FUMETTISTI: DA ANONIMI A ROCKSTAR

FUMETTISTI: DA ANONIMI A ROCKSTAR

Gli Anonimi Quando ero bambino si leggevano i fumetti senza preoccuparsi di chi li realizzasse. Interessavano le storie, alle quali i disegni erano funzionali. Che dietro quelle vignette, in bianco e nero o colorate, ci fossero professionalità diverse non interessava quasi a nessuno. Gli stessi autori spesso non rivendicavano in alcun modo i propri lavori. Alcuni perché, magari, erano anche pittori o illustratori e non volevano squalificarsi firmando un genere narrativo considerato un sottoprodotto letterario destinato a un pubblico di ragazzini e servette. Ad altri, che invece facevano solo fumetti e si divertivano a farlo, magari era sufficiente la soddisfazione di aver fatto bene il proprio lavoro, a meno che non fosse l’editore a preferire l’assenza di qualsiasi attribuzione di paternità delle storie. In ogni caso, di nomi e cognomi sui “giornalini” se ne vedevano davvero pochi. Certo, per chi ci teneva a siglare i propri lavori il disegnatore era naturalmente favorito: infilare una firma in fondo a una tavola per lui era molto semplice. Lo sceneggiatore non aveva, invece, alcun modo di farlo. A dire il vero, alcune pubblicazioni i nomi degli autori li mettevano. È il caso dei grandi “giornali” per ragazzi, il Vittorioso, il Corriere dei Piccoli e il Giorno dei Ragazzi che, per la loro vicinanza agli ambienti giornalistici, erano portati a riconoscere le professionalità degli autori dei fumetti al pari di quelle degli articolisti. Anche pubblicazioni come il mondadoriano Pecos Bill riportavano in seconda di copertina il nome dello sceneggiatore e l’elenco dei “pittori” autori delle tavole (nella prima edizione specificandoli episodio per episodio, in ristampe successive in elenco complessivo). La situazione non era differente in altri Paesi. Negli Stati Uniti gli autori firmavano le strisce e le tavole domenicali che, non a caso, apparivano sui quotidiani, e in Francia riviste per ragazzi non dissimili nell’intenzione ai “giornali” nostrani come Spirou,Tintin e Pilote riportavano chiaramente i nomi degli autori. In altri generi di pubblicazioni fumettistiche però, come in Italia, i lavori spesso non erano firmati. Da noi accadeva in pubblicazioni di grande successo come il Monello o Intrepido. Ma anche in giornali di formato più grande come quelli dedicati dalla Cenisio alle “Vedette della TV” tipo Rin Tin Tin o Penna di Falco, regnava l’anonimato sia relativamente ai materiali provenienti d’oltreoceano, sia, all’esaurimento di quelli, alle storie prodotte in Italia da disegnatori come Raphael Marcello o Ferdinando Fusco. Non diversamente andava per popolarissimi albi a striscia come Akim e Falco Bianco o in altro formato come Amok, Radar, Dick Fulmine, o gli umoristici Cucciolo e Miciolino, dove l’identità degli autori non veniva in alcun modo segnalata. Facevano eccezione Capitan Miki e il Grande Blek, attribuiti nel colonnino del titolo dell’episodio alla sigla dellaEsseGEsseche celava i tre intercambiabili autori Sartoris, Guzzon e Sinchetto. E, vendicando l’anonimato obbligato della categoria degli sceneggiatori, personaggi di Andrea Lavezzolo (magari celato sotto il nom de plume anglicizzato di A. Lawson) comeGim ToroeKinowa, oltre a Tex che riportava in prima pagina l’americanizzante dicitura “Text by G. L. Bonelli” lasciando ai disegnatori l’incombenza di ritagliarsi il proprio spazio di celebrità firmando le tavole. Consuetudine mantenuta per decenni dalla casa editrice che, se riconosceva la paternità dei personaggi ai Lavezzolo e ai Nolitta autori dei testi, confinava il riconoscimento dei disegnatori a più o meno visibili firme a piè di tavola, facendo nascere (nel caso di mano plurima dietro a matite e pennelli) veri e propri ircocervi come la firma Bignoticci su Un ragazzo nel Far West che sottoscriveva il lavoro a quattro mani di Franco Bignotti e Giovanni Ticci, ma da molti (compreso il sottoscritto) ritenuto a lungo un unico disegnatore. Caso particolarissimo quello di