INTERVISTA A GASTALDI CON 16 SEQUENZE

Immagine non disponibile

Nato nel 1934 a Graglia (in provincia di Biella), Ernesto Gastaldi, tra il 1960 e il 1980, ha lavorato a oltre cento film diventando uno tra i più importanti sceneggiatori del genere giallo e del noir. Inoltre, Gastaldi è stato regista e scrittore. Ernesto Gastaldi, come si è avvicinato al mondo della scrittura cinematografica?Pensavo di fare lo scrittore e scrivere per il cinema mi parve l’unica strada per cominciare a scrivere senza morire di fame. Nei primi anni sessanta ha scritto due film del terrore, “Licanthropus” (1961) di Heusch e “L’orribile segreto del Dr. Hichcock” (1962) di Freda. Ce ne può parlare?“Licanthropus” è stato forse il primo vero copione professionale, nel senso che ero diventato un professionista. Avevo fatto scuola e negritudine sotto Ugo Guerra e ora ero pronto per il “mestiere”. Quel film segnò anche il mio incontro con Alan Collins, ossia l’attore Pigozzi, che anni dopo avrei utilizzato in alcuni dei miei film. Per “L’orribile segreto”, invece, ormai navigavo da solo e scrivevo senza protezione. Mi chiamarono i produttori Donati e Carpentieri: volevano un giallo horror con qualcosa di nuovo, scrissi un soggetto che si intitolava “Spectarls” sulla necrofilia. Ai due produttori piacque e mi fecero scrivere la sceneggiatura. A copione finito e pagato, chiamarono Riccardo Freda, offrendogli la regia: “Non sappiamo se te la senti… sai, è un argomento delicato… necrofilia”. Riccardo fece spallucce, prese il copione e confessò:“Sto con Gianna Maria Canale che mi costa un frego di soldi. Giro anche le pagine gialle…”. Adesso è normale leggere articoli dei critici che analizzano il travaglio artistico di Freda per approdare a quel film diventato un cult. Ernesto Gastaldi “Marte dio della guerra” (1962) di Marcello Baldi, è un fantasy-mitologico?Forse, ma quando lo scrissi non potevo definirlo così. Ugo Guerra mi aveva portato da Pugliese, un suo amico produttore, perché lo salvassi da un grave imbarazzo: aveva preso dei soldi di acconto sostenendo di avere avuto un’idea clamorosa, nuova, oltre i soliti film mitologici di Ercole, Maciste eccetera che andavano allora. C’era solo un dettaglio: non aveva avuto nessuna idea. Pugliese ardeva per sapere e Ugo mi lanciava occhiate disperate. Nel mio cervello balenò un meme seminvolontario:“Tu guarda in che casino s’è messo Guerra. Mo’ manco Dio… manco dio… Guerra?”. Sorrisi ai produttori e annunciai che avevamo pensato a“Marte il dio della guerra”. Ugo prese la palla al balzo con l’eleganza che lo distingueva e firmammo quel giorno stesso il contratto. Sulla sua attività come regista vorrei fare chiarezza. A me risulta che lei ha diretto quattro film da solo: “Cin… cin… cianuro” (1968), “La lunga spiaggia fredda” (1971), “La fine dell’eternità” (1984) e “L’uovo del cuculo” (1992). E due insieme a Vittorio Salerno: “Libido” (1965) e “Notturno con grida” (1981). È così?Sì. “Notturno con grida” è una specie di seguito di “Libido”. Gastaldi, com’è nata la collaborazione con Vittorio Salerno, fratello del grande attore Enrico Maria?Un amico mi presentò un ragazzino con i capelli rossi e i baffetti, Vittorio, fratello del famoso attore. Voleva fare un film, “L’abete”, in cui si raccontava del portiere di un palazzo che conservava l’albero di Natale e questo cresceva, cresceva… così il portiere comincia a chiedere il permesso agli inquilini di bucare i pavimenti… Scrivemmo anche un primo tempo. Poi passammo a un progetto di fantascienza, parola allora sconosciuta nel cinema. Avremmo dovuto fare “La fine dell’eternità” (stesso titolo ma altra storia rispetto a quello che poi feci da solo), che era né più né meno che “Ritorno al futuro” italiano 30 anni prima… Ricordo una battuta su Sofia Loren. Il protagonista, tornando