GLI X-MEN COME METAFORA POLITICA

GLI X-MEN COME METAFORA POLITICA

Per dieci anni gli X-Men sono stati la serie di punta del fumetto americano sia dal punto di vista dei risultati commerciali sia da quello della qualità artistica. È una saga straordinariamente ricca e piena di inventiva sul significato e il valore dell’identità di gruppo.

La coppia che seppe sviluppare le potenzialità della serie fu quella costituita dallo sceneggiatore Chris Claremont e dal disegnatore e co-soggettista John Byrne. Partendo dai concetti di oppressione e di emarginazione, che fin dagli inizi Stan Lee e Jack Kirby avevano scelto come nucleo delle avventure del gruppo, Claremont e Byrne seppero dare ai personaggi un livello di profondità emotiva e di complessità senza precedenti nei comic book.

Dal 1978 al 1987 quella degli X-Men è stata la serie di fumetti americana più venduta: il numero di lettori è aumentato ogni anno, facendo lievitare il numero delle copie da 116mila a 430mila, una cifra oggi impensabile per il mercato americano.

Fu un risultato ancor più sorprendente se si pensa che per più di quindici anni il titolo era stato costantemente il fanalino di coda nella classifica delle vendite. Ma Lee e Kirby avevano sotterrato un seme dalle potenzialità enormi che doveva solo trovare le condizioni favorevoli per svilupparsi compiutamente e dare origine a fiori e frutti.

Ripercorriamo insieme la storia di questo gruppo di adolescenti “misteriosi” ricordando i numeri più significativi della serie.

 

X-Men n. 1 – Stan Lee e Jack Kirby (1963)

Gli eroi Marvel differiscono dagli altri per il fatto di provare dolore e angoscia, per essere pieni di rimorsi e di rimpianti, per vincere ma anche per perdere. Attraverso le storie di personaggi che erano demonizzati dal pubblico e identificati come “diversi”, Stan Lee portava avanti una crociata in favore della tolleranza e della accettazione.

“In quelle storie c’è spazio per chiunque, indipendentemente da razza, sesso, religione o colore della pelle”, disse Lee in un video del 2017 pubblicato dalla Marvel. “Le uniche cose per cui non c’è spazio sono l’odio, l’intolleranza e il fanatismo”. (Questa sembra piuttosto una reinterpretazione alla luce di quanto è accaduto dopo nella società americana: all’epoca il riferimento diretto dei fumetti Marvel erano i “mostri perseguitati” come Godzilla, King Kong e Frankenstein, sui quali Lee avevano lavorato a lungo prima di creare i supereroi Marvel – NdR).

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Gli X-Men, sin dal primo numero del 1963, sono una squadra di adolescenti mutanti, guidati dal loro insegnante e mentore, il professor Charles Xavier, che combattono supercriminali e altri mutanti, spesso guidati da Magneto, decisi a distruggere l’umanità.

C’è una particolarità che li rende unici: i mutanti sono odiati da quegli stessi umani che hanno scelto di proteggere. “Ho adorato subito quest’idea”, disse Stan Lee al quotidiano inglese The Guardian nel 2000. “Non solo li ha resi diversi, ma è stata una buona metafora di ciò che stava accadendo con il movimento per i diritti civili nel Paese in quel momento”. (Stan Lee ha sempre reinterpretato il proprio passato: solo nella seconda metà degli anni sessanta nelle storie si è avvicinato, almeno fino a un certo punto, alla Contestazione studentesca e ai movimenti per i diritti civili. Ma all’epoca non scriveva più gli X-Men – NdR).

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Alcuni hanno visto impersonificata nel Professor X e nella sua visione di un’armoniosa convivenza uomo-mutante la filosofia pacifista del reverendo Martin Luther King, mentre il rigido atteggiamento di Magneto che riteneva inevitabile il conflitto tra i mutanti e il genere umano avrebbe rispecchiato il molto più bellicoso di Malcolm X. Per il primo il colore della pelle non contava e quindi non si dovevano distinguere neri e bianchi, mentre per il secondo la lotta tra le due “razze” era inevitabile.

“Gli X-Men erano probabilmente i fumetti Marvel più esplicitamente politici degli anni sessanta”, dice Sean Howe, autore del saggio “Marvel Comics: Una storia di eroi e supereroi”. Nel primo numero queste dinamiche sembrano già all’opera.

