CRISTINA CAPOCCITTI, LA BIANCANEVE SFORTUNATA

Case Castella è un minuscolo borgo isolato di Ridotti, a sua volta frazione di Balsorano, piccolo centro abruzzese sull’altopiano marsicano al confine con il Lazio. Qui vive Cristina Capoccitti, una bambina graziosa e vivace di sette anni.
Alle ore 20.30 del 23 agosto 1990 è ancora giorno e la piccola, stringendo lo yogurt che le fa da cena, ne approfitta per dire ai genitori: «Io esco, non mi cercate, lo so io quando devo tornare». E poi corre verso la piazzetta di Ridotti, per andare a giocare con gli amichetti. Che non raggiungerà mai.
I genitori l’hanno lasciata uscire perché sanno che la figlioletta, molto matura per la sua età, non dà confidenza agli estranei. Le ore però passano e la bambina non torna a casa, alle 22 papà Giuseppe, infermiere di 36 anni, e mamma Dina, impiegata di 33, danno l’allarme. Gli abitanti di Case Castella si mettono alla ricerca di quella bambina che, chissà perché, tutti chiamano Biancaneve.
Non la trovano da nessuna parte e allora, la mattina dopo, arrivano i carabinieri con i cani, che fiutando il terreno trovano il cadavere di Cristina Capoccitti a soli cento metri da casa, nascosto tra i rovi di un cespuglio di more. Il suo corpicino seminudo è stato martoriato a colpi di pietra. Non l’hanno violentata, ma è stata uccisa probabilmente dopo pesanti molestie: i suoi vestiti sono stati buttati alla rinfusa tutt’intorno.
Gli inquirenti sono sicuri che il colpevole sia uno del posto, uno che sapeva dove nascondere il corpo affinché non venisse trovato subito. Già il 25 agosto vengono interrogati tutti gli abitanti di Case Castella, compreso Mauro Perruzza, 13 anni, vicino di casa e cugino di Cristina Capoccitti.
Il ragazzo dalla faccia da bambino e il corpo d’adulto, tanto che alcuni lo definiscono un “torello”, sotto l’incalzare delle domande finisce per ammettere di averla uccisa lui la bambina, anche se il suo racconto è poco credibile: «Lei è caduta dal muretto su cui stavamo seduti. Quando le ho visto la faccia coperta di sangue ho perso la testa e le ho stretto le mani intorno al collo».
Sicuramente non è stato un incidente. Si pensa che il ragazzo avesse voluto giocare al “dottore” con Cristina, lei si sia rifiutata e lo abbia minacciato di dire tutto ai genitori, spingendolo a ucciderla.
Il caso viene subito chiuso, ma la notte stessa il ragazzino ritratta e accusa il padre, Michele, 40 anni. Dice di averlo visto nel capanno dove il nonno materno di Cristina alleva i maiali, sopra la cuginetta mentre «la steva a finì». Ecco la sua testimonianza, “tradotta” dal dialetto: «Seguii mio padre e Cristina fino ai bordi dell’uliveto. Poi mi nascosi dietro un cespuglio, da dove vidi mio padre toccare Cristina e alzarle il vestito. Mia cuginetta si mise subito a strillare. Allora lui con una mano le tappò la bocca e con l’altra le strinse il collo fino a strangolarla. Ma prima le diede una botta in testa con un grosso sasso».
Appena il genitore se ne sarebbe andato, lui si è avvicinato alla cuginetta per scuoterla. Accorgendosi che era morta, sarebbe corso a lavarsi le mani imbrattate di sangue nella fontanella del paese. «Quando sono tornato a casa», continua Mauro, «ho trovato mio padre tra le braccia di mia madre che, fuori di sé, le diceva di aver ucciso Cristina. A quel punto mia madre mi vide e da come mi guardò capii che avrei dovuto stare zitto».
La donna, Maria Giuseppina, 39 anni, sorella del padre della piccola vittima, quando le fanno sentire la registrazione con il racconto del figlio, conferma le sue dichiarazioni. Papà Michele viene arrestato con l’accusa di omicidio il 26 agosto, tre giorni dopo il delitto. Michele, da giovane emigrato in Australia e poi ritornato al paesello, lavorava a Roma come muratore. Partiva la mattina del lunedì e tornava il venerdì sera, dormendo nella baracca del cantiere.
L’uomo si ribella a quella accusa infamante, quando lo portano in prigione protesta la sua innocenza e urla al figlio: «Sei stato tu ad ammazzare Cristina, non voglio più sentire la tua puzza!». In un secondo momento la moglie ritratta le accuse, sostenendo di averle fatte solo perché «costretta a scegliere tra marito e figlio». Ma secondo alcuni abitanti del posto, in passato Michele avrebbe già mostrato delle attenzioni sulle bambine. La rabbia dei compaesani è tale che vanno a incendiargli la casa.
Gli avvocati dell’imputato sono convinti che il vero colpevole sia il figlio Mauro. Per cambiare la loro strategia, Maria Giuseppina riesce ad associare ai legali del marito l’avvocato che ha appena fatto assolvere il figlio dalla stessa accusa di omicidio al tribunale dei minori. A questo punto, gli avvocati di Michele Perruzza rimettono il mandato, perché in questo modo gli viene impedito di portare avanti la loro linea difensiva.