Pini Segna che, come scriveva nella presentazione del primo numero del suo Tim e Ox, “svolgendo contemporaneamente le mansioni di soggettista, disegnatore, calligrafo ed editore” aveva agio di firmarsi a più riprese e in più modi, cominciando dalla gerenza dove si attribuiva anche le figure di Direttore Responsabile e Proprietario. Per i pochi lettori più curiosi e capaci di riconoscere le differenze tra uno stile di disegno e l’altro non era facile risalire al nome degli autori. L’occhio doveva scandagliare ogni recesso di vignetta per individuare firme semicelate tra il fogliame o in un angolo di affollatissime scene, e doveva spesso accontentarsi di abbreviazioni come il “Galep” di Aurelio Galleppinio il “Bott” di Luciano Bottaro, mentre la fame di notizie cresceva e niente permetteva di saziarla. Ricordo che quando su una pubblicazione dell’Editoriale Corno (forse il mensile di Maschera Nera) apparve in appendice una rubrichetta dove un collaboratore di cui ho dimenticato il nome iniziò a fornire informazioni su personaggi e autori, io e miei fratelli lo tempestammo di lettere per saziare le nostre curiosità, ma spesso neppure lui era in grado di indovinare i nomi nascosti dietro una mano o l’altra. Man mano che il fumetto si professionalizzava e gli autori prendevano coscienza del proprio valore come dei propri diritti, le cose cominciarono a cambiare. Gli Autori Crescendo il numero degli appassionati e la conseguente domanda di informazioni su personaggi a fumetti e loro autori, in un’Italia che dopo gli anni del “boom” economico si ritrovava più ricca e nella possibilità di spostarsi agevolmente grazie alla crescente diffusione di automobili e creazione di sempre nuove autostrade, nacquero quasi inevitabilmente due istituzioni capaci di dare risposta a quelle esigenze e destinate a durare: nel 1965 debutta a Bordighera a opera di Rinaldo Traini, Romano Calisi e altri il Salone Internazionale dei Comics, trasferito l’anno successivo a Lucca dove – attraverso varie vicissitudini e cambiamenti di ragione sociale – è diventato il più importante appuntamento per operatori del settore e appassionati; nel 1970 fu invece fondata da Alberto Lenzi e altri appassionati l’Anaf (oggi Anafi), Associazione Nazionale Amici del Fumetto. Da quel momento un significativo numero di lettori di fumetti cominciò a mettere insieme la propria passione e le proprie conoscenze, portando da un lato alla catalogazione di decenni di produzione fumettistica italiana e internazionale, e cominciando dall’altro a far incontrare lettori e autori che trovavano finalmente corpo e voce. La spinta a uscire fuori c’era stata ovviamente anche da parte di questi ultimi, che cominciavano a sentirsi sacrificati in una professione che li vedeva costretti al servizio di storie destinate a un pubblico infantile o comunque poco acculturato. La voglia di abbattere il recinto era sempre più prepotente e si esprimeva in direzioni differenti. Quattro operazioni editoriali rappresentano, in modo diverso, questa voglia di rottura con la tradizionale produzione fumettistica: il Diabolik delle sorelle Giussani (1962) che proponeva per la prima volta storie a fumetti indirizzate esplicitamente a un pubblico adulto (la pubblicazione era “vietata ai minori di 14 anni”); la nascita di Linus (1965) che sdoganava culturalmente il fumetto equiparandolo al resto della letteratura; la pubblicazione (nel 1967) de “La rivolta dei Racchi” di Guido Buzzelli, prima su Lucca Comics Almanacco e poi in Francia su Charlie Mensuel, e di “Una ballata del mare salato” di Hugo Pratt sulla rivista Sgt. Kirk del genovese Florenzo Ivaldi; che si impongono per valore letterario-artistico e certificano una volta per tutte (insieme al Neutron/Valentina di GuidoCrepax nato poco prima sulle pagine del citato Linus) la nascita del “fumetto d’Autore” e della figura dell’Autore di fumetti; l’uscita de “La Storia del West” di Gino D’Antonio e Renzo Calegari (1967) che trascende il western prettamente avventuroso degli anni 40 sposando