INTERVISTA IMPOSSIBILE A ROSSELLINI

INTERVISTA IMPOSSIBILE A ROSSELLINI

Le dichiarazioni di questa intervista impossibile a Roberto Rossellini, il grande regista neorealista di Roma città aperta (1945) e Paisà (1946), sono tratte da:
“Quand je commence à divenir intelligent, je suis foutou”, di Roger Regent, da “L’Écran Français” del 21/11/1948;
“Colloquio sul neorealismo”, di Roberto Rossellini e Mario Verdone, da “Bianco e Nero”, n. 2/1952
“Je ne suis pas le père du néo-réalisme”, di Henri Hell, da “Arts” del 16/6/1954;
“Entretien avec Roberto Rossellini”, di Maurice Scherer e François Truffaut, da “Cahiers du Cinéma” n. 37, 1954;
“Un cinéaste, c’est aussi un missionarie”, di Jean-Luc Godard, da “Arts” dell’1/4/1959;
“Entretien avec Roberto Rossellini”, di Fereydoun Hoveyda e Jacques Rivette, da “Cahiers du Cinéma” n. 94, 1959;
“Intervista con Roberto Rossellini”, di Adriano Aprà e Maurizio Ponzi,  da “Filmcritica” n. 156/157, 1965;
“Dibattito su Rossellini”, a cura di Gianni Menon. Partisan 1969;
“Roberto Rossellini”, di Pio Baldelli, Samonà e Savelli 1972.


Come nasce il neorealismo?

Il neorealismo nasce, inconsciamente, come film dialettale, poi acquista coscienza nel vivo dei problemi umani e sociali della guerra e del dopoguerra.

Ma che cos’è, di fatto, il neorealismo?

Mi sono sempre sforzato di dire che per me il neorealismo era solo una posizione morale.

Che genere di posizione morale?

La posizione morale era di mettersi a guardare le cose obbiettivamente e di mettere insieme gli elementi che componevano le cose, senza cercare di portarci nessunissimo giudizio.

È possibile evitare il  giudizio?

Le cose, in sé, hanno il loro giudizio. E siccome io odio d’istinto tutto quello che è sopraffazione questo è stato l’inizio. Poi piano piano queste cose mi si sono profondamente radicate e sono diventate molto chiare per me. Cioè quello che facevo per istinto, poi, piano piano, l’ho fatto in coscienza.

Quindi alla fine prendendo coscienza si giunge inevitabilmente a un giudizio, un giudizio che, magari, si esprime attraverso la storia che si decide di narrare, attraverso le tesi che si portano avanti.

Oggetto vivo del film realistico è il “mondo”, non la storia, non il racconto. Esso non ha tesi precostituite perché nascono da sé. Non ama il superfluo e lo spettacolare, che anzi rifiuta; ma va al sodo. Non si ferma alla superficie, ma cerca i più sottili fili dell’anima. Rifiuta i lenocini e le formule, cerca i motivi che sono dentro ognuno di noi. È, in breve, il film che pone e si pone dei problemi.

Lei ha parlato di film realistici. Che cosa intende per realismo?

Sono un regista di film, non un esteta, e non credo che saprei indicare con assoluta precisione che cosa sia il realismo. Posso dire, però, come io lo sento, qual è l’idea che me ne sono fatta.

Ovvero?

Forse qualcuno potrebbe dire meglio di me. Una maggiore curiosità per gli individui. Un bisogno, che è proprio dell’uomo moderno, di dire le cose come sono, di rendersi conto della realtà direi in modo spietatamente concreto, conforme a quell’interesse, tipicamente contemporaneo, per i risultati statistici e scientifici. Una sincera necessità, anche, di vedere con umiltà gli uomini quali sono, senza ricorrere allo stratagemma di inventare lo straordinario. Una coscienza di ottenere lo straordinario con la ricerca. Un desiderio, infine, di chiarire se stessi e di non ignorare la realtà, qualunque essa sia.

Quindi il realismo è semplicemente una ricerca della realtà?

Il realismo, per me, non è che la forma artistica della verità. Quando la verità è ricostituita, si raggiunge l’espressione.