nei primi anni del dopoguerra, annuncia che la sorella di Sofia, povera e stracciata, avrebbe sposato il figlio del duce sollevando l’ilarità generale, ma continuava sostenendo che la notizia avrebbe fatto il giro del mondo non per il figlio del duce, ma perché quella stracciona era sorella di quell’altra che si chiamava Sofia. Ovviamente i distributori italiani non capivano di che stessi parlando se dicevo “viaggi nel tempo” e così dovemmo ripiegare su un gialletto che intitolammo “Libido”. Poiché nacque per una scommessa tra Luciano Martino e Mino Loy, avevo a disposizione una decina di milioni e allora cercai di coinvolgere l’attore Enrico Maria Salerno offrendo al fratello Vittorio la co-regia. Non avevo calcolato la perfidia che può esistere tra fratelli… Enrico promise ma non mantenne, però io mi tenni Vittorio. Quale dei suoi film come regista le sembra riuscito meglio?Nessuno. Ho sempre girato senza soldi, più che altro per mantenere fede a una promessa fatta a mia moglie, l’attrice Mara Maryl: “Tu non reciterai se non in film diretti da me e io non dirigerò film se non interpretati da te”. Nel 1963 ha scritto “Perseo l’invincibile” e “La frusta e il corpo”, diretti da due tra i nostri migliori uomini di cinema, Alberto De Martino e Mario Bava. Che ricordo ha di questi lavori e di questi registi?Del primo regista, niente. Del secondo invece sì. Bava era un grandissimo operatore, con gli attori se la cavava un po’ meno bene, ma era accettabile. Quella di “La cripta e l’incubo”, del 1964, è una tra le sue sceneggiature più apprezzate. Com’è nata l’idea?Un giorno io eTonino Valeriivenimmo chiamati da un produttore che cercava un giallo del terrore già pronto. Noi non ce l’avevamo ma dicemmo di averlo. Il produttore ci fissò un appuntamento per l’indomani mattina: dovevamo portare il copione che non esisteva. Così passammo la notte a scriverlo in terrazzo (faceva caldo) con Mara che ci portava batterie di caffè. Spiegare come nascono le idee è impossibile. Vengono. In molte delle sue sceneggiature c’è una componente di sensualità abbastanza spiccata, basta pensare a “Libido” o a “Anna, quel particolare piacere”. Si è sempre trattato di una sua scelta o era dettata dallo spirito dell’epoca?Dire oggi che quella sensualità era “spiccata” mi pare un azzardo. In “Libido” si trattava della storia di due lesbiche e la scena più “sensuale” è un buffetto che Dominique Boschero dà a Mara Maryl… Nei film prodotti da Luciano Martino invece la sensualità era richiesta dal produttore che giungeva a far fare tre o quattro docce all’attrice se era bella. Le nudità erano permesse solo sotto la doccia… In alcune filmografie risulta che avrebbe collaborato, non accreditato, alla sceneggiatura di due film importanti come “La decima vittima” (1965) di Elio Petri e “C’era una volta in America” (1984) di Sergio Leone. Cosa può dirci in merito?Due storie diversissime. La prima fu l’inizio della mia amicizia con Carlo Ponti e fu divertente perché passai, davanti ai famosi sceneggiatori italiani che avevano scritto la prima versione, per un “grande sceneggiatore americano esperto di science fiction”… Naturalmente dico “passai” nel senso che Carlo mi fece passare per tale senza mai mostrarmi agli italiani. All’inizio, presentato dalla grande organizzatrice dei film di Ponti, Jone Tuzi, che aveva letto e apprezzato moltissimo “La fine dell’eternità”, Carlo mi aveva chiesto di correggere la prima versione dello script che non gli piaceva e di mettere fogli azzurri là dove avessi corretto. Una settimana dopo gli portai un copione azzurro, l’unico foglio bianco era il titolo! A Ponti piacque la mia versione e così diventammo amici e facemmo parecchi film insieme. “C’era una volta in America”, invece, era il seguito di una collaborazione biennale (mattina, pomeriggio, sera) con Sergio Leone. Dopo “Il mio nome è Nessuno” (il maggior incasso western di Leone, diretto però da Valerii) e “The Genius”, uno splendido script rovinato in perfetta malafede da Damiano Damiani, iniziai a lavorare con Sergio al romanzo “A Mano Armata” per trarne un film. Scrissi un trattamento dovenonc’era la fregnaccia mostruosa del gangster che diventa senatore facendo ridere il pubblico statunitense. Su questo potete documentarvi leggendo il libro di Christopher Frayling “Something to do with Death” oppure quello di Garofalo, “Tutto il cinema di Sergio Leone” della Baldini e Castoldi. Sergio era un assolutista: pretendeva che io lavorassi solo per lui, e io rifiutai. Gastaldi, lei per Antonio Margheriti ha scritto due horror, “La vergine di Norimberga” del 1963 e “I lunghi capelli della morte” del 1965.Del primo non ricordo nulla, forse anche qui non scrissi il copione vero e proprio ma solo un soggetto e una scaletta. Mi ricordo del secondo, ma non andai mai sul set. Con Antonio eravamo amici dai tempi de “I Giganti di Roma”, ma di solito non andavo sul set dei film che giravano dalle mie storie. Un film curioso è “La lama nel corpo” del 1966. Ma è stato diretto da Elio Scardamaglia o da Lionello De Felice?Lo ha diretto Lionello De Felice ma poi il montaggio venne seguito da Elio Scardamaglia. Erano sorti dei problemi, a Elio non piacevano certe sequenze. Insomma, litigarono un po’. Nel 1966 esordisce dietro la macchina da presa con “Libido”. Si trattava di un giallo-erotico?L’ho girato nell’aprile del 1965. Non era un giallo erotico nel senso moderno. Era un gialletto e basta, però con due belle donne in scena. Segnò il debutto di Giancarlo Giannini. Fu un film girato con un budget minimo e che poi usai come tesi di laurea nella facoltà di Economia di Roma, dimostrando che era possibile anche per un’impresa di prototipi com’è il cinema impostare calcoli di redditività preventivi che avessero una base logica. Con “Il dolce corpo di Deborah” di Romolo Guerrieri, scritto nel 1968, ha inizio il periodo dei thriller e sensuali. Giusto?Furono i primi gialli italiani di grandissimo successo di pubblico. Ben prima di Argento. Lei ha scritto tanti gialli, mettendo al centro della narrazione le donne e avendo come motore della vicenda l’indagine. Ama gli investigatori?Amo la logica degli investigatori. Aborro la gratuità. Risi come un matto nel vedere “L’uccello dalle piume di cristallo”, bel film per altri versi, quando alla fine il protagonista che per tutta la storia ha lamentato di non ricordarsi un dettaglio relativo al tentato omicidio di cui è stato testimone, se ne esce con l’esclamazione“Oooh! Non era lui che cercava di uccidere lei, ma era lei che cercava di uccidere lui”. Allo stesso modo ho insultato Sergio Leone quando ho visto il gangster diventare senatore nel suo ultimo bellissimo film. E veniamo al suo secondo film come regista, “Cin… cin… cianuro” del 1968. Ce ne può parlare?Ma sì. Sull’onda del successo commerciale di “Libido” mi sono allargato. Una commedia che avrebbe richiesto già allora 300 milioni di budget, ma girata con 80. Soffre di un montaggio lento, non incalzante. Nel 1969 ha scritto “Così dolce… così perversa” diUmberto Lenzi, con cui poi ha collaborato anche per alcuni polizieschi-noir come “Milano odia: la polizia non può sparare” del 1974 e “Il cinico, l’infame, il violento” del 1976. Che rapporto ha avuto con lui?