BUONANOTTE DOLCE PENA: RICHARD BURTON, EDWIN BOOTH (E TEX WILLER?)

BUONANOTTE DOLCE PENA: RICHARD BURTON, EDWIN BOOTH (E TEX WILLER?)

Esistono film che, pur facendo parte di un sicuro palinsesto pomeridiano o a tutti gli orari sulle reti satellitari dedicate al cinema classico, sono stati dimenticati dagli addetti ai lavori di qualunque tipo e ricevono tenue e forzata critica su manuali e repertori. Uno di questi èIl principe degli attori(Prince of Players, 1955) che, pur godendo di notevoli qualità (benché nel contesto di un’opera biografica nata e realizzata in un’epoca di censure, equivoci e forzosi fraintendimenti) e mostrandosi oggi ricco di interesse e stuzzicanti letture intertestuali più che al suo tempo, non è nel novero delle tante rivalutazioni di cui sono spesso oggetto prodotti ben inferiori. A suo tempo ebbe un notevole successo negli Stati Uniti e negli altri paesi di lingua inglese, ma anche in Francia e da noi.Dal punto di vista artistico e popolare fu la conferma definitiva dell’allora ventiseienneRichard Burton, la cui intensa e splendida carriera teatrale era pressoché sconosciuta fuori dai territori anglofoni e, dopo il 1964, venne cancellata dalla notorietà dettata dal gossip internazionale e dal confronto con i successi paralleli della moglie Elizabeth Taylor, una vicenda che condizionò anche la critica quasi fino alla morte dell’attore nel 1984. Ebbene, per cominciare, raccontiamo come arrivò a questo film Richard Jenkins, poi autobattezzatosi Richard Burton. Richard Burton (1925-1984) Nato nel 1929 da una famiglia di poveri minatori, penultimo di tredici figli, Richard visse un’infanzia ben conosciuta dai lettori, una volta numerosissimi, dei romanzi di A.J. Cronin (specialmenteLa cittadellaeE le stelle stanno a guardare),Com’era verde la mia valledi Richard Llewellyn eIl grano è verdedi Emlyn Williams, a cui il destino del giovanissimo Richard fu legato per le sintonie strette con la sua vicenda personale e professionale.Per chi oggi avesse dimenticato o mai conosciuto questi titoli ricordiamo il loro racconto, crudo e realistico, ma anche pieno di epica speranza, della vita dei minatori di carbon fossile negli anni venti e trenta del Novecento: immersi nei pozzi oscuri, fuligginosi e insicuri, nel mezzo delle prime rivolte sindacali per rivendicare orari più umani e cure contro le malattie causate dalle polveri e i gas mefitici, dalla silicosi di cui morì anche la madre di Richard. Destinato a scendere anche lui in miniera, ribelle ed estroverso quanto forte di fisico, Richard fu anche carrettiere, spalatore di stallatico, scaricatore di materiale esplosivo e di macchinari altrettanto pericolosi se trainati da un mulo smagrito in sentieri sterrati e ardui.Con i suoi guadagni si dedicava agli studi in cui eccelleva, soprattutto negli esercizi di dizione, canto, recitazione di poesie e brani scespiriani adattati per le scuole dei poveri, utili anche alla sua passione per le coetanee femminili che incominciò a prediligere in età prepubere. Ciò spinse i suoi fratelli maggiori e il padre, ormai condannato all’alcolismo, a farlo concorrere, a soli dodici anni, alla borsa di studio per accedere agli istituti secondari.In questo fu aiutato dal suo insegnante, Philip Burton (dal quale poi volle prendere il nome come attore professionista), il quale, in seguito emigrato negli Stati Uniti, divenne un personaggio importante per la la diffusione della prosa radiofonica e televisiva come produttore e membro, già in patria, di un’élite di importanti personalità del palcoscenico, e in seguito del cinema (composta da John Gielgud, lo stesso Emlyn Williams, Terence Rattigan, Christopher Isherwood e John Van Druten), che l’accolse tra loro. Il giovane Richard era abbastanza sgamato per non comprendere che quel club di talenti era anche una compagine di amicizie omosessuali e, pur mantenendo per loro un sincero affetto, capì il rischio di sembrare niente di più che un servo di scena.Quando già nel 1943, grazie a loro, arrivò a interpretare ruoli importanti inPigmalionedi