HITCHCOCK E LYNCH, LA DONNA CHE VISSE A MULHOLLAND DRIVE

HITCHCOCK E LYNCH, LA DONNA CHE VISSE A MULHOLLAND DRIVE

Nella mia personale top ten tra i capolavori cinematografici di tutti tempi figurano La donna che visse due volte (Vertigo, 1958), di Alfred Hitchcock, e Mulholland Drive (2001) di David Lynch. Due opere distanti nel tempo ma che rimandano, pur nelle differenze stilistiche e narrative, ad alcune tematiche e figure affini.

Entrambe le pellicole sono suddivise in due parti. Si tratta di sezioni ben distinte, attraversate da una netta cesura. Abbiamo un prima e un dopo, nel caso de La donna che visse due volte, e un altrove e un “reale” nel caso di Mulholland Drive.

I protagonisti dei due film: Scotty e Betty-Diane sono accomunati dalla ricerca di una soddisfazione amorosa perennemente frustrata. I temi dell’onnipotenza e della frustrazione (vedi il saggio di Maurizio Del Ministro, Alfred Hitchcock. La donna che visse due volte), tanto cari al cineasta inglese, trovano nel regista del Montana un’interpretazione ambigua, legata al concetto della dissoluzione della realtà e dell’identità, proprie della contemporaneità post-moderna.

HITCHCOCK E LYNCH, LA DONNA CHE VISSE A MULHOLLAND DRIVE

In Mulholland Drive l’onnipotenza è quella di Betty che “scivola fluidamente in un mondo che non oppone resistenze (…) nello spazio infinito delle possibilità” (Luca Malavasi, David Lynch. Mulholland Drive, pag. 117, Lindau Edizioni. Torino, 2008). È la “megalomania” di un’aspirante attrice a cui si aprono tutte le porte di Hollywood e che s’innamora di una donna, Rita, dal passato oscuro e senza memoria, del tutto inerte dopo la perdita della propria identità e del nome a causa di un misterioso tentativo di omicidio. Betty si prende cura di Rita come farebbe una madre con il suo bambino. La veste, la conduce per mano, le offre il seno, le regala un nome e un’identità nuova.

Anche ne La donna che visse due volte il tema dell’onnipotenza è legato al controllo, a un gioco di potere che rinvia ai ruoli di genitore e figlio.

Scotty è un poliziotto prepensionato a causa di un brutto incidente sul lavoro. Nonostante sia tormentato dall’acrofobia, la paura delle altezze, si butta nella baia di San Francisco per salvare dall’annegamento quella che crede essere la moglie dell’ex compagno di università, Gavin Elster. La sua vita, a partire dall’incontro fatale con Madeleine, una donna tormentata dal tragico passato della bisnonna Carlotta, al pari di quella di Betty nella prima parte di Mulholland Drive, è l’eterno nuovo inizio dell’uomo che comincia a vivere solo a partire dall’illusione dell’amore. Illusione primaria da cui ciascun abbaglio del reale si dipana come per un’infezione devastante. Scotty soccorre la donna amata, la porta a casa sua, la spoglia, la riveste e la nutre. L’accoglie nel suo letto.

Sia Madeleine sia Rita diventano forme vuote, manichini disponibili, pronti a indossare gli abiti o le vestaglie che appartengono ai loro nuovi amanti. Le due donne vestono qualcosa che appartiene a Scotty e a Betty, incarnandone così le istanze e i desideri.

In altre parole, l’oggetto d’amore diventa concreto soltanto aderendo a un’identità creata ad immagine e somiglianza delle aspettative del creatore. L’abito modella il corpo. Il corpo aderisce all’abito e all’identità che suggerisce. Rita diventa la donna timida e accondiscendente sognata da Betty. Madeleine è la ragazza angosciata e sofisticata che Scotty ha visto per la prima volta in una sorta di apparizione mistica.

La frustrazione nascerebbe dalla disillusione amorosa che coinciderebbe con la scoperta di una realtà di opacità e frattura che troviamo nella seconda sezione di entrambi i film, ma che già nella prima si manifesta con presagi oscuri e angosciosi.

 

La rivincita della realtà

In Mulholland Drive, Betty si sveglia con un’altra identità. Adesso è Dyane, la donna che nella prima parte del film Betty e Rita trovavano morta e a cui quest’ultima, vittima dell’amnesia, è misteriosamente legata. Anche Rita è un’altra. Ora si chiama Camilla. È una star di successo ed ex amante di Dyane: un’attricetta senza pretese che vive in un appartamento squallido, struggendosi d’amore per l’ex. Camilla è un’arrivista senza scrupoli, manipolatrice e incurante della sofferenza altrui.

Ne La donna che visse due volte, Scotty cade in depressione. Ha assistito al suicidio di Madeleine, portata al tragico gesto dalla sua personale ossessione nei confronti della bisnonna morta in modo analogo. Si riprende soltanto quando incontra Judy: una ragazza identica nell’aspetto, ma non nei modi e negli abiti, alla donna amata.

Scotty e Dyane si scontrano con l’impossibilità di recuperare l’amore perduto, o meglio l’illusione che a esso soggiaceva. Camilla non dipende da Betty, non ha bisogno di lei. Madeleine, a sua volta, era solo una pallida imitazione della moglie di Elster. Una performance abilmente orchestrata da Galvin e da Judy, sua amante, per eliminare la consorte dell’ex compagno di Scotty.

I protagonisti dei due film non possono attribuire al proprio oggetto d’amore l’identità che vorrebbero e, in generale, alcun tipo di identità definita. L’altro si sottrae al nostro desiderio di controllo. Così come la realtà stessa.

L’onnipotenza frustrata conduce inevitabilmente all’esperienza della perdita, che è sempre perdita della realtà. L’oggetto d’amore sfugge, si sottrae alla sorveglianza, alla cura e alla reinvenzione di sé nell’idealizzazione erotica.

Lo stesso avviene per ogni aspetto della realtà, anch’essa difforme, perturbante, frantumata e inafferrabile, percorsa da interferenze e zone d’ombra che ne intaccano la superficie rassicurante.
Scotty e Betty-Dyane vivono nell’infinito orizzonte delle possibilità del presente e si illudono di afferrare il reale e l’amore tra la nostalgia di ciò che è stato, ed è diventato inaccessibile alla coscienza o a i suoi resti, e la malinconia di un futuro inesorabile di rovina e morte.

 

 

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