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Nell’albo ci viene subito presentato il gruppo dei giovani mutanti impegnati ad allenarsi contro eventuali minacce. Jean Grey è la presenza femminile del gruppo e ci appare fin dall’inizio come una persona speciale. Infine arriva la terribile minaccia del potente Magneto, capo dei Mutanti malvagi che vogliono distruggere l’umanità non mutante.

Jack Kirby lo dota di una presenza scenica piena di carisma e mistero, tanto che la sesta vignetta di pagina 15 sarà riprodotta dall’artista Roy Lichtenstein in un famoso quadro (vedi sopra). Lo scontro tra i due gruppi mutanti sarà intenso e carico di sviluppi futuri.

X-Men n. 57 – Roy Thomas e Neal Adams (1969)

Roy Thomas inizia a sceneggiare le storie degli X-Men dal n. 20 del maggio 1966. Per lungo tempo scrive svogliatamente al servizio dello sgraziato disegnatore Werner Roth, mentre il titolo perde sempre più lettori.
Tutto cambia con l’arrivo di Neal Adams, almeno dal punto di vista qualitativo. Sul n. 54, disegnato da Don Heck, Roy Thomas aveva introdotto il Faraone Vivente e Alexander Summers, il fratello di Ciclope.
Con il n. 56 le matite passano ad Adams, che realizza un lavoro superbo e anche le storie diventano sempre più interessanti. Nel n. 57 Alex Summers scopre di essere un mutante dai poteri stupefacenti e prende il nome di Havok.

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Thomas gioca sullo sconcerto di un ragazzo ventenne alle prese con poteri che vanno al di là della sua immaginazione. Fa di Havok un personaggio tragico, quasi shakespeariano, portando l’intero gruppo degli X-Men in una dimensione diversa.

Su questo numero spadroneggiano le Sentinelle, un gruppo di enormi robot cacciatori di mutanti, proprio mentre i lettori guardavano in tv gli attivisti neri che si scontrano con gli agenti di polizia. Sembra che Thomas e Adams abbiano cercato di rivitalizzare una serie morente introducendo nuove tematiche, anche se sembrava che stessero improvvisando più che seguire una precisa linea di sviluppo. Le idee però c’erano e saranno scippate dai successori.

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Tra l’altro è innegabile che Neal Adams abbia avuto una grande influenza sullo stile di John Byrne e molto del suo lavoro sembra essere in sintonia con ciò che sarebbe seguito. Mentre i testi di Roy Thomas sugli X-Men sembrano gettare le basi per l’approccio di Chris Claremont. Ci sono le stesse intense emozioni e il melodramma che definiranno il lavoro dello scrittore inglese, la stessa angoscia adolescenziale.

X-Men n. 94 – Chris Claremont, Len Wein e Dave Cockrum (1975)

Dopo la run di Roy Thomas e Neal Adams, soddisfacente dal punto di vista qualitativo quanto inefficace dal punto di vista delle vendite, la testata degli X-Men entra in una specie di limbo nel quale rimarrà per ben cinque anni. Il numero 66 del marzo 1970 sarà l’ultimo a contenere storie inedite. Dal numero 67 la serie diventa bimestrale e inizia a presentare ristampe di vecchi episodi. Le ristampe vanno avanti fino al numero 93 dell’aprile del 1975.

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Gli allievi del professor Xavier non scomparvero però del tutto dalle pagine dei fumetti Marvel. Continuarono ad apparire come ospiti speciali nelle storie dell’Uomo Ragno e dei Vendicatori, suscitando l’attenzione dei lettori che non li avevano dimenticati. Questo dato, insieme al buon risultato di vendita delle ristampe, convinse Roy Thomas a tentare il rilancio del gruppo nel 1975.

L’occasione la diede Al Landau, a quel tempo presidente della Marvel e proprietario della TransWorld, società che gestiva i diritti dei fumetti americani nei paesi esteri. Landau aveva bisogno di personaggi che avessero una connotazione internazionale per rendere più agevole la cessione dei diritti nel mondo. Thomas pensò che questi personaggi avrebbero potuto essere i nuovi X-Men, ma oberato dal lavoro affidò il compito di sviluppare l’idea a Len Wein.

