte in presenza degli amban. Questa pratica, iniziata nel 1792, continuò sino al 1877.

Sia come gesto per irrobustire il legame con il protettorato sia come atto di sincera devozione da parte di alcuni imperatori, la corte Qing ricoprì di onori e di donazioni il lamaismo, in Tibet come anche in Cina e in Mongolia.
Non solo furono costruiti o restaurati a spese del tesoro imperiale templi e monasteri ma venne ordinata la traduzione e la pubblicazione in cinese, mongolo e mancese di centinaia di testi buddisti tibetani, mentre lama importanti furono invitati a Pechino, dove godettero di grande prestigio.

Dall’ottavo al dodicesimo (1758-1875), i Dalai Lama furono personalità insignificanti o morirono giovani. Al contrario si distinsero alcuni Panchen Lama, che mantennero sempre ottimi rapporti con gli amban e il governo di Pechino.
Nel 1855, i nepalesi approfittarono delle difficoltà dell’impero Qing (alle prese con la rivoluzione Taiping) e invasero nuovamente il Tibet. La guerra, che non vide coinvolte le truppe (sempre più esigue) degli amban, ebbe breve durata e si concluse dopo alcuni scontri con il pagamento di un’indennità da parte tibetana e l’apertura di una stazione commerciale nepalese a Lhasa.

Dei problemi cinesi ne trassero beneficio gli inglesi, che nel 1890 costrinsero il governo di Pechino a riconoscere il proprio protettorato sul principato del Sikkim, vassallo himalayano dei Qing dalla fine del XVIII secolo, e nel 1893 ottennero l’apertura di un centro commerciale in Tibet, nella città di Yatung.
Contemporaneamente cresceva l’influenza russa presso il Dalai Lama grazie alle tribù mongole lamaiste, come i calmucchi e i buriati, che erano soggette all’impero zarista.

L’Inghilterra, cercando di riportare l’equilibrio a suo favore, nel 1904 optò per l’intervento armato, mentre la Russia era impegnata nella guerra contro il Giappone e il governo Qing era inerme per le sanzioni seguite alla rivolta dei Boxer (1899-1901).
Il 3 agosto 1904 le forze britanniche entrarono a Lhasa, dove furono accolte pacificamente dall’amban, e scoprirono che il tredicesimo Dalai Lama, Thubten Gyatso (r. 1878-1933), si era rifugiato a Urga, in Mongolia.
Il trattato che seguì, siglato nel 1906, riconobbe la sovranità Qing sul Tibet pur aprendolo al commercio esterno. Il Dalai Lama prima si recò a Pechino, dove tentò senza successo di ottenere maggiore autonomia per il suo paese, e poi, con la morte dell’imperatrice vedova Cixi nel 1908, rientrò finalmente a Lhasa.

L’amban Youtai assieme al colonnello Francis Younghusband dopo l’ingresso a Lhasa dell’esercito inglese il 3 agosto 1904

 

Nei suoi ultimi anni di vita, la dinastia Qing tentò una modernizzazione dell’amministrazione tibetana, per rafforzare la propria posizione e frenare le ingerenze inglesi. Alla fine del 1909 l’esercito imperiale intervenne nel Kham orientale e pur incontrando la forte resistenza dei tibetani locali, monaci compresi, organizzò la regione in provincia cinese.

Proprio mentre le truppe imperiali marciavano su Lhasa e il Dalai Lama si trasferiva, in via precauzionale, nell’India britannica, scoppiò nell’ottobre 1911 la rivoluzione Xinhai che portò all’abdicazione dell’ultimo imperatore Qing il 12 febbraio 1912 e alla nascita della Repubblica di Cina.

Con il ritiro dell’esercito cinese il Dalai Lama tornò in Tibet e si dichiarò libero da ogni legame di dipendenza nei confronti della Cina.
L’Inghilterra propose a Cina e Tibet un accordo con la convenzione di Simla (1914), il quale divideva il Tibet in due parti. A ovest il Tibet “esterno” (grosso modo l’attuale regione autonoma del Tibet o Xizang) sotto il potere diretto del Dalai Lama, che comunque avrebbe riconosciuto la sovranità cinese. A est il Tibet “interno”, comprendenti Kham e Amdo, controllati dalla Cina. Da parte sua l’Inghilterra si impegnava ad astenersi da qualsiasi interferenza o annessione.

Il reclamo degli inviati del Dalai Lama, che miravano all’indipendenza completa di tutto il territorio abitato dai tibetani (inclusi quindi Kham e Amdo), non fu accolto mentre la Repubblica cinese rifiutò di firmare la convenzione, non riconoscendo la linea di confine proposta tra Tibet e India britannica (la cosiddetta linea di McMahon).
Il Tibet, a malincuore, firmò l’accordo insieme al Regno Unito.

Nei decenni che seguirono, con le potenze europee impegnate nelle due guerre mondiali e la Cina alle prese con enormi problemi interni ed esterni (a partire dall’aggressione giapponese), il Tibet rimase indissolubilmente legato alle proprie strutture medievali, non fece alcun sforzo volto alla modernizzazione e, soprattutto, non volle o non poté proclamare l’indipendenza.

Nota bibliografica: sul protettorato Qing in Tibet sono stati spesi fiumi di inchiostro e il materiale disponibile, anche in italiano, è immenso; a tale proposito segnalo i capitoli inerenti a questo periodo storico presenti in due testi “classici” della tibetologia: “La civiltà tibetana”, di Rolf A. Stein (1962, Einaudi 1998) e “Il Dragone e la Montagna”, di Melvyn C. Goldstein (1997, Baldini&Castoldi 1998).

 

 

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