LE BRILLANTI STELLE OSCURE DEL GOTH

LE BRILLANTI STELLE OSCURE DEL GOTH

Il goth è il risultato di una epopea precedente.
“L’era post punk è senza dubbio in competizione con gli anni sessanta per quanto riguarda la mole di splendida musica prodotta, allo spirito d’avventura, all’idealismo di cui era intrisa e al legame inestricabile che sembrava unire la musica alla turbolenza politica e sociale del tempo”
, scrive il critico musicale Simon Reynolds nell’introduzione al suo libro “Post-punk”.

 

 

La nascita del goth dalle ceneri del punk

L’estetica dark nasce come un riflesso della Gran Bretagna degli anni settanta, dove la modernizzazione industriale iniziava a mostrare segni di decadenza. Secondo Greil Marcus, la cultura punk cominció a diffondersi in seguito all´aumento della disoccupazione giovanile, al riaccendersi del terrorismo irlandese, alla crescente violenza di strada e all’esacerbarsi del razzismo. Il fenomeno punk fu una fiammata di breve durata, seguita da una nuova ondata musicale che non aveva nessun tipo di connotazione sociale e politica.

Il sound “post punk” di gruppi come Joy Division e Cure era socialmente schiacciato nelle contraddizioni politiche dell’epoca, che vedeva tramontare l’assistenzialismo della sinistra per l’affermarsi del liberismo economico di Margaret Thatcher. L’immaginario dark cominciò a popolarsi di simboli nazisti e di riferimenti ai campi di concentramento: era stata la cultura punk la prima a utilizzare l’uso della svastica come simbolo controculturale, decostruendone il significato.

Lo stesso nome Joy Division è un riferimento ai bordelli nazisti. Lawrence Grossberg parla del post punk come di un movimento di rottura, caratterizzato com’è dalla depressione, dalla disperazione, dalla frustrazione, dalla rabbia e dal rifiuto della possibilità di un ordine sociale e di una vita comunitaria: “Il risultato è una musica stranamente distaccata, anche se ancora furiosamente energica ed emozionale”.
La via per il goth è aperta.

 

Siouxsie and the Banshees

In una fotografia scattata da Simon Baker nel 1977, Siouxsie Sioux si applica con estrema cura un trucco luminoso aiutandosi con lo specchio palmare. Trasforma i suoi occhi in arte geometrica, indossa orecchini scintillanti e una camicetta rosa acceso. Divenne da subito l’icona delle ragazze dark di tutto il mondo, anche se non accettò mai il titolo di “madrina del goth”.

Fu la figura guida di questa scena emergente che fondeva elementi di punk, new romantic, new wave e persino glam rock. La sua ispirazione era ancora ribelle come il punk, ma era più oscura e includeva fonti di ispirazione più ampie come film dell’orrore; letteratura fetish, gotica e persino mitologica.

La musica dei Banshees predilige testi arcaici e atmosfere tenebrose, puntando su sonorità cupe, echi, riverberi e distorsioni snervanti. Un clima a metà tra il gran guignol e il sabba, esaltato dalle capacità espressive di questa chanteuse fatale che aggiorna in chiave kitsch-punk certe intuizioni della Nico dei Velvet Underground.

 

Bauhaus

Alcuni anni fa l’ex frontman dei Bauhaus, Pete Murphy, ha sbattuto il telefono in faccia a un giornalista che continuava a menzionare la parola “goth” nell’intervista. Se il termine non gli piace, Murphy deve incolpare solo se stesso.

Il singolo di debutto del gruppo di Northampton è sembrato da subito un modello imprescindibile per le altre band: una scura linea di basso che si ripete lungo i dieci minuti della canzone, con un pattern di batteria e una preponderanza di effetti sonori evidentemente derivati dal dub reggae, sovrastati dal suono della chitarra frastagliato e astratto.

Bela Lugosi’s Dead sarebbe stato solo un altro pezzo di sperimentazione post-punk, se non fosse stato per i testi che rappresentavano il funerale di Dracula, con i pipistrelli in picchiata e le spose vergini che marciavano accanto alla sua bara. La chicca finale è stata la voce oltretombale di Murphy, se non è goth tutto questo… L’effetto è stato così irresistibilmente teatrale che decine di band si formarono nella sua scia.