È stato un mio compagno di Centro Sperimentale. Allora era un toscano aperto, divertente, dalla battuta facile. Con il passare del tempo è divenuto nevrastenico e impossibile a trattare. Per fortuna io prima scrivo i copioni e poi i produttori chiamano i registi per girarli. Un’altra figura leggendaria del cinema italiano èTomas Milian. L’ha conosciuto?Sì, era un bel ragazzo con il complesso di essere brutto. Non so perché, voleva sempre recitare personaggi lerci e sporchi. Mi diede un suo soggetto da leggere, “La maga e l’ovo”, dove lui era un barbone che viveva nella merda delle galline. Sempre nel 1969 ha diretto “La lunga spiaggia fredda”.Non nel 1969, il film l’ho girato tra febbraio e marzo del 1971. La spiaggia era fredda davvero… Ernesto Gastaldi, nel 1970 ha inizio il suo lungo sodalizio artistico con Sergio Martino. Il primo film che scrive per lui è il western “Arizona si scatenò e li fece fuori tutti”, che riprende il personaggio di Arizona Colt già protagonista nel 1966 del film omonimo di Michele Lupo. Tra l’altro lei di western ne ha sceneggiati parecchi. Le piaceva il genere?Conobbi Luciano Martino nel 1957, quando anche faceva lo sceneggiatore. Lavorammo poi insieme per Ugo Guerra dal 1959 al 1963. Poi si fece anticipare 30 milioni dal padre, che era direttore della Banca Commerciale Italia, e iniziò la sua fortunata carriera di produttore. Il primo film glielo scrissi io, era “I Giganti di Roma” diretto da Antonio Margheriti. Era il 1964. Poi vennero i film di spionaggio. Il primo, nel 1965, fu “Le Spie Uccidono a Beirut”. Poi “Sfida ai killer”, “Duello nel Mondo”, “Flashman” e “Furia a Marrakech”. Il primo western per Martino mi pare che fu “10mila dollari per un massacro”, del 1967. Il genere western mi divertiva. Una favola per adulti con tutti i sentimenti umani in bella mostra, senza troppe sfumature. Nel 1970 ha scritto “Le foto proibite di una signora per bene” del produttore-regista Luciano Ercoli. Ci può raccontare di cosa si trattava?Sì, era un copione che avrei dovuto girare io con mia moglie come protagonista, ma Ercoli e Pugliese avevano urgenza di iniziare un film perché attraversavano un brutto periodo finanziario e una nuova produzione li avrebbe aiutati. Il copione si chiamava “Venere più’”. Lo lessero, lo vollero e lo girarono in un mese. Gli risolse la situazione con un ottimo incasso. “La coda dello scorpione” è il primo thriller scritto per Sergio Martino, e allo stesso anno appartengono “Lo strano vizio della signora Wardh” dello stesso Martino e “La morte cammina con i tacchi alti” di Ercoli.Il 1971 fu una buona annata. In giro per il pianeta ci sono diverse persone che ancora li considerano belli… soprattutto(unbelievable!)in Usa! “Tutti i colori del buio” (1972) all’inizio sembra un film soprannaturale, poi prende una piega gialla e “umana”. La capacità di far procedere la storia mantenendo una certa ambiguità è una delle sue grandi qualità. Sbaglio?È un film con maggiori pretese degli altri. Mi ricordo che alla prima mi lasciò perplesso. Belle sequenze, ma non mi parve riuscito. Uno dei miei film preferiti è “Perché quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer?” (1972). Non solo per la sua sceneggiatura, piena di idee, ma anche perché mi sembra che Giuliano Carnimeo abbia fatto un ottimo lavoro. È d’accordo?Ricordo che il film mi piacque e feci i complimenti a Giuliano, ma non ho più rivisto il film da allora! Bisogna che uno di questi giorni trovi il tempo per ridare un’occhiata a questi gialletti… L’attrice simbolo di quel periodo, e di quella cinematografia, è senza dubbioEdwige Fenech. Avendo scritto molti film interpretati dalla Fenech, immagino che avrà avuto modo di conoscerla.Certo: buongiorno e buonasera. Non abbiamo mai familiarizzato, anche se per tanti anni è stata la convivente del mio amico Luciano Martino. Nel 1973 esordisce nel poliziottesco con “Milano trema: la polizia vuole giustizia” di Sergio Martino. Che rapporto ha avuto con questo genere, allora molto in voga e oggi rivalutato?Questo film mi piacque molto. Prima e migliore regia di Sergio Martino, a mio modesto parere. Copione nato in piena libertà. Luciano mi disse