G.B. Shaw eIl mago inriposodi Williams, cercò l’approvazione di altri divi teatrali quali appunto Shaw, Michael Redgrave, Nigel Patrick, Jack Hawkins, John Mills, Roger Livesey e soprattutto Laurence Oliver.Ci riuscì. Tanto che tutti costoro, e proprio Olivier in particolare, non mancarono di metterlo in luce presso la stampa e avviarlo alla radio e alla tv dove, nel giro di un anno, era già famoso per il talento innato e quel suo aspetto ancora grezzo, duro, il volto segnato da una malattia infantile della pelle, ma in cui i suoi occhi azzurri, dolorosi e melanconici, si accedevano di un bagliore interiore non trascurato dal pubblico femminile. Non a caso non fu estranea al suo contratto con la Bbc un’attrice allora già molto affermata, Eleanor Summerfield, che aveva cinque anni più di lui. La quale si legò sentimentalmente al figlio del minatore e patrocinò una lettura memorabile deI miserabilirimasta famosa mentre, sulla Gran Bretagna, cadevano le bombe degli stuka tedeschi.Arruolatosi nella Raf diede il suo contributo alla battaglia d’Inghilterra senza comunque smettere di recitare durante l’esperienza militare. Il suo esordio in tv avvenne con la citata pieceIl grano è verdenel 1944, che poteva davvero sembrare modellata sulla sua vita adolescenziale, e si può comprendere quanto Richard la considerasse con passione.Il testo racconta di una sensibile ed energica insegnante, Miss Moffatt, la quale, trasferitasi in una cittadina di minatori, si prende cura di un giovane, Morgan Evans, che porterà a emendarsi attraverso lo studio e la coscienza delle sue capacità interiori.Nella versione in studio, Richard interpretava Morgan e Mary Newcomb il ruolo della Moffatt che, al cinema, l’anno dopo, andrà a Bette Davis, invecchiata dal trucco ma non abbastanza, nella versione Warner Bros che segnò il debutto, come Morgan, di John Dall, allora effettivamente legato a E.Williams, al quale non arriderà una carriera altrettanto folgorante come quella di Burton. Durante il suo debutto cinematografico (inLast days of Dolwyndel 1949, inedito in Italia sebbene il testo teatrale di E. Williams fu tradotto suIl dramma, come si usava, e portato in scena con Vittorio Gassman ed Elena Zareschi, che interpretò Moffatt ancora nel 1961 alla Rai con Gabriele Antonini e un giovanissimo Antonio Salines) conobbe Sybil Williams, lontana parente dell’autore che interpretava un ruolo minore.Tra i due nacque la passione e si sposarono.Il loro matrimonio, da cui nacquero due figlie, durò fino al 1964. Dopo il successo a Broadway della versione diIl grano è verde,Darryl Zanuck, il capo incontrastato della 20th Century Fox e il più sensibile tra imoguldelle majors hollywoodiane, gli fece un contratto di cinquantamila dollari a film e lo fece esordire come protagonista maschile al fianco di una star affermata come Olivia De Havilland, nella non facile trasposizione per lo schermo diMia cugina Racheleda Daphne Du Maurier.I toni asciutti con cui Richard Burton diede linfa vitale alla straziata esistenza di Ashley, il nipote che poi tale non è, piacquero tanto alla critica quanto al pubblico e ne fecero, nel 1952, a ventitré anni, un divo dal mattino alla sera.Fu candidato all’Oscar e vinse il Globe come attore esordiente. Ma il suo vero successo fu il prodotto successivo,La tunica(1953), tratto dal turgescente e colorato dramma di senso e fede, peccato e redenzione, raccontato da Lloyd C. Douglas in un romanzo di richiamo (uscito in Italia l’anno dopo in corrispondenza all’arrivo del film da Rizzoli) benché la fama della pellicola fu orchestrata fin da prima delle riprese, trattandosi del primo caso in assoluto di uso del Cinemascope. Il figlio del minatore si trovò immerso in un cast nutrito di star inglesi e statunitensi, nei panni del tribuno Marcello con al fianco la londinese Jean Simmons, sua coetanea ma con alle spalle già una brillante carriera decennale sul palcoscenico e al cinema anche come Ofelia nel miticoAmletodi Oliver e ironica regina d’Egitto nella versione schermica diCesare e Cleopatradi G.B. Shaw