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Len Wein lavorò in coppia con il disegnatore Dave Cockrum, proveniente dalla Dc, per la quale aveva relizzato La Legione dei Super-Eroi. Il risultato delle loro fatiche fu Giant-Size X-Men n. 1, un albo fuori serie dove per la prima volta facciamo la conoscenza del tedesco Nightcrawler, del canadese Wolverine (questo già apparso su Hulk), del russo Colosso e dell’africana Tempesta.

Vista la buona accoglienza dei lettori, il nuovo gruppo finì sulle pagine della serie regolare nel n. 94 degli X-Men dell’agosto 1975. All’epoca Len Wein era superimpegnato: oltre a Hulk, stava scrivendo Amazing Spider-Man, Fantastic Four e Thor. Quindi, dopo Giant-Size X-Men n. 1, affidò il progetto allo sceneggiatore alle prime armi Chris Claremont, che si occupò di scrivere i soggetti per Wein  a partire da X-Men n. 94.

 

X-Men n. 101 – Chris Claremont e Dave Cockrum (1976)

I primi anni dei “nuovissimi, tutti diversi X-Men”, come annunciavano le copertine, furono effettivamente diversi e densi di novità. Chris Claremont aveva già sviluppato un certo talento per le dinamiche interpersonali all’interno dell’enorme cast che gli era stato affidato.

Aveva iniziato a fare dell’evoluzione personale di Jean Grey, a lungo trascurata come personaggio, uno dei centri emotivi della serie. Ciò diventa evidente sul n. 101, fin dalla bellissima copertina di Dave Cockrum che raffigura Jean rinascere dalle acque come una fenice. Anche la suggestiva splash page iniziale ci fa subito capire che ci troviamo di fronte ad un momento decisivo.

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La situazione è di massima tensione: gli X-Men si trovano su una navetta spaziale che si schianterà a meno che qualcuno non riesca a portarla in salvo facendosi attraversare da radiazioni che sicuramente uccideranno il suo pilota.

Jean decide di sacrificarsi per salvare l’amato Ciclope e il resto dei suoi compagni di squadra. La navetta precipita con uno schianto, ma Jean invece di morire vola fuori dalle acque più viva che mai e con indosso un nuovo costume. “Ascoltatemi, X-Men!”, grida, “Non sono più la donna che conoscevate! Sono il fuoco! E la vita incarnata! Ora e per sempre sono Fenice!”.

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Jane Gray diventa così espressione di una femminilità esplosiva e pericolosa che finisce per impaurire il maschio. Al di là della retorica che infarcisce i dialoghi di Claremont, ci troviamo di fronte a un momento cardine.

Da qui prende inizio una saga che si protrarrà per oltre trenta numeri in un crescendo di tensione quasi insostenibile, fino all’epico e catartico finale.

X-Men n. 108 – Chris Claremont e John Byrne (1977)

Era qualche mese che John Byrne girava come un avvoltoio intorno a Dave Cockrum, innervosito perché sapeva che l’inglese desiderava diventare il disegnatore del gruppo di mutanti.

“John si comportava come se fosse il legittimo erede di quella serie, e non vedeva l’ora di prendersela”, dirà Cockrum. “Ogni volta che passava dagli uffici della Marvel non mancava di farlo notare. E io rimasi su quel titolo un po’ di più proprio per dargli fastidio”. Ma con il numero 108 del dicembre 1977 John Byrne prese finalmente in mano le matite di Uncanny X-Men, dando inizio a una run che sarebbe rimasta nella storia.

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Per Chris Claremont e John Byrne sugli X-Men vale lo stesso discorso di Stan Lee e Steve Ditko sull’Uomo Ragno: fu l’estrema diversità dei loro caratteri, e il punto di equilibrio quasi miracoloso che essi riuscirono per un certo periodo di tempo a trovare, a determinare la fortuna dei loro personaggi.

A Byrne piacevano l’azione e i personaggi dinamici come Wolverine, mentre Claremont aveva un debole per i dialoghi lunghi e tortuosi con situazioni che si protraevano nel tempo, mentre succedeva poco o niente.

“L’idea che aveva Chris di un numero perfetto di X-Men era 22 tavole di loro che camminavano per il quartiere del Village, o si ritrovavano nell’appartamento di Scott o in un luogo del genere, si sedevano senza costume, solo in jeans e maglietta, e parlavano per tutto il tempo”, disse una volta Byrne.