 

The Cure

È con il loro terzo album, l´oscuro Faith, che i Cure di Robert Smith si candida a vero caposcuola del goth rock. Fin dalla copertina: pochi fili d´erba in primo piano, sullo sfondo una vecchia chiesa diroccata, il grigio come unico possibile colore.

Scritto sull’onda dell’emozione per il recente suicidio di Jan Curtis, Faith ci propone una immersione in atmosfere sotterranee dai ritmi cadenzati e diluiti e dalle profonde venature emozionali. Il tema dell’album è il rapporto del suo autore con la fede, di cui è privo e di cui sente la mancanza. Entra in una chiesa e si trova a invidiare coloro che stanno pregando. “Mi inginocchio e aspetto in silenzio / Mentre a una a una le persone scivolano via / Mi siedo e ascolto senza sogni”“Una promessa di salvezza mi fa restare” (The holy hour).

Durante la lavorazione di questo album il giovane Smith entrò in una profonda crisi depressiva che fece temere per il peggio gli altri componenti dei Cure. “Me ne sono andato via da solo / Senza più niente tranne la fede” (Faith).

 

Virgin Prunes

Il clima sociale della metà degli anni settanta è spesso citato come il catalizzatore che scatenò un’ondata di creatività artistica in chi vedeva il futuro con pessimismo. Per un gruppo di adolescenti cresciuti a Dublino, la capitale dell’Irlanda, la prospettiva di una vita basata sul sussidio di disoccupazione li portò a creare una specie di santuario del rock, un mondo segreto per pochi adepti che chiamarono Lypton Village.

Tra i membri di questo centro sociale, anche due ragazzi di nome Paul Hewson e David Evans, che diventeranno famosi come Bono Vox e The Edge degli U2 e Richard Evans, fratello di the Edge e fondatore dei Virgin Prunes.

La gente, diceva Antonin Artaud, dovrebbe andare a teatro con lo stesso stato d’animo con il quale va dal dentista. Solo una giusta razione di sofferenza la attende. Sulle orme del Teatro del Dolore di Artaud, i Prunes inscenano un raggelante cabaret dadaista, all’insegna di urla e sangue, messe nere e danze sfrenate.

 

Sister of Mercy

Le Sisters of Mercy (“sorelle della misericordia”) sono le prostitute nell’omonima canzone di Leonard Cohen: “Ci piaceva l’ambiguità tra il significato originario dell’espressione, che si riferiva a un ordine di suore, e quello adottato da Cohen”, spiega Eldritch. “E la prostituzione ci sembrava anche un’ottima metafora per un gruppo rock”.

Autori di un sound personalissimo, caratterizzato dall‘accoppiamento tra le chitarre distorte, in stile hard rock, e le cupe ritmiche ossessive della batteria elettronica. Una musica maestosa e imponente, capace di evocare passioni violente, grazie anche al timbro vocale del “messia del gotico”, il cantante Andrew Eldritch, ineguagliabile frontman.

Tra voci catacombali, cavalcate elettroniche e danze tribali, la band riusci nell’impresa di stregare l’intera generazione degli anni ottanta.

 

Theatre of Hate

I Theatre of Hate furono una meteora che attraversò il variegato panorama post-punk illuminandolo di vivida luce. La band fu fondata nel 1980 dall’enigmatico Kirk Brandon, cantante che veniva dall’esperienza col gruppo punk dei The Pack. Il frontman mise insieme un gruppo composto da cinque ragazzi tutti rigorosamente marxisti simpatizzanti del piccolo partito trotskista inglese.

La loro musica voleva essere una sorta di canto di protesta contro la politica di Margareth Thatcher. “Westworld”, il loro primo e ultimo album pubblicato, presenta sonorità in gran parte ancora attuali.