Ma per raggiungere l’espressione in un’opera filmica, immagino sia necessaria anche una ricerca tecnica, per rendere più efficace ciò che si vuole rappresentare.

Io sono continuamente immerso nella ricerca tecnica, perché cerco –sono un operaio- di crearmi uno strumento il più agile possibile. Cerco sempre di arrivare alla matita. Per arrivare alla matita bisogna liberarsi dagli schemi e dalle necessità produttive, dal capitale.

Ma lei come ha fatto a liberarsi dal “capitale”, ad arrivare alla matita, se ci è riuscito?

La verità vera è questa: che il rito del cinema si celebrava nel tempio che era il teatro di posa. E il teatro di posa era nelle mani del padrone del teatro di posa, il quale per autorizzarti l’ingresso ti faceva pagare quello che voleva lui. E allora, siccome si stava con la mania della fotografia assolutamente perfetta e il panfocus e le cose e le cosine eccetera, io ho rifiutato tutto questo. La cosa per me più importante era di dire le cose che volevo dire.

E come lavora per riuscire ad esprimere ciò che vuole dire?

Come lavoro? Uno sa forse come lavora? Quello che è sicuro è che, quando intraprendo un nuovo film, parto da un’idea senza sapere dove mi condurrà. Ciò che mi interessa nel mondo è l’uomo e questa avventura unica, per ciascuno, della vita. Sono prima di tutto un individualista. Ogni essere è unico nel suo genere, sebbene sembri che tutti si assomiglino…

Dunque è questo punto di vista sull’essere umano che la rende un regista realista?

È perché non ho paura della verità e ho la curiosità dell’essere umano, che faccio la figura di un grande realista.

Fa la figura di un realista o lo è?

Lo sono, sì, se il realismo è abbandonare l’individuo davanti alla macchina da presa e lasciarlo costruire lui stesso la propria storia. Dal primo giorno delle riprese mi metto alle spalle dei miei personaggi e lascio che la cinecamera gli corra dietro.

Quindi non calcola in anticipo quale sarà la resa di una scena nel montaggio finale?

Non calcolo mai, so quello che voglio dire e cerco il mezzo più diretto per dirlo. Inutile rompersi la testa: è sufficiente avere le idee chiare. L’immagine segue automaticamente. Oggi la menzogna, più nel cinema che altrove, circola in maniera straordinaria. Ma la menzogna presuppone la verità.

Perché ritiene che la menzogna circoli meglio al cinema che altrove?

C’è il guaio grosso dell’immagine, la sala al buio, eccetera. È cosi… seducente, e così facilmente scambiabile con un sogno, che diventa un altro modo di rifugio e di evasione. Ma se vogliamo vivere nel contesto dei problemi nostri attuali, che sono, secondo me, proprio la base di tutto, ossia la diffusione della conoscenza, queste cose ce le dobbiamo dimenticare.

La seduzione è anche un’arma che il regista può usare per piacere a tutti, al pubblico come al produttore.

Se uno ha la civetteria di voler avere l’approvazione di tutti, beh, non fa più i suoi discorsi. Ne fa altri. Va ad accontentare il signor Tale o il signor Talaltro, non fa i suoi discorsi. Bisogna saper prendere i rischi e fare i propri discorsi: fatti il più onestamente possibile, in modo il più esauriente possibile. Non è che si può scendere a compromessi, si deve arrivare allo scopo a qualunque costo, a costo delle liti, delle risse, dei cattivi umori, degli insulti e delle blandizie, di tutto quello che vi pare.

Crede che il cinema rischi di diventare sterile perché non osa abbastanza, perché non è sufficientemente onesto?

Credo che tutti i mezzi di diffusione della cultura siano diventati sterili, perché abbiamo completamente abbandonato la ricerca dell’uomo così com’è.

Ovvero?

Abbiamo cominciato a creare uomini stereotipati, surrogati dei sentimenti dell’amore, della morte, del sesso, della morale. Trattiamo falsi problemi, perché viviamo immersi in una civiltà sotto il segno dell’ottimismo. Oggi si mira a porre falsi problemi e si dimenticano i veri problemi dell’uomo.