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Tuttavia, fu proprio in questa estrema tensione tra due poli sostanzialmente opposti il segreto del successo della serie. Come scrive Sean Howe in “Marvel Comics. Una storia di eroi e supereroi”, “il risultato finale era sempre all’insegna di un’ipnotica e organica unione tra stranezze fantascientifiche e umanissime tragedie”.
Il decennio d’oro degli X-Men inizia da questo numero, dove John Byrne ha la grande capacità di fondere nel suo stile la forza e la bellezza delle immagini di Jack Kirby e il tormento e l’estasi di quelle di Neal Adams. 

Dalla prima pagina di X-Men n. 108 siamo di fronte a una storia che si destreggia tra complessità psicologica e immagini spettacolari, trame intricate e azione esplosiva, disperazione e gioia. Il tutto unito in un insieme armonico pieno di grazia e ottenuto apparentemente senza sforzo. Secondo tutti i resoconti, in realtà, ci volle uno sforzo enorme.

X-Men n. 137 – Chris Claremont e John Byrne (1980)

Gli X-Men n. 137 era un numero doppio, uno dei primi da quando la Marvel aveva deciso di entrare nel mercato delle fumetterie, per il quale i soli preordini avevano già raggiunto la cifra di 100mila copie. Era il numero dove si concludeva la cosiddetta saga della Fenice Nera, una delle storie Marvel più belle che era iniziata sul n. 129.

Durante questo periodo, quella che una volta era la mutante chiamata Jean Grey si era trasformata in una creatura dai poteri pressoché infiniti, che lei stessa controllava con sempre più difficoltà. Nel n. 135, in pieno delirio di onnipotenza, era arrivata a distruggere una stella delle dimensioni del nostro sole provocando la morte di miliardi di individui. Il finale della storia proposto da Claremont e Byrne non convinceva affatto Jim Shooter, il direttore generale della Marvel.


Fare distruggere a un personaggio un mondo abitato da miliardi di persone, fargli spazzar via un’astronave e alla fine, be’, togliergli semplicemente i poteri e farlo ritornare sulla Terra… mi sembra un po’ come se alla fine della Seconda guerra mondiale Hitler fosse stato catturato e gli avessero tolto il controllo dell’esercito tedesco, lasciandolo però libero di andare a vivere a Long Island”.

Jean Grey doveva pagare per i suoi crimini, insisteva Shooter. Fenice doveva morire. Claremont aveva trascorso gli ultimi quattro anni a progettare e a mettere in atto poco alla volta il finale della saga di Fenice. Tutte le trentacinque pagine di X-Men n. 137 erano già state disegnate. Ora lui e Byrne avrebbero dovuto modificarle nel giro di pochi giorni. Era la prima volta, disse Shooter, che imponeva dei cambiamenti sostanziali alla storia di qualcun altro.


X-Men n. 137 uscì il 17 giugno 1980. I lettori più fedeli presero d’assalto le fumetterie e lo divorarono pagina dopo pagina fino a quando, all’improvviso, si trovarono di fronte al finale più tragico che si potesse immaginare. Negli ultimi istanti della storia la personalità di Jean Grey andava e veniva come il segnale di una radio mal sintonizzata, mentre Fenice Nera sembrava avere la meglio su di lei. 

“Ho paura, Scott”, diceva piangendo a Ciclope prima di lasciarsi abbattere da un’antica arma Kree. “Sono appesa a un filo. Fenice sta prendendo il sopravvento e parte di me… desidera che lo faccia”. Poi, all’improvviso, Ciclope si inginocchiava e si metteva a piangere su un cratere fumante. Il personaggio tragico e imperfetto il cui destino drammatico era stato segnato dalle proprie azioni, vittima e carnefice nello stesso tempo, colpì profondamente i lettori.


Alla fine Claremont riconobbe che le richieste di Jim Shooter avevano migliorato la storia. Quel mese gli X-Men vendettero più del doppio di ogni altro fumetto.

Assediato dai fan che gli ponevano la stessa domanda, “Jean Grey è morta per davvero?”, John Byrne camminava con una maglietta su cui c’era scritto: “È morta e rimarrà morta”.