Il processo per l’uccisione di Cristina Capoccitti si svolge nel 1991, al tribunale dell’Aquila. Anche il figlio Mauro ha ritrattato le accuse, probabilmente in cambio della promessa che non verrà più accusato dal padre. Il nuovo avvocato, naturalmente, imposta tutta la difesa sul fatto che il colpevole deve essere un estraneo alla famiglia, ma contro Michele Perruzza c’è la prova del sangue della piccola trovato nella sua biancheria intima e la testimonianza di una vicina, che quella notte l’aveva sentito gridare «Cristina è morta! Cristina è morta!».
Quando Michele viene condannato all’ergastolo, a Case Castella si festeggia chiassosamente con i fuochi d’artificio, i brindisi in strada e la musica della banda comunale. Per il processo d’appello di due anni dopo, Michele prende dei nuovi difensori. I quali dichiarano subito che l’avvocato precedente, avendo già difeso il figlio, era in pieno “conflitto d’interessi”. Ma la pena all’ergastolo viene ribadita anche in secondo grado, soprattutto perché stavolta Mauro torna a testimoniare contro il padre (forse perché non si sentiva più “protetto” dai nuovi avvocati).
Nel 1997 viene celebrato un cosiddetto processo-satellite nel tribunale di Sulmona, non per l’omicidio, che ormai è stato confermato anche in Cassazione, ma perché Mauro, in una delle sue dichiarazioni sempre diverse, aveva accusato entrambi i genitori di averlo costretto alla prima confessione. Gli avvocati di Michele, invece, approfittano dell’occasione per smontare proprio l’accusa di omicidio, con due clamorosi colpi di scena.
Una perizia dimostra che Mauro non poteva avere visto il padre mentre uccideva Cristina Capoccitti perché a quell’ora faceva troppo buio nel capanno, la seconda dimostra che sugli slip maschili sporchi di sangue trovati in casa c’è il dna di Mauro, non quello del padre. Questo significherebbe che era il figlio a indossarli quella sera. Il tribunale assolve Michele (e la moglie) dall’istigazione alla calunnia, affermando che «l’autoaccusa di Mauro per l’omicidio, lungi dall’apparire una costruzione di fantasia, si pone come credibile». In pratica, per questi giudici, l’assassino è proprio il figlio.
Ma la Procura generale dell’Aquila, a capo della quale nel frattempo è stato nominato uno dei giudici che avevano condannato in precedenza Michele Perruzza, si oppone alla sentenza perché il tribunale di Sulmona sarebbe andato al di là delle sue competenze. Purtroppo il destino di quest’uomo è sempre dipeso da persone che, per forza di cose, non potevano essere neutrali: prima l’avvocato del figlio gli fa cambiare linea difensiva, poi il giudice che l’ha condannato scredita chi lo assolve.
La Cassazione concorda con la procura dell’Aquila dal punto di vista formale, ma implicitamente consiglia a Michele Perruzza di chiedere un processo di revisione, nel quale far valere le nuove prove. Nel 2001, l’eventualità del processo di revisione viene discussa in Molise, alla Corte d’appello di Campobasso. Tuttavia la Corte d’appello rigetta questa possibilità perché le prove portate non sarebbero sufficienti per riaprire il caso.
Il 23 gennaio del 2003, Michele Perruzza muore di crepacuore nel carcere romano di Rebibbia, dopo aver utilizzato le sue ultime forze per gridare: «Dite a tutti che non sono stato io!». Ai suoi funerali, ai quali non partecipano i familiari, uno dei suoi avvocati che l’avevano difeso gratis, Attilio Cecchini, mette una mano sulla sua bara dichiarando: «Sulla tua tomba vorrei scrivere “Michele Perruzza ergastolano innocente, simbolo di una giustizia ingiusta”».
Anche molti giornalisti, che all’inizio lo avevano definito “il Mostro di Balsorano” nel frattempo hanno cambiato idea sul suo conto, e scrivono articoli di dura critica nei confronti dei magistrati che avrebbero negato la possibilità a Michele di dimostrare la propria innocenza.
Sui muri della frazione Ridotti sono rimasti a lungo insulti scritti con la vernice contro Maria Giuseppina, vedova di Michele. Alcuni paesani l’accusano di avere sempre saputo tutto sull’omicidio e di aver inquinato e ingarbugliato la matassa in maniera inestricabile. La donna aveva chiesto il divorzio, ma la morte del marito era arrivata prima. Oggi vive nel Nord, dopo aver troncato i rapporti con tutta la famiglia.
Il figlio Mauro è stato adottato da una famiglia di un’altra regione e di conseguenza ha cambiato il cognome. I genitori di Cristina si sono trasferiti ad Avezzano, dopo aver chiuso per sempre la casa nella quale era cresciuta la figlia.
Davanti al cespuglio di more dove era stato trovato il corpo della bambina c’è una sorta di edicola votiva con le sue foto, alla quale la gente va in pellegrinaggio. Cristina Capoccitti riposa al cimitero, in una tomba su cui vengono portati sempre fiori freschi e nuovi pupazzetti. Non molto lontano c’è la spoglia tomba di Michele Perruzza, intorno alla quale è rimasto un ampio spazio vuoto perché nessuno vuole seppellire i propri cari vicino al “Mostro di Balsorano”.
(Per gli altri articoli sui delitti famosi pubblicati da Giornale POP clicca QUI).