IL CINEMA DI GENERE È TROPPO RIVALUTATO?

Recentemente, lo studioso e saggista cinematograficoAdriano Apràha polemizzato con l’eccessiva rivalutazione del cinema di genere italiano. Adriano Aprà Lo possiamo ascoltare per esempio inun’intervistafattagli durante l’ultima edizione della Mostra del Cinema di Pesaro. Della sua stessa opinione è il regista Pasquale Misuraca, che su Aprà ha girato un documentario. Aprà non ha tutti i torti, specialmente quando sostiene che il cinema di genere verrebbe proposto“come modello del futuro del cinema italiano”. In effetti abbiamo potuto assistere negli ultimi anni ad alcuni tentativi di realizzare film di genere (horror, thriller, ma anche comici, che è pur sempre un genere), non andati a buon fine. Lasciando perdere il discorso qualitativo, spesso non ottengono nemmeno grandi risultati al botteghino e, soprattutto, risultano purtroppo sterili, poiché incidono poco nell’immaginario del pubblico. Che è poi ciò che un buon film di genere dovrebbe, almeno, fare. Si veda ad esempio il recente e non proprio esaltanteCopperman, uscito nei primi mesi del 2019 e diretto da Eros Puglielli. Le parole di Aprà sono state accolte con scarso discernimento e con fin troppo livore da chi si è sentito chiamato in causa. Eppure non è difficile capire che una riflessione di questa portata va letta per ciò che sottintende. Vale a dire che l’eccesso di rivalutazione a cui ormai stiamo assistendo da anni può fare, e ha fatto, danni a cui ormai è difficile porre rimedio. Inutile girarci intorno. Non è una questione di “gusti”, né di critica alta contrapposta alla critica bassa: esiste un criterio oggettivo da applicare alla valutazione di un’opera cinematografica, come esiste per l’arte, per la letteratura, la musica e per ogni altra forma espressiva. Ma anche nello sport è così. Se un calciatore sbaglia un passaggio, non è una questione di gusti. Ha sbagliato il passaggio, punto. Sottesa alle parole di Aprà vi è l’amara constatazione che un certo limite è stato superato, una constatazione che inchioda ognuno alle proprie responsabilità. Il cinema (non solo quello italiano) è diventato quello che è diventato perché si è superato un certo limite. Oltre il quale anche un film come, poniamo,Martyrs(2008), diretto da Pascal Laugier, può essere considerato un capolavoro. Ovviamente non si tratta di condannare a posteriori ogni riscoperta, sarebbe paradossale, quasi la ritorsione della ritorsione. Tanto per dire, fu sacrosanta quella francese e pionieristica di Mario Bava. E anche su Fulci, va precisato, arrivarono per primi i critici d’oltralpe, nei postmoderni anni ottanta. Ma nemmeno Bava si sarebbe mai sognato di considerare il proprio cinema superiore a quello di Roberto Rossellini. Si può amare il cinema di genere quanto si vuole, si può pure pasteggiare a pane e horror, ma sarebbe sintomo di pura miopia ritenere un qualsiasi film di Bava superiore aGermania anno zero(1948). Va tuttavia sottolineato che il tarlo della riscoperta di autori poco considerati o marginali contraddistingue probabilmente ogni appassionato di cinema e non è certo una pratica ascrivibile soltanto agli ultimi decenni. Lo fece un’autorevole rivista come i “Cahiers du Cinema” e lo stesso Aprà, agli inizi degli anni sessanta, fu uno dei primi studiosi italiani a intervistare Nicholas Ray, che allora in Italia non godeva di grande attenzione critica. Caso vuole che Ray, come quasi tutti i registi americani, girasse film di genere (western, noir, gangster-movie). Per esempioIl temerario(The Lusty Man), del 1952. A proposito di rivalutazioni e riscoperte, la posizione più saggia sull’argomento la dobbiamo a Claudio Carabba, che nel 1984, in occasione di una rassegna organizzata dal Mystfest di Cattolica comprendente cinque film di Lucio Fulci (quando ancora molti fulciani dell’ultima ora non erano ancora nati o non sapevano nemmeno chi fosse) scrisse:“Non si tratta di rivalutare per partito preso, ma di vedere o rivedere con un minimo di scrupolo e di buona fede”. L’aspetto grottesco, in tutto ciò, è che a distanza di più di trent’anni risulta al contrario arduo convincere un ultras del cinema di genere e dei b-movies a guardare,“con un minimo di scrupolo”, un film comeL’anno scorso a Marienbad, diretto da Alain Resnais e scritto da Alain Robbe-Grillet. Spiegandogli magari che era tra i preferiti di Sam Peckinpah (a cui tanto cinema di genere italiano deve parecchio) e che Robbe-Grillet ha influenzato Dario Argento più di quanto si pensi. Nessuno ha la verità in tasca, ma può darsi che essa abbia a che vedere con la linea sottile che separa il cinema d’autore (ma sì, recuperiamo questa definizione) dal cinema di genere. Tanto sottile che da sempre anche i grandi autori frequentano i generi (da Kubrick a Polanski, da Coppola a Godard). Tanto sottile che uno dei film mai girati da Michelangelo Antonioni è quelSotto il vestito niente, poi realizzato nel 1985 daCarlo Vanzina. Forse certe questioni si risolverebbero provando a elaborare le esperienze cinematografiche come fece Enzo Ungari nel suo libro “Schermo delle mie brame” (dedicato a Gianni Amico e guarda caso proprio ad Adriano Aprà), con la divisione in sezioni intitolate “Primi amori”, “Amori folli” e “Amori perversi”. Senza voler negare una obiettiva consapevolezza delle gerarchie, ma concedendosi la libertà di“abbandonare per una volta gli autori che non possono sbagliare e avventurarsi in terreno minato”. Poiché l’unica difesa che si può opporre al sacrosanto ragionamento di Aprà è che il piacere della visione cinematografica non sempre riesce a essere razionale. Perciò se un film di cinema italiano di genere, di serie b comeAfrica Express(diretto da Michele Lupo nel 1976) resta sedimentato nella memoria è proprio perché era, resta e sarà sempre (orgogliosamente) di serie b. E forse sarebbe meglio lasciare che resti di serie b. Si può concludere formulando un’ipotesi. L’avversione che la critica, ma anche molti degli stessi cineasti, nutriva ai tempi per il cinema di genere (considerato dozzinale) era probabilmente stimolante per i registi che, messi ai margini, davano il massimo per dimostrare le loro qualità. Mentre oggi, al contrario, gli elogi e le attenzioni eccessive fanno sì che anche autori di fama e di (a volte presunto) talento si rivolgano con assiduità alle produzioni di genere ma, in molti casi, realizzando opere supponenti, poco gradevoli e prive di mordente. Come nel caso dell’ultimo film di Jim Jarmusch,I morti non muoiono(Dead don’t Die, 2019), ennesima e fiacca riproposizione della figura del morto vivente.