X-Men n. 141 – Chris Claremont e John Byrne (1981)

Il n. 141 contiene la prima parte di una delle più importanti storie degli X-Men, “Days of Future Past”. In un periodo dove tutte le storie sembrano non potere fare a meno di essere diluite in 6-12 parti, parlare di un capolavoro di sole 43 pagine può sembrare strano.

“Days of Future Past” è un capolavoro a cominciare dal titolo preso da un evocativo album dei Moody Blues del 1967, per continuare con la copertina, una delle più omaggiate nella storia dei fumetti. Per non parlare della terrificante splash page iniziale, di ispirazione eisneriana, che ci mostra una Kitty Pryde invecchiata che vaga in una New York ridotta a un cumulo di macerie.


Siamo in un futuro distopico dove le Sentinelle hanno conquistato l’America e ucciso o ridotto in schiavitù la maggior parte dei supereroi. L’unica soluzione è tornare indietro nel tempo e cercare di modificare il passato. La premessa generale di “Days of Future Past” anticipa di qualche anno quello che sarà il concetto alla base del fortunato film Terminator del 1984. John Byrne, che oltre ai disegni ha anche scritto la trama, dice di essersi ispirato a un vecchio episodio di Doctor Who intitolato “Day of the Daleks”.

Nella sua penultima storia prima di lasciare il titolo troviamo un Byrne al top. Ogni vignetta è ricca di dettagli e lo storytelling sembra fluire senza sforzo. I dialoghi di Claremont sono potenti e i suoi balloon pieni zeppi di pensieri riescono a creare una realtà parallela.


Il futuro distopico mostrato in questo dittico aggiunge forza e significato a temi che erano in nuce nella serie fin dalla primissima impostazione data da Lee e Kirby. La Confraternita dei mutanti “malvagi” è descritta come un gruppo che vuole combattere gli umani, non necessariamente per conquistare il mondo ma per impedirgli di opprimere il genere mutante.

La battaglia tra i seguaci di Xavier che credono sia possibile una pacifica convivenza tra umani e mutanti e i seguaci di Magneto che non credono in una integrazione è il tema centrale degli X-Men, e raramente è stato rappresentato così bene.

X-Men n. 186 – Chris Claremont e Barry Windsor-Smith (1984)

X-Men n. 186, intitolato “Vita-morte”, è uno di quegli episodi dove sembra che lo sceneggiatore e il disegnatore siano impegnati in una gara per stabilire chi tra loro è il più bravo. Il disegnatore Barry Windsor-Smith inizia con una Ororo (Storm) in posizione fetale, il corpo nudo avvolto in un bianco lenzuolo come il sudario dei morti. L’atmosfera generale è di grande depressione. La didascalia di Chris Claremont non è da meno: “C’era una volta una donna che poteva volare”, dandoci subito il senso di una grande perdita, qualla dei superpoteri. Mentre Ororo giace immobile sul letto, un uomo chiamato Forge entra nella stanza con la colazione. Lui le porta il cibo, ma tutto quello che lei riesce a dirgli è: “Avresti dovuto lasciarmi affogare”.


Forge tenta di spiegarle che si può sopravvivere a qualsiasi perdita, lui è sopravvissuto alla perdita di una gamba in Vietnam. Piano piano i due si stanno innamorando l’uno dell’altra, quando Storm viene a sapere da Forge la causa della perdita dei suoi poteri.

“Lifedeath” parla di una doppia morte e di una doppia rinascita. Storm si sente morta una prima volta in seguito alla perdita dei suoi poteri “non è più vivere questo”, dice, “è solo esistere”. Poi sembra poter rinascere a una vita nuova grazie all’amore per Forge.


Il confronto finale tra i due sotto la pioggia battente è una delle sequenze più belle nell’intera storia degli X-Men. Alla fine Ororo rinasce alla speranza: “I miei piedi potranno anche non staccarsi mai più da terra… ma un giorno imparerò di nuovo a volare!”.

Claremont ha raccontato la sua collaborazione con Windsor-Smith in una intervista su Amazing Heroes n. 75, del luglio 1985: “Barry riempiva i margini delle sue tavole di lunghe note sulla caratterizzazione, sugli aspetti della relazione tra Storm e Forge, su come avrebbe voluto gestire certe scene. Commentava le cose che avevo scritto in termini dando suggerimenti, che erano rilevanti, affascinanti, interessanti e che ho usato per la maggior parte”.

