ERRI DE LUCA: IL RACCONTO È UN TONO DI VOCE
Erri De Luca, nato a Napoli il 20 maggio del 1950, è uno scrittore e traduttore italiano.Negli anni Settanta è stato dirigente del movimento politico Lotta Continua.In seguito ha svolto numerosi mestieri, e ha pubblicato il primo libro (“Non ora, non qui”) nel 1989.Ha vinto, tra gli altri, il premio France Culture per “Aceto, arcobaleno”, il premio Laure Bataillon per “Tre Cavalli” e il Femina Etranger per “Montedidio”. A causa di alcune sue affermazioni rilasciate durante un’intervista del settembre 2013 contro i cantieri della TAV (Treno Alta Velocità) in Val di Susa è stato rinviato a giudizio per istigazione a delinquere, accusa da cui è stato assolto il 19 ottobre 2015 “perché il fatto non sussiste”. Tradotto in francese, spagnolo, inglese e trenta altre lingue, è considerato uno dei massimi scrittori italiani viventi.Quando gli abbiamo scritto per chiedergli un’intervista, ci ha risposto asserendo che considerava un privilegio ricevere questa attenzione. È da questa sua affermazione che siamo partiti, quando l’abbiamo incontrato sotto i portici della Scala di Milano. Sentir parlare di privilegio in un mondo in cui si avverte un’enorme distanza con la dimensione dell’arte ci ha riportato all’umanità delle relazioni, al significato di privilegio nei rapporti umani. Un’umanità che si avverte molto nelle sue opere, sono racconti di vita densi di un senso di naturalezza e di appartenenza alle cose e all’umanità che parte dal basso, tant’è che riescono a oltrepassare i confini della realtà territoriale di cui lei narra. Perché, quindi, “privilegio”? Perché questa parola? Che cosa significa per lei?Un privilegio per me è ricevere delle domande da persone che sono curiose di me, delle cose che faccio, dei racconti; curiose di una persona. Le domande che vogliano avvicinarsi a una persona, che vogliano conoscerla: ecco, questo è un privilegio.Io ho appartenuto a una generazione che è stata interrogata dai magistrati, i quali non volevano chiedere per sapere, ma chiedere per ottenere.C’è una differenza tra i due verbi, e il latino la specifica bene. Chiedere per sapere è il latino del verboquerere, quindi questionare, fare delle questioni, e appartiene al chiedere per sapere, per conoscere. Poi c’è il verbopetere, che è chiedere per ottenere, e quello è un chiedere sapendo già, dando già per scontata la risposta e volendo ottenere semplicemente una reazione da mettere agli atti, da allegare agli atti.Dunque, conoscendo la differenza fra questi due modi di porre domande, considero un privilegio per me ricevere queste domande del verboquerere. Leggendo le sue opere siamo rimasti colpiti dalla delicatezza del linguaggio, dalla capacità di percepire la compassione. Si avverte un senso di profonda umanità scaturire dalle parole, che in qualche modo sono ricercatissime e in qualche modo, invece, suonano estremamente semplici e arrivano dritte al cuore. Se dovessimo dare una definizione, diremmo che è uno scrittore che scrive con amore…Marcos Ana, un vecchio poeta spagnolo che ha passato molto tempo nelle carceri franchiste, e che proprio lì è diventato poeta, uscendo dopo venti e passa anni di prigione e cominciando a girare il mondo con le sue poesie, aveva incontrato, una volta, il poeta Nobel spagnolo Miguel Ángel Asturias, e riportava i dettagli della loro conversazione.Asturias gli diceva che, quando lui scriveva una poesia e gli capitava di avere sotto la penna un aggettivo abbastanza consumato, ovvio, scontato, andava a cercare nel vocabolario l’aggettivo più raro, più prezioso, più ricercato. Marcos Ana gli rispose che lui faceva il contrario, che quando si trovava sottomano una parola non troppo semplice, allora cercava nel vocabolario la più evidente, la più schietta, la più semplice, la più conosciuta. Io non faccio né l’uno né l’altro: per me il racconto è il tono di voce di uno che lo sta narrando dall’interno, e allora devo solo azzeccare quel tono di voce, raggiungerlo nell’ascolto. Una volta che lo sento, che sono ricevente di quel tono di voce, viene da sé l’uso delle frasi, e anche la loro lunghezza, perché le mie frasi non sono più lunghe del fiato che ci vuole a pronunciarle. Non so se c’entri l’amore, secondo me c’entra solo la possibilità di seguire un tono di voce. Il tono di voce di uno che sta raccontando la storia dal suo punto di vista, dall’interno, quindi non da un punto di vista panoramico, non dalla distanza della terza persona, che lo scrittore ha quando scrive una storia di personaggi. I miei personaggi non sono personaggi, per me sono prima di tutto persone. Considero “personaggio”, alla lettera, un peggiorativo della parola “persona”. In numerose interviste ha dichiarato che molte di queste voci le sono state affidate da esperienze dirette, da racconti di persone con cui ha vissuto o che ha conosciuto. Ad esempio, nel suo libro “Il contrario di uno” lei narra di un urlo, udito e riportato dallo zio del protagonista, che colpisce il lettore con una tale intensità, con una tale empatia che non resta soltanto una parola, ma diventa un sentimento di comunanza, di riconoscimento. Ci chiedevamo, quindi, quanto sia importante l’oralità nella trasmissione di una memoria, nella continuazione di una memoria. Un’oralità che sembra non esserci più, come se non ci fosse più niente da raccontare, o, forse, orecchie abituate ad ascoltare…A me sembra che, fra le generazioni susseguenti la mia, manchi qualcuno che racconti le storie, qualcuno in famiglia. Nelle case non abitano più i nonni: se non sono in crociera, quando se lo possono permettere, sono negli ospizi, quando non se lo possono permettere. Tutta l’età adulta, l’età anziana, è considerata da rottamare, e quindi non c’è più l’ascolto di questi racconti. Nella mia infanzia, invece, questo ascolto c’era: si raccontavano le storie, quindi mi si è formato un orecchio capace di trattenerle. Posso trattenere lunghe storie: le ho sentite tante volte, e quindi per quello si sono fatte strada. Non ho una memoria prodigiosa, semplicemente l’abitudine ad ascoltarla. Posso sentire le storie e trattenerle dentro di me da qualche parte. E poi tirarle fuori andando a risentire, però, sempre quel tono di voce, senza il quale la mia pagina è muta. Non trovo né l’aggettivo né il sostantivo giusto: devo trovare il tono di voce. Il tono di voce come memoria…Si… Una memoria anche nel senso di costruzione di un’identità?La memoria non è un archivio, non è una collezione, non è un album di figurine. È quel rimasuglio che rimane trattenuto da qualche parte. Nel mio caso io non sono neanche il proprietario della mia memoria, e non posso andarla a consultare quando mi pare. Ogni tanto la memoria mi rilascia qualche dettaglio trascurato, dimenticato; allora, intorno a quel dettaglio posso ricostruire l’intero. Intorno a quell’osso posso ricostruire tutto lo scheletro mancante del dinosauro, perché l’ho visto il dinosauro; allora, siccome me lo sono dimenticato, quando ritrovo un osso della coda, poi da lì posso partire per ricostruirlo. La scrittura è abbastanza visionaria, riesce a fare questo, insomma. Per me la memoria è un innesco della ricostruzione di un tempo passato, che mi permette di stare di nuovo insieme con le persone che ho perduto. In genere per me la scrittura è un modo per tenermi compagnia. La migliore che ho conosciuto. Bellissima intervista Grazie, Manu!