E quali sono, secondo lei, i veri problemi dell’uomo?

I veri problemi dell’uomo? Prima di tutto bisogna conoscere gli uomini come sono, bisogna cominciare col fare un atto di umiltà profonda e cercare di avvicinarsi agli uomini, di vederli come sono con obiettività, senza idee preconcette, senza dispute morali, almeno all’inizio. L’uomo può essere straordinariamente geniale e proprio in proporzione a questa sua genialità ha la possibilità, come rischio e contrappunto, di fare errori che sono altrettanto grandi delle conquiste che può fare. Questo mi sembra il vero dramma in cui l’uomo si dibatte.

Mi spieghi meglio…

Due sono le tendenze dell’uomo: quella della concretezza e quella della fantasia. Oggi si tende brutalmente a sopprimere la seconda. Il mondo, infatti, si va sempre più dividendo in due gruppi: quelli che vogliono uccidere la fantasia e quelli che vogliono salvarla; quelli che vogliono vivere e quelli che vogliono morire.

E lei in questa divisione come si colloca?

Io cerco di reagire contro la debolezza che rende gli uomini prigionieri volontari –per non dire vittime- per viltà o incoscienza, del loro desiderio di essere in armonia con tutto e tutti. Per idolatria delle regole noi viviamo nel terrore continuo di diventare l’eccezione, perché siamo abituati ad identificare l’uomo di cui si parla con l’uomo di cui si parla male.

Che cosa intende per idolatria delle regole?

È un fatto che gli uomini oggi vogliono essere liberi di credere a una verità che gli viene imposta: non c’è più un uomo che cerchi la sua verità. Questo mi sembra straordinariamente paradossale. È sufficiente dirgli con il dito puntato sul naso: questa è la verità, che lui diventa perfettamente felice. Lo vuol credere, vi segue, è capace di qualsiasi cosa per poter credere a questa verità; ma non ha mai fatto il minimo sforzo per scoprirla.

Mi può fare un esempio concreto di questa tendenza dell’uomo contemporaneo?

L’arte astratta. È diventata l’arte ufficiale. Posso capire un artista astratto, ma non posso capire che l’arte astratta divenga l’arte ufficiale, perché è veramente l’arte meno comprensibile. Questi fenomeni non si producono mai senza ragione.

E qual è la ragione?

È che si cerca di dimenticare il più possibile l’uomo. L’uomo, nella società moderna e nel mondo intero, è diventato l’ingranaggio di una macchina immensa, gigantesca. È diventato uno schiavo. Tutta la storia dell’uomo è fatta di passaggi dalla schiavitù alla libertà. C’è sempre stato un momento in cui la schiavitù ha vinto, e poi la libertà ha ripreso il sopravvento: molto di rado, o per periodi molto brevi, perché appena si era raggiunta la libertà, immediatamente dopo si ricostituiva la schiavitù. Nel mondo moderno si è creata una nuova schiavitù.

Qual è la schiavitù del mondo moderno?

È la schiavitù delle idee. E questo lo si ottiene attraverso tutti i mezzi, che vanno dal romanzo poliziesco alla radio, al cinema eccetera. Grazie anche al fatto che le tecniche si sono estremamente sviluppate e le conoscenze, che si possono avere in maniera approfondita in un campo ristretto, per essere efficaci da un punto di vista sociale, impediscono all’uomo di avere altre conoscenze. Non ricordo più chi diceva: “Viviamo nel secolo dell’invasione verticale dei barbari”, cioè, approfondimento estremo delle conoscenze in una certa direzione ed estrema ignoranza in tutte le altre direzioni.

E questo vale anche per il cinema?

Sono venuto al cinema carico di tutto il mito del cinema. Dal mito del cinema ho cercato di uscire. Da quando faccio il cinema, sento dire che bisogna fare film per un pubblico che ha la mentalità media di un bambino di dodici anni. È un fatto che il cinema (ne parlo in generale — come la radio, la televisione e tutti gli spettacoli che sono dedicati alle masse) ottiene una specie di cretinizzazione degli adulti e, all’opposto, accelera enormemente lo sviluppo dei bambini. È di qui che viene questa mancanza di equilibrio che si constata nel mondo moderno: l’impossibilità di comprendersi.