X-Men n. 205 – Chris Claremont e Barry Windsor-Smith (1986)

In quegli anni il personaggio di Wolverine stava emergendo come il più carismatico componente degli X-Men. Questa storia lo vede come unico protagonista: non vi compare nessun altro componente del gruppo. In “Wounded Wolf” Claremont e Windsor-Smith utilizzano un vocabolario simbolico complesso e dettagliato per raccontare una storia che ci illumina sulle ragioni del costante tumulto interiore di Logan e sui suoi desideri. La storia inizia da metà, con Wolverine gravemente ferito dall’attacco di Lady Deathstrike, ridotto a una specie di animale braccato, incapace di ragionare, di parlare e di ricordare.


Ma nel bel mezzo di una tempesta di neve incontra una bambina di nome Katie Power, che lo guiderà verso la salvezza. C’è in questa sequenza un riferimento al quadro di Pablo Picasso “Minotauromachia”, del 1935. Se il Minotauro incarna l’archetipo della forza bruta e istintiva della natura, la bambina assume i connotati di un’altra importante figura: è la salvatrice, la guaritrice, capace di congiungere gli aspetti consci e quelli inconsci della psiche.

Ben presto, con l’aiuto di Katie, Wolverine inizia a stare meglio e a ritrovare la memoria e afferma, in giapponese, “Boku wa dare?” (“chi sono io”), poi parla di nuovo: “cosa sono io?”, in inglese.


Motivato dalla necessità di proteggere Katie, Wolverine torna in sé e affronta in un corpo a corpo finale la pericolosa Deathstrike sconfiggendola e negandogli la morte violenta per la quale lei lo implora.
La temperatura emotiva della storia è data dall’incredibile tempesta di neve, che Barry Windsor-Smith raffigura con alto magistero grafico, rappresentando il caos dentro la vita dell’individuo. Solo nel finale, quando Wolverine e la bimba sono salvi, si placa.

X-Men n. 274 – Chris Claremont e Jim Lee (1991)

Anche se siamo nell’anno in cui gli allievi del dottor Xavier stabiliscono una tantum il record di copie vendute da un singolo albo (oltre 8 milioni!), troppi sono gli indizi che ci troviamo alla fine della pista. Il periodo aureo del gruppo, coinciso con la lunga run di Chris Claremont ai testi ormai al termine.

Claremont sa che a breve dovrà lasciare il titolo e sembra tornare con la mente a dove tutto era iniziato, al primo nemico del gruppo, Magneto. Nonostante i rapporti ormai logori con l’allora editor delle testate mutanti Bob Harras e il potere decisionale sempre maggiore dell’astro nascente del fumetto, il disegnatore Jim Lee, lo sceneggiatore britannico ha ancora la forza di creare alcuni piccoli gioielli.


Uno di questi è il dittico “Crocevia”, nel quale porta a compimento il percorso di sviluppo di Magneto per arrivare a dimostrare tutta l’ambivalenza insita nel personaggio, che è “cattivo” e anche “buono”. Ambivalenza che è la stessa di tutti i mutanti, per i quali i superpoteri sono una benedizione ma anche una maledizione, che è in definitiva l’ambivalenza che ha fatto la fortuna di tutti i personaggi Marvel.

Claremont ha contribuito più di ogni altro a trasformare Magneto dal fanatico cattivo degli esordi in un uomo dalla personalità complessa, un sopravvissuto della Shoah, votato al combattimento di una eterna guerra per evitare che i mutanti subiscano lo stesso odio e la stessa violenza che hanno segnato la sua infanzia.


Se Stan Lee aveva forse visto nella contrapposizione tra Xavier e Magneto una eco di quella tra Martin Luther King e Malcom X, Chris Claremont, di origini ebree e che conosce da vicino il conflitto israelo-palestinese, ci ha visto quella tra David Ben Gurion e Menachem Begin, due storici politici israeliani: il primo fondatore dello stato di Israele e il secondo capo del Likud, il partito della destra israeliana.

Erano due nemici politici con una diversa concezione del destino del loro popolo. Se Ben-Gurion lasciava sempre aperto il dialogo con i nemici di Israele, Begin era più pessimista e pronto al conflitto.

Ancora una volta gli X-Men usati come metafora.

1 commento

  1. Top grazie letti tutti all’epoca e riletti negli anni, sempre fantastici. Grazie Marvel by StanfrankKirby

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