LA SFIGATA BANDA CASAROLI

LA SFIGATA BANDA CASAROLI

Alle quattro del 15 dicembre 1950, in viale Trastevere, Roma, alcuni giovani con i volti semicoperti dalle sciarpe entrano nel Banco di Sicilia. All’interno, estraggono i mitra dai cappotti ordinando agli impiegati di alzare le mani. Un funzionario, il dottor Bonifacio, tira fuori la pistola da un cassetto e spara verso un bandito, mancandolo. Un cassiere e un fattorino si lanciano sugli altri due, riuscendo anche a strappare un mitra.

I banditi aprono il fuoco a loro volta: uccidono così il direttore Angelucci e feriscono gravemente il cassiere. Quindi escono di corsa e risalgono su una Fiat 1400, inseguiti da un paio di impiegati che continuano a sparare verso di loro.
Ma chi sono questi banditi sfortunati?

Paolo Casaroli nasce a Bologna nel 1925, figlio di una donna alcolizzata e di un padre che non è mai in casa. Da bambino, Paolo legge un po’ di tutto per rifugiarsi in un mondo di fantasia. Durante l’occupazione tedesca si arruola nella Decima Mas, una delle poche unità fasciste che continuano a combattere. Qui impara a usare il mitra, e continua ad adoperarlo anche a guerra finita, per commetere piccole rapine tra le rovine di un’Italia semidistrutta.

Finito in prigione ne approfitta per immergersi nuovamente nei libri, compresi i trattati di psicologia e le raccolte di poesie. Queste ultime lo commuovono a tal punto che, a volte, scoppia a piangere tra gli sguardi perplessi dei compagni di cella.

Nello stesso carcere bolognese arriva Romano Ranuzzi, detto “il Bello”, di due anni più giovane. Anche lui fanatico delle armi, in guerra si era offerto volontario per arruolarsi tra le file dei fascisti. Ma, siccome non era stato preso per la sua giovane età, aveva combattuto con i loro nemici, i partigiani. L’importante per lui era avere l’occasione di sparare.
Anche Romano aveva conservato il mitra per darsi alle rapine, ma era rimasto fregato perché, dopo il primo colpo, si era dato alla fuga prendendo il tram: la polizia lo aveva arrestato alla fermata successiva.

Sempre nella stessa prigione si trova una terza persona dalle caratteristiche simili. Si chiama Daniele Farris: in guerra si era arruolato nella Brigata Nera Mobile, che verrà sciolta da Mussolini in persona su richiesta dei tedeschi, perché dedita a saccheggi, violenze, torture e omicidi tipici degli assassini di strada più che dei soldati.
Alla fine della guerra, Daniele aveva fatto lo strillone (il venditore ambulante di giornali), ma il suo desiderio era tornare a sparare.

Durante le giornate tutte uguali del carcere, i tre giovani fantasticano sul loro futuro, che vedono meraviglioso, anche se non sanno ancora bene come lo guadagneranno. Nel suo diario, Paolo Casaroli scrive: “La natura assegna a certi uomini compiti superiori, per i quali non valgono le leggi comuni”.

Una volta liberi, alla fine degli anni quaranta, Paolo ospita i due amici nella propria casa: fino a notte girano per le strade di Bologna, parlando di filosofi come l’esistenzialista Jean-Paul Sartre. Peccato che la realtà di tutti i giorni sia molto meno esaltante, e che un “grande pensatore” come Casaroli debba trascorrere l’estate vendendo fette d’anguria su una bancarella.

Così una sera, facendo “testa o croce”, Paolo decide insieme agli amici se il loro destino sarà quello delle persone oneste o dei banditi: il responso della monetina lanciata in aria è che saranno ancora una volta dei banditi. Allora Romano il Bello viene incaricato di farsi prestare i soldi da una delle sue amanti per comprare le armi al mercato nero.

Casaroli decide che agiranno fuori dall’Emilia Romagna, per evitare i sospetti della polizia bolognese che li conosce bene. Siccome nessuno dei tre, poveri come sono, sa guidare una macchina, di volta in volta arruoleranno un autista nel sottobosco della malavita bolognese.

Il primo colpo avviene il 3 ottobre 1950, in una banca di Binasco, vicino a Milano. La rapina, però, frutta poche lire e per poco i tre non vengono anche acchiappati, perché un agricoltore di passaggio, Piero Sala, si mette al loro inseguimento con la propria auto.

A un certo punto, Sala viene bloccato dalla polizia, che lo scambia per uno dei rapinatori. Quando l’equivoco si chiarisce, la macchina dei veri banditi è ormai sparita all’orizzonte.
Il bottino è comunque sufficiente per pagarsi le serate al night, dove Paolo e i due complici fanno i brillanti e spendono senza apparenti problemi.

Colpi più sostanziosi li mettono a segno a Genova e Torino, durante i quali, per la prima volta, sparano in aria a scopo intimidatorio. Dopo due mesi di attività i tre hanno in cassa sette milioni di lire, non una cifra da capogiro ma abbastanza per divertirsi.

Il leader della banda decide che la prossima rapina sarà a Roma. Come al solito l’obiettivo è una banca che si trova in una zona attraversata da grandi strade, dove, quindi, con il poco traffico di allora la via di fuga non presenta complicazioni. Tutto ciò viene studiato su una semplice carta topografica.