di scrivere una storia di azione. Ne venne fuori un film molto politico (si era negli anni della contestazione giovanile), ma Lombardo (Titanus), che doveva distribuirlo, si spaventò e mi chiese di annacquare un po’ questo lato della storia. Obbedii ma Lombardo si tirò indietro lo stesso. Martino decise di produrlo a suo rischio e pericolo e mi chiese di rinunciare alla paga in cambio di una percentuale sugli incassi. Accettai, e Martino ancora si rammarica… furono incassi strepitosi per l’epoca! Ancora al 1973 appartiene un’altra delle sceneggiature scritte per Martino: “I corpi presentano tracce di violenza carnale”.Anche questo film l’ho rivisto. Me ne ha mandato una copia un giornalista di Chicago, pare abbiano fatto un Dvd. È diventato un film cult, eppure lo trovo sciatto e mal recitato: solo la sequenza finale è valida. Due film che non conosco sono “La pupa del gangster” di Capitani e “L’uomo senza memoria” di Tessari, entrambi del 1974.“La pupa del gangster” è tratto da un racconto americano. Una commedia. L’avevo scritta per Monica Vitti, ma Sofia lo lesse e se ne innamorò. Lo volle fare lei e lo soffiò all’incazzatissima Vitti. Così lo produsse Carlo Ponti. Un film divertente con un buon Mastroianni e un Maccione scatenato. Regia di Duccio Tessari, “L’uomo senza memoria”… bah, sono senza memoria anch’io! Credo di aver scritto solo un trattamento. Duccio era uno che cambiava molto i copioni. Tra il 1974 e il 1975 per Sergio Martino scrive “La città gioca d’azzardo” e “Morte sospetta di una minorenne”. Il primo è un nero, il secondo un poliziesco-thriller. Entrambi sono violenti e movimentati, ma hanno anche dei risvolti umoristici. Era una scelta sua o di Martino?Mia. Mi sono sempre divertito a infilare piccoli risvolti divertenti un po’ in tutte le storie. Mi piace ricordare nel primo film di Sergio Martino personaggi come Munsù Merda. Quando scrivevo “Concorde affaire”, Luciano Martino mi continuava a dire che l’intreccio era troppo complicato e che il pubblico avrebbe faticato a seguire, allora aggiunsi una scena in cui c’era un dirigente che chiamai Martinez, a cui spiegavo i risvolti dell’intreccio concludendo: “Ma, insomma, Martinez, tu non capisci mai un cazzo…”. Ci ridiamo ancora sopra. Ernesto Gastaldi, in “Morte sospetta di una minorenne” ci sono riferimenti al terrorismo e ai poteri forti. In effetti quei film riuscivano a raccontare storie terribili e di cronaca insieme al clima politico e sociale di quegli anni, rimanendo prodotti estremamente spettacolari e avvincenti.Sì, ci ho sempre provato. Nel 1975 ha scritto un film per Vittorio Salerno, “Fango bollente”, che non conosco. Di cosa si tratta?Vittorio aveva ancora aspirazioni artistiche. Così gli scrissi un film sociologico che si intitolava “I primi tre cominciano a mordere”, prendendo lo spunto dall’affollamento delle nostre metropoli che spinge alla violenza. Il film non è male, peccato che quel somaro di Lombardo gli abbia messo un titolo “infangante”… Sempre al 1975 risale la sua unica collaborazione con un regista molto particolare, uno dei più personali e controversi del nostro cinema, Fernando Di Leo. Per lui ha sceneggiato “La città è sconvolta: caccia spietata ai rapitori”.Nessuna collaborazione. Io ho scritto il copione, lui l’ha diretto. Non ci siamo mai incontrati. Quando in Italia esisteva il cinema si giravano circa 300 film all’anno, ossia partiva un film ogni giorno. Non c’era tanto tempo per le discussioni. L’idea di “Il fiume del grande caimano”, diretto nel 1979 da Sergio Martino, è stata sua? C’entra qualcosa il fatto che un anno prima aveva riscosso un buon successo “Piraña” di Joe Dante?No, l’idea fu di Sergio o di Luciano, non ricordo. È probabile che i successi di film similari li abbiano ispirati. Succedeva con allarmante frequenza.