Ma di solito si dice che per comprendersi bisogna essere disponibili a farlo. Nelle sue affermazioni precedenti, invece, intuisco la necessità di una lotta, di una lotta per portare a una visione più ampia delle cose e dell’uomo…

Bisogna che l’uomo sia nella lotta con una immensa pietà per tutti, per se stesso, per gli altri, con molto amore, ma bisogna rimanere molto fermi nella lotta. Non parto di lotta armata, parlo di lotta del pensiero, e, soprattutto, essere un esempio. Questo è troppo imbarazzante, richiede troppi sforzi… Quando si parla di libertà, la prima cosa che si aggiunge è “la libertà sì, ma in certi limiti”. No, si rifiuta la stessa libertà astratta, perché è un sogno che sarebbe troppo bello.

E come si raggiunge questa libertà?

Uno si libera poco alla volta. Si libera poco alla volta, perché la ragione si matura poco alla volta. Ora, un’altra delle cose che mi preoccupa in modo fondamentale è l’onestà, cioè di non essere suggestivo, quindi di spogliare l’immagine di tutti i possibili ingredienti di suggestione, per rimanere alle cose.

Ma questo, se era insolito nel cinema del dopoguerra, sarebbe ancora più insolito oggi, che ci siamo abituati a un cinema di effetti speciali…

Uscire dalle abitudini è un’azione sempre estremamente drammatica. Non ci si libera facilmente; non ci si libera perché c’è la suggestione, perché c’è il timore, o perché c’è la civetteria di voler rimanere legati a degli schemi esistenti. È proprio perché non si sa. E allora non c’è che una maniera: di fare per scoprire.

È questo il suo metodo, fare per scoprire?

Quello che mi interessa è di essere il più sincero possibile, il più coerente possibile con me stesso: questo è il punto. Questo è il punto importante: andare sempre oltre.

(Da Inkroci)

Scrittore e sceneggiatore, insegna scrittura creativa dal 1999. È tra gli organizzatori e presentatori della rassegna letteraria itinerante "Libri in Movimento" ed è direttore editoriale della rivista letteraria "Inkroci". Ha collaborato con la casa editrice Tranchida dal 2007 al 2009 come docente di Scuola Forrester e come membro del CdA e redattore del comitato editoriale, nonché come autore sulle riviste telematiche “Gluck59” e “Tenekè”. Ha collaborato come autore di novelle con gli editori Mondadori e GVE e pubblica racconti, articoli, recensioni e poesie con diverse riviste telematiche. Ha partecipato come poeta alla VII Edizione della Carovana dei Versi nel 2012-2013, e sue opere sono state pubblicate nel 2013 all’interno dell’antologia edita dalla Casa Editrice Abrigliasciolta di Varese. Ha tenuto corsi di scrittura e di sceneggiatura presso la libreria Egea dell’Università Bocconi di Milano, presso l’I.I.S. A. Lunardi di Brescia, in svariate biblioteche e associazioni del comprensorio bresciano e in alcune scuole svizzere. Un film per cui ha scritto la sceneggiatura è stato opzionato due volte e ha collaborato come sceneggiatore a una produzione internazionale (“Haiti Voodoo”, 2011). In un lontano passato ha suonato in svariati gruppi musicali e ha collaborato a numerosi cortometraggi. Attualmente vive e lavora a Brescia. Dal 2002 è Presidente di Magnoliaitalia e dal 2013 è docente e direttore della Bottega della Scrittura di Brescia, scuola professionale per scrittori.

Scrivi un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.I campi obbligatori sono evidenziati con *

Dichiaro di aver letto l'Informativa Privacy resa ai sensi del D.lgs 196/2003 e del GDPR 679/2016 e acconsento al trattamento dei miei dati personali per le finalità espresse nella stessa e di avere almeno 16 anni. Tutti i dati saranno trattati con riservatezza e non divulgati a terzi. Potrò revocare il mio consenso in qualsiasi momento, integralmente o parzialmente, con effetto futuro, ed esercitare i miei diritti mediante notifica a info@giornalepop.it

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>

*