Casaroli si occupa di procurarsi l’auto, e qui si vede tutto il dilettantismo della banda: invece di rubare un veicolo che non possa condurre la polizia alle loro tracce, Paolo chiede a nolo una 1400 Fiat dalla rimessa di un suo vecchio conoscente, un tale di nome Balboni, Il proprietario si fida poco, perché quell’altro è sempre stato uno spiantato. Allora il bandito, cercando di convincerlo, gli mostra un libretto di risparmio con 700mila lire di saldo.

Balboni prende tempo per chiedere consiglio a un amico della polizia, Giuseppe Tesoro, il quale, informatosi sui precedenti penali di Casaroli, gli consiglia di lasciar perdere. Il bandito va allora in un altro garage, che accetta di noleggiargli un’auto, ma siccome non ha una 1400, a sua volta se la fa prestare proprio da Balboni.

A Roma va tutto storto a causa della reazione dei dipendenti della banca, e ora sulla Fiat 1400 i tre imprecano per il rischio che hanno corso. L’auto viene lasciata al solito complice occasionale arruolato come autista, con il compito di riportarla a Bologna, mentre la banda ritorna in treno.

Intanto, la polizia romana ha diramato a tutte le questure l’unica informazione che possiede sui rapinatori: guidavano una Fiat 1400. All’agente Giuseppe Tesoro torna in mente la faccenda dell’auto, e dal garagista verifica che il veicolo noleggiato ha percorso un migliaio di chilometri, poco più del tragitto di andata e ritorno per Roma.

Alle ore 13 del 16 dicembre, Giuseppe Tesoro commette l’errore di presentarsi nell’abitazione di Casaroli senza avvertire preventivamente i superiori e in compagnia di un solo collega. Non sospetta che quella sia la base di tutta la banda. Appena viene loro intimato di seguirli in questura, Casaroli e Ranuzzi aprono il fuoco, uccidendo Tesoro e ferendo l’altro agente.

Gli spari hanno attirato però molte persone in strada e i due devono scappare di corsa prima che arrivi la polizia. Saltano su un tram e, pistole alla mano, ordinano al conducente di accelerare. Lui, invece, diminuisce la velocità, costringendo i due a scendere.

Vedendo la scena, Mario Chiari, un ex carabiniere, tenta di fermarli lanciandogli la propria bicicletta tra le gambe. Per tutta risposta, i due lo ammazzano. Come un minuto dopo uccidono un tassista, Antonio Morselli, perché tenta di scappare appena salgono sul suo veicolo.

Non sapendo guidare, Casaroli e Ranuzzi continuano la fuga a piedi. Feriscono un vigile e poi cercano di salire su un’auto guidata da una donna, la quale si spaventa e va a sbattere contro un muro. Allora fermano la macchina di due medici, ne buttano fuori uno ed entrano senza accorgersi che l’altro si è portato via la chiave.
Il medico rimasto non può avviare il motore e ormai i due sono bloccati lì, mentre le forze di polizia li circondano.

Cominciano a volare i primi colpi di pistola e Romano “il Bello” viene colpito all’addome. Comprendendo che non c’è più scampo, saluta il complice con un “Ciao Paolo”, prima di spararsi un colpo in testa. Vedendosi pure lui perduto, Casaroli esce dall’auto facendo fuoco all’impazzata: viene colpito da una decina di proiettili, ma portato all’ospedale poco dopo si salva miracolosamente.

Daniele Farris, il terzo della banda, era in un’altra stanza dell’abitazione di Casaroli, quando sono iniziati gli spari. Uscito in strada, apprende del suicido dell’amico Romano e gli giunge all’orecchio la notizia, falsa, che pure Paolo sia morto. Allora va al cinema più vicino e, quando si spengono le luci, si spara anche lui un colpo in testa.

In tasca gli trovano un biglietto: “La faccio finita, non per paura o vigliaccheria, ma solo perché ho il rimorso di non essere stato vicino ai miei amici, specialmente a Paolo, nella loro ora estrema. Non mi pento di nulla, ho fatto ciò che volevo. Paolo, mantengo la promessa, ti seguo”. Parole che lasciano intendere un patto di morte stipulato dai tre.

Al processo del 1953, pur giudicato schizofrenico dagli psichiatri, Paolo Casaroli viene condannato all’ergastolo perché ritenuto capace di intendere e di volere.

Dopo avere scontato 29 anni di carcere, Paolo Casaroli ottiene, nel 1979, la libertà per buona condotta. Si stabilisce a Marzabotto, vicino a Bologna, si sposa e ha un figlio. Il suo unico desiderio sembra quello di ottenere “il perdono dei tanti a cui ho fatto del male”, e di lui non si sentirà più parlare.
Cardiopatico da tempo, Paolo Casaroli muore la notte di capodanno del 1993 all’ospedale Sant’Orsola di Bologna.

La vicenda nel 1962 ha ispirato il film La banda Casaroli, di Florestano Vancini con Jean-Claude Brialy, Renato Salvatori e Tomas Milian.


(In apertura: un’immagine del film “La banda Casaroli”, di Florestano Vancini).

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