Il gruppo costruisce musica ancora in parte basata su certe soluzioni sonore tipiche del punk, che accompagna sapientemente ad atmosfere crepuscolari e malinconiche tipiche della new wave. Le tinte fosche in linea col periodo sono stemperate da una interessante attitudine pop, che non manca di emergere tra le note.

 

The Mission

Nati nel 1985 da una costola dei Sister of Mercy, su iniziativa dei dimissionari Wayne Hussey e Craig Adams, rispettivamente cantante-chitarrista e bassista della band, i Mission non sono però mai stati un clone della band madre. I quattro mettono in mostra da subito uno stile personale, suonando un rock kitsch e magniloquente dalle tinte decisamente dark.

“Perché tutti dicono sempre che sono goth?”, si chiede Wayne Hussey durante un’intervista. “Solo perché uso parole come sangue e coltello”? Al giornalista che gli fa notare come la maggior parte delle sue canzoni non sia esattamente solare e allegra, ribatte: “Severina è decisamente spaventosa…”.

“… Ma non tutte le mie canzoni sono sulla morte e sulla miseria. Prendi per esempio Love Me To Death: quella canzone è una celebrazione. Una celebrazione della vita e dell’amore”. In effetti come amore è molto ambiguo, percorrendo la linea sottile tra oscenità e bellezza.

 

The Cult

Fin dall’inizio, i Cult non fecero mistero della loro fascinazione per la cultura dei nativi americani. L’iconografia dei lakota (un popolo sioux) è presente in modo regolare nelle loro canzoni, nei video e nelle copertine degli album.

Il loro primo album, “Dreamtime”, presenta una canzone, “Horse Nation”, con testi ispirati a un celebre libro sulla triste storia dei nativi americani: “Seppellite il mio cuore a Wounded Knee”. Il cantante Ian Astbury dice che tutto risale agli anni in cui la sua famiglia visse in Canada: “Venni immediatamente ostracizzato come immigrato europeo, gli unici miei compagni di giochi erano dei bambini indigeni: due fratelli mohawk”.

Nel 1985, quando i Cult esordirono, la scena musicale era dominata dai sintetizzatori, non c’erano molte chitarre in classifica, fu coraggioso da parte loro accoppiare riff alla Led Zeppelin all’estetica dark.

 

Cocteau Twins

Con le sue capacità vocali senza rivali, Elizabeth Fraser possiede il potere di far piangere i giornalisti musicali della rivista inglese Nme. Eppure per tutta la sua carriera è rimasta profondamente modesta riguardo al suo sublime talento, trasudando una vulnerabilità perfettamente riconoscibile nel suo songwriting.

I Cocteau Twins provenivano da Grangemouth, in Scozia, e traevano ispirazione dalla loro eredità culturale gaelica, in particolare dello stile puirt à beul, un modo particolare di cantare dove la bocca cerca di ripetere le melodie degli strumenti.

La Fraser, notoriamente insicura di sé quando si trattava di scrivere testi, spiegava questa cosa con il fatto che “le parole non hanno senso finché non le canto”. Una volta descritta come “la voce di Dio”, il canto della Fraser ha una qualità ultraterrena che supera le convenzioni e la rende incomparabile a qualsiasi altra interprete.

 

Joy Division

Dulcis in fundo nelle origini del goth, troviamo Ia band che ha indicato la strada a tutto il movimento post punk. I Joy Division di Ian Curtis, l’alieno che cantava in stato di trance trascinando i fans all’interno di un rituale magico religioso di tipo sciamanico.

J
La canzone che delinea perfettamente questo stato è “She’s lost control” (1979):  “La confusione nei suoi occhi dice tutto, ha perso il controllo”. Lo stato di trance è enfatizzato in “She’s Lost Control” sia a livello musicale sia teatrale.

L’uso costante della ripetizione cerca di indurre uno stato onirico. Nel testo, la perdita dell’autocontrollo viene sistematicamente ripetuta fino alla fine della canzone: il narratore inizia a dubitare della propria vita e perde il controllo di se stesso. La folle danza che il frontman eseguiva sul palco ricordava le contorsioni dell‘epilessia, malattia che gli avevano diagnosticato e per la quale assumeva farmaci specifici.

 

 

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