I FILM POLITICI DEGLI ANNI SETTANTA

Negli anni settanta si diceva che“il privato è politico”, quindi non deve certo stupire se in quel periodo furono girati precchi film politici. L’Enciclopedia Treccanispiega che questo tipo di cinema racconta e analizza la condizione umana di fronte al potere e che si oppone alle verità imposte dalla “storia ufficiale”, offrendo, grazie alla forza stessa del suo linguaggio, altri e inediti punti di vista, altre modalità di narrazione e di rappresentazione del reale. I film politici sono stati definiti anche cinema di impegno civile o di denuncia, o ancora cinema militante, a rimarcarne la stretta vicinanza alle rivolte politiche della fine degli anni sessanta. Con la politicizzazione sempre più spinta della società italiana si formò un pubblico di orientamento progressista che chiedeva un maggior impegno sociale ai mezzi di comunicazione. Una serie di registi rispose a questo bisogno realizzando film spesso ispirati all’attualità e, approfittando anche di un indebolimento della censura, presero apertamente posizione su problematiche fino ad allora non considerate. Per la prima volta il cinema denunciò l‘alienazione del lavoro alla catena di montaggio, la questione giudiziaria, il problema carcerario, le contraddizioni dei sindacati, le ambiguità dell’informazione, rivisitando la realtà italiana di quegli anni in chiave estremamente critica. Lo stile dei film politici fondeva spesso un ritmo ispirato alla tradizione del poliziesco statunitense con modalità tipiche del documentario. Il genere andò a concludersi dopo la metà degli anni settanta, quando la spinta contestataria cominciò a perdere vigore. Avete facce di figli di papà / Vi odio come odio i vostri papà / Buona razza non mente.Avete lo stesso occhio cattivo / Siete pavidi, incerti, disperati / (benissimo!) ma sapete anche come essere / prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: / prerogative piccolo-borghesi, cari. Con questa poesia, scritta subito dopo gli scontri tra studenti e forze dell’ordine a Valle Giulia (una zona centrale di Roma) avvenuti il 1 marzo 1968, Pier Paolo Pasolini “smascherava” la contestazione giovanile mostrandola per ciò che essa realmente era: un giocattolo nelle mani dei figli della borghesia.ConLettera aperta ad un giornale della sera(all’epoca uscivano quotidiani anche nel tardo pomeriggio), il registaFrancesco Masellicompie un’operazione analoga nei confrontidella famigerata intellighenzia di sinistra. Un gruppo di intellettuali romani vicini al Partito comunista italiano, un po’ per combattere la noia e un po’ per placare la propria coscienza, scrivono una lettera a un quotidiano in cui si dichiarano pronti a partire volontari a combattere per il Vietnam contro gli americani. La missiva desta un enorme scalpore e quegli uomini si vedono costretti a rispettare l’impegno. Fortunatamente poco prima della partenza arriva la notizia che il governo di Hanoi non accetta volontari stranieri. Maselli dipinge questi intellettuali come tipi fatui e inconcludenti, perennemente impegnati in lunghe discussioni estenuanti e inconsistenti, molto più avvezzi alle lenzuola e alle mutande femminili che alla falce e martello. È la storia di Lulù Massa, operaio stakanovista odiato dai colleghi, che perso un dito per un incidente di lavoro scopre all’improvviso di possedere una coscienza di classe. Questa è in assoluto una delle prime pellicole italiane ambientate all’interno di una fabbrica e incentrate sulla condizione operaia nel nostro paese. “Innanzi tutto bisogna dire che noi di sinistra, effettivamente, non sapevamo un cazzo della fabbrica, o meglio, ci sfuggiva la vita degli uomini dentro la fabbrica, della catena di montaggio, della vita, dei ritmi di lavoro e dei loro ragionamenti. In effetti, chi c’era mai stato dentro una fabbrica?”, ricorda lo sceneggiatore Ugo Pirro.“Pure il titolo l’ho inventato io e ti dico anche da dove l’ho preso, da un dramma teatrale dell’epoca della rivoluzione russa che s’intitolaL’armata rossa va in paradiso”. Il registaElio Petrifirma un capolavoro sulla alienazione del lavoro alla catena di montaggio che inevitabilmente riprende e aggiorna le suggestioni del chaplinianoTempi moderni, calandolo alla perfezione nell‘atmosfera grigia e disgregata degli anni settanta. Riuscitissima pellicola diNanni Loyche riesce a coniugare le esigenze del cinema di intrattenimento con quelle del cinema di denuncia sociale, raggiungendo un equilibrio narrativo raro a vedersi. Il film deve molto all‘interprete principale, un Alberto Sordi in stato di grazia che dà vita a un personaggio di profonda umanità con il quale viene naturale immedesimarsi e partecipare alle vicende narrate. Ispirato all’inchiesta televisivaVerso il carceredi Emilio Sanna, il film denuncia, attraverso le disavventure di un cittadino qualunque, gli eterni mali del sistema giudiziario e di quello carcerario. La giustizia italiana è un sistema lento, arretrato, dominato da una burocrazia incomprensibile e il carcere è tutto fuorché uno strumento per la riabilitazione dell’individuo. Il film, che può essere considerato a tutti gli effetti uno dei miglioriprison movieitaliani, trova la sua grandezza nel clima da teatro dell’assurdo che riesce a mettere in scena, che trova nel Kafka delProcessoe nel Buzzati diSette pianidue ovvie fonti letterarie di ispirazione. Pellicola premonitrice dove il registaLuciano Salcemette in scena, con i toni della commedia, un cinico apologo sull’incapacità delle organizzazioni sindacali di combattere per quello che davvero sta a cuore agli operai, dipingendole come istituzioni autoreferenziali ormai lontane dagli effettivi bisogni. Saverio (Lando Buzzanca) è un dipendente di un’azienda di elettrodomestici. Decide di dedicarsi alla causa sindacale sostenuto da un buon numero di colleghi, ma sarà tutto inutile perché alla fine la fabbrica verrà venduta. Meno riuscito diDetenuto in attesa di giudizionel tentativo di accoppiare le esigenze di cassetta a quelle della denuncia sociale principalmente per il fatto che Buzzanca non è Sordi, mancandogli i diversi registri espressivi dell‘attore romano. Questo notevole film diMarco Bellocchioinizia con un documentario d’epoca in cui in una Milano ombrosa, un giovane e determinato Ignazio La Russa, con alle spalle il Castello Sforzesco, arringa il popolo dell’estremadestra contro la minaccia del comunismo. La pellicola si concentra sul problema della manipolazione dell’informazione per fini politici. All’epoca si dava per scontato che l’informazione “ufficiale” fosse asservita agli interessi politici ed economici, e fosse pertanto una forma di disinformazione. Si riteneva quindi indispensabile che il movimento della contestazione si assumesse l’onere di intraprendere un’opera di “controinformazione”, smantellando i depistaggi e le omissioni della stampa ufficiale. Maltrattato dalla critica di allora, che imputava al film un ostinato schematismo ideologico che finiva per frenare lo sviluppo dei personaggi, questa pellicola ci appare oggi uno esempio di particolare rigore espressivo, dominata in lungo e in largo dalla presenza carismatica dell‘attore feticcio di quegli anni: un Gian Maria Volontè al massimo della forma nella parte di eroe negativo.