con Claude Rains nei panni dell’imperatore. Ma accadde, per iniziativa di un troppo sollecito clan giornalistico, che Burton, già nominato“attore europeo dotato di maggiore sex appeal dell’anno 1953”da un potente club femminile, si trovasse invischiato in un falso legame sentimentale con la Simmons nella finta realtà perbenista del gossip hollywoodiano.Lei era sposata dal 1950 con Stewart Granger, con il quale era giunta negli Usa, e anch’egli immediatamente sotto contratto della Mgm.Ciò causò un disguido legale tra la Fox e la Metro al punto da costringere le due società, entrambe accusate dalla procura di Los Angeles di notizie false a scopo promozionale, a dibattere una cospicua somma di risarcimento benché non fosse chiaro se dovesse essere versata da Zanuck che aveva reclamizzato Burton o da Louis Mayer che aveva promosso la Simmons. Come spesso succede, le due società finirono con l’accordarsi eLa tunicane ricevette un’altra mirabolante spinta pubblicitaria che, se vi furono, coprì ampiamente le spese legali.La Fox si assicurò un seguito altrettanto colossale (e l’unico caso a breve termine in questo genere di film) conI gladiatori(1954), dove compariva Victor Mature, coprotagonista con Burton deLa Tunica, e Susan Hayward quale perfidissima Messalina. Prima di decidersi a varare questo progetto, Zanuck chiese a Burton se non avesse preferito un colossal di altra collocazione storica per riutilizzarlo immediatamente nel grande successo che, anche per l’uso del Cinemascope, stava diffondendosi in tutto il mondo.Da Mayer gli arrivò l’offerta di duplicare il cachet se fosse passato alla Mgm. In questi frangenti, giocò lo spirito del figlio del minatore, dell’attore che era divenuto un divo partendo da un sobborgo gallese e, seppur nascostamente, si sentiva ancora un laburista nel bel mezzo della caccia all’eversivo.E quindi scelse di rimanere con la Fox e girareIl principe degli attori, stuzzicante la sua vocazione teatrale, e proposto da Philip Dunne (sceneggiatore, con ilblacklistedAlbert Maltz, deLa tunica) il quale si assunse una delle sue rare regie e la produzione esecutiva oltre all’opzione di poter mettere le mani nella sceneggiatura, tratta da un romanzetto di Eleanor Ruggles (uscito in Italia nello stesso 1955 da Baldini & Castoldi), una stimolante e accurata realizzazione della vita diEdwin Booth, membro della più nota famiglia di attori americani prima dei Barrymore, il quale, benché la sua fama non si fosse ancora spenta negli anni cinquanta, la pubblicista da due soldi e il cittadino medio ormai stentavano a non confonderlo con il fratello John Wilkes, anch’egli attore ma soprattutto assassino di Lincoln. Edwin Booth (1833-1893) Per il copione venne scelto Moss Hart, famosissimo allora e nei decenni a venire, in coppia con George S. Kaufman, come autore di commedie esilaranti e a sfondo satirico con enorme popolarità al box office di Broadway, ma anche per i film che ne erano stati tratti, tra cui ricordiamoNon te li puoi portare appressoeIl signore resta a pranzo(intitolati per il cinema nostranoL’eterna illusione– di Frank Capra per la Columbia – eIl signore che venne a pranzodi William Keighley della Warner Bros) noti anche da noi per essere due cavalli di battaglia teatrali di Gino Cervi, che riuscì a portarli anche in tv negli anni sessanta. Moss Hart (anche autore di libretti per Irving Berlin, Rogers Edens e Cole Porter) poteva sembrare il meno adatto a sceneggiare una storia assai drammatica, ma nella sua scelta giocarono l’immensa fama di scrittore di teatro e la sua competenza privata sulla storia del palcoscenico americano di cui era ritenuto uno dei maggiori esperti.Del resto Zanuck e Dunne si riservarono di controllare che non deviasse in toni di divertissement. Ma quale era stata l’importanza cruciale della famiglia Booth e in special modo di Edwin (detto Ed) nell’America di primi cinquant’anni dell’Ottocento e dopo? Il patriarca Junius Brutus Booth Senjor, inglese, figlio a sua volta di attori, amico e sodale del grande Edmund Kean (da noi reso un