romanzo storico e narrazione matura, conciliando così fumetto a diffusione popolare e autorialità (ma, anche qui, la firma del “soggettista” apparirà solo con il 43esimo episodio, “La legge della violenza”). Da quel momento il fumetto non sarà più lo stesso. In Italia come in Francia e negli States per un’intera generazione gli autori prendono il posto dei personaggi nel cuore degli appassionati che non acquistano più i fumetti per il protagonista delle storie ma per lo sceneggiatore e/o il disegnatore: anche se i collezionisti continuano a comprare i nuovi numeri dei personaggi più amati, spesso l’attenzione si sposta dal personaggio all’autore dei testi o delle tavole; si vendono gli albi e i volumi di Moebius, di Chris Claremont, di Franco Saudelli e di Alberto Breccia, e sempre più si predilige il lavoro degli “autori completi”, i Giardino, i Toppi, i Micheluzzi, i Pazienza, i Cosey, i Druillet o gli Eisner che offrono una cifra stilistica complessiva e coerente, e dunque “autoriale” al massimo grado. Anche il sesso, affacciatosi timidamente sui primi fumetti “neri” e impostosi con sempre maggiore forza sui mensili “sexy” fino all’abbattimento dell’ultimo tabù da parte di Magnus che su lo Sconosciuto mostra senza più veli anche il membro maschile, diventa una componente del maturato fumetto, ormai libero di affrontare i contenuti più profondi e problematici, dallo spaccato sociale de “La corsa del topo” di Gérard Lauzier, alla denuncia della violenza sulle donne de “La storia del topo cattivo” di Brian Talbot, alla metabolizzazione del dramma della Shoah nel “Maus” di Art Spiegelman. La moltiplicazione delle Fiere del Fumetto continua intanto a portare gli autori a contatto con i lettori e, come per i romanzieri, si comincia a fare la fila per avere una dedica sull’opera amata. I fumettisti possono aggiungere alla firma anche il disegno, rendendo ancora più coinvolgente l’operazione. Si moltiplicano anche le fanzine e le prozine, riviste amatoriali più o meno professionali scritte e pubblicate da associazioni di appassionati che intervistano i loro idoli svelandone storia professionale e motivazioni artistiche, catalogandone e recensendone le opere e togliendo pian piano ogni residuo alone di mistero al ricco e complesso mondo del fumetto. Ho contribuito personalmente a far approdare la più nota di esse, Fumo di China, in edicola sul finire degli anni ottanta e ad affiancarle l’ancora più fortunato Annuario del Fumetto, entrambi tuttora in attività. I Divi Al volgere del secolo, anche il periodo del “fumetto d’Autore” risulta decisamente superato. L’esperienza delle “riviste d’Autore”, non più premiate dalle vendite, si era malinconicamente conclusa sul finire degli anni Novanta. Come spesso succede, forse troppe ne erano state messe in cantiere dopo il successo delle prime, e non tutte le opere presentate erano all’altezza del compito; alcuni tra i principali esponenti di quella gloriosa stagione erano scomparsi per età o malattia, e molti filoni artistici e narrativi avevano probabilmente già espresso tutte le loro potenzialità. Anche la stagione dell’impegno politico aveva ormai lasciato il passo a un marcato riflusso nel personale che aveva allontanato la generazione degli anni settanta e ottanta da certe letture. Nel frattempo dalla scuderia Bonelli era uscito un personaggio che in qualche modo riuniva le modalità di produzione artigianal-industriale tipiche della casa editrice di via Buonarroti e caratteristiche autoriali, arrivando rapidamente a conquistare al fumetto una nuova generazione di lettori, adolescenti che si riconoscevano nei “mostri” e nei “diversi” coi quali il protagonista, l’Indagatore dell’Incubo Dylan Dog, si confrontava di numero in numero e si ritrovavano nella difficoltà (nel rifiuto?) di crescere che il creatore Tiziano Sclavi viveva in prima persona. La nuova affermazione del fumetto da edicola a grande diffusione, e l’inevitabile illusione della concorrenza di riuscire a replicarne la formula, non è durata che qualche lustro.