prototipo di “genio e sregolatezza”, negli anni cinquanta, da Vittorio Gassman, accentuandone assai i toni melodrammatici e gigioneschi, sia a teatro, in tv, e al cinema con il supporto tecnico di Francesco Rosi), con il quale aveva recitato prima di lasciare la patria, la moglie Agnes (anch’essa grande interprete sino alla fine nel 1897) e il suo primo pargolo.Si era infatti innamorato follemente di una fioraia dell’East-end londinese dalla quale ebbe poi otto figli tra cui quattro morti precocemente e l’ultimo, considerato il suo erede, deceduto durante la sua prima riapparizione nel Regno Unito e quindi sostituito come tale, al ritorno in Usa nel 1836, dal penultimo: John Wilkes detto Jack o Johnny. Junius portò, nell’America ancora assai lontana dai fasti delle scene europee, una recitazione più asciutta, una perfetta dizione, una interpretazione variante ma geniale di tutti i maggiori testi scespiriani, per cui ottenne vastissima fama sia nelle città della costa occidentale che nel West dove si recò più volte creando una tradizione che subissò le farse da due soldi che, molti anni dopo, resero famoso come Buffalo Bill, prima del famoso circo, l’ex cacciatore di bisonti William Cody grazie allo scrittore didime novelNed Butline, riciclatosi come allestitore di farse ingenue e irrealistiche.Per la cronaca, sia Cody che Butline appaiono, in un realisticamente similare contesto metropolitano, benché accolti con maggior simpatia, secondo una tradizione che risale al numero 82 della serie regolare diTex Willer(La sfida, uscito nell’agosto 1967). Nel capolavoro di John FordSfida infernale(1947), assistiamo all’attore Granville Thorndyke, dal fisico rotondo e la propensione all’alcol, recitareAmletoin un saloon dove viene salvato dalla violenta ignoranza del pubblico dal personaggio mitologico Doc Holliday, il dentista turbercolotico che partecipò alla sfida all’Ok. Corral il quale, nel film, continua a riprenderne i versi zittendo la marmaglia.Poiché il regista non si pronunciò mai a riguardo, si diffuse, anche nella storiografia cinematografica italiana, l’idea che questo sfortunato e infelice mattatore ante litteram (poi ripreso dallo stesso attore – Alan Mowbray, anch’egli londinese di nascita – sebbene con toni assai più disillusi, inLa carovanadei mormoni, altro capolavoro fordiano del 1950) si riferisse a Edwin Fitzgerald Foy, noto come Eddie Foy e il cui figlio Eddie Foy junior fece in tempo a comparire nella biografia musicale dell’illustre collega George Mc Cohan (Ribalta di gloria, 1942) nei cui panni James Cagney canta, balla, e fa propaganda agli Usa ormai in guerra. Però, secondo studi recenti rifattisi alle ritrovate testimonianze degli sceneggiatori (raccolte da Patrick Ford, nipote del maestro, e dal regista-cinefilo inglese Lindsay Anderson) basandosi sulla risonanza di Foy quasi esclusivamente nel repertorio vaudeville composto di operette e testi comici – il personaggio, sebbene collocato qualche decennio dopo, sarebbe ispirato a Junius Brutus.Poco male se, in realtà, non visse mai episodi simili, ma semmai rese William Shakespeare autore amato e atteso nei raduni di cowboy, nei villaggi mobili dei cercatori d’oro, persino tra gli schiavi delle piantagioni a cui i padroni, nella loro crudele grettezza, non sapevano quale effetto poteva esercitare ilbardo immortalese l’istrione metteva in risalto i brani più emozionanti, ma anche interpretabili come amaro giudizio sulla condizione degli afroamericani. Da parte mia, che credo di aver studiato abbastanza Patrick Ford, non penso sia possibile (e nessuno ci è riuscito) sapere cosa avesse in testa, benché propenda che, per la sua generazione, fossero più familiari i Foy che morirono rispettivamente nel 1928 e nel 1983.Per cui poteva aver visto benissimo il padre da quando era bambino sino ai trent’anni inoltrati, e il figlio, figura minore ma familiare in Usa sino al ritiro nel 1977; nonché avere assistito al successo delbiopiccon Bob Hope (Eravamo settefratelli, in originaleThe seven little Foysriferito alla prole del capostipite) nell’agosto del 1955.E Ford non era certo immune al lasciarsi trascinare dalle memorie infantili, né dall’umorismo battutista di un istrione come Hope in uno dei suoi film migliori. La storia personale di Junius Brutus in America, pur contenendo tanti richiami psicologici al giovane Richard Burton quanto al figlio Ed interpretato inIl principe degli attori, fu baciata da un enorme successo.Bisogna pensare quanto a quei tempi, specie nei territori tra le due coste, anche la povera gente, gli emarginati e i derelitti, trovassero nella declamazione di Shakespeare un contraltare alla loro vita, tutt’altro che avventurosa, spesso monotona e segnata dal ripetersi delle sfortune e con paghe di fameE questo il film lo illustra molto chiaramente. Dopo la morte del figlio a Londra, e altre ragioni che sarebbe inutile psicoanalizzare con 170 anni di ritardo, Junius iniziò a manifestare segni di depressione sfocianti in manifestazioni eccentriche (il funerale del suo cavallo) e soprattutto all’alcolismo che lo induceva a far saltare gli spettacoli facendo vita di taverna, oppure ritirandosi nel suo ranch nel Maryland dove possedeva un allevamento di equini e viveva la sua unica figlia femmina, Asia, presto chiamata a sostituire la madre. Il film inizia con un prologo, nel 1848, quando l’adolescente Ed accompagna il padre nelle sue ultime tournée e, prima di ogni spettacolo, lo deve trascinare via dall’osteria dove si sta ubriacando.Poi, durante la recita, il ragazzo siede nella buca del suggeritore, corregge i testi, impara a fare teatro seduto tra la gli acari e le pulci. In questo preambolo vediamo Junius Brutus cimentarsi in un’impresa accaduta, in realtà, molti anni prima, all’inizio della sua prima apparizione in America, quando il pubblico vedendolo (non misurava più di un metro e sessanta, era magrissimo e con le gambe arcuate ma, quando indossava il costume di scena, diveniva un credibile Otello o Amleto) si mise a protestare, urlare, insultare.Allora Junius si presentò sul palco, muto finché il clamore cessò, e poi disse:“Massa di bifolchi, abbiate la compiacenza di aspettare qualche minuto e vi darò il migliorRiccardo IIIche avrete mai visto”.Qui l’episodio, senza perdere il suo significato, accade per il clamoroso ritardo con cui Ned e l’impresario Prescott riescono a rimetterlo in sesto. E qui si presenta un punto debole del film, in quanto l’attore scelto per interpretare Junius Brutus fu Raymond Massey, canadese e allora divo del teatro americano, che era alto e robusto e, a maggior differenza del personaggio, non aveva invece il volto bello, il profilo greco, immortalato nelle immagini sui giornali e i cartelloni.Ma bisogna convenire che Massey, pur quasi sempre relegato dal cinema in ruoli divillain,se la cava benissimo a dare, in poco tempo, il senso di disagio interiore che si è impadronito di Junius.Infatti, nonostante i suoi sempre più frequenti ritorni nella fattoria in Maryland, dove John Wilkes bambino dà mostra di saper imitare perfettamente il padre, le sue forze sono alla fine. Quattro anni dopo, a San Francisco, sempre insieme ad Ed (che ora ha quasi vent’anni ed è Richard Burton) si rende definitivamente conto di aver perso la memoria e lascia il suo posto al figlio che, prima della sua interpretazione delRiccardoIIInello spettacolo successivo a New York, si comporta come Junius quando il pubblico lo sommerge di insulti aspettandosi il padre e non il figlio.“Silenzio! Seduti. Seduti! Sì! Sono il figlio. Non il padre! Ma state zitti cinque minuti e vi darò il più granRiccardoche avrete mai sentito!”. Ed ecco che, da quando rientra in scena con la corona in testa e la gobba, comincia l’opera vera e propria.Edwin Booth recita così bene che lascia il pubblico in stato di catalessi, prima di sommergerlo di applausi. Ora però quel che è lecito chiedersi è: chi ha veramente recitato nel ruolo del re malvagio e crudele in cui tanti istrioni e maestri si sono cimentati, compreso Olivier in un davvero memorabile film dello stesso 1955 (con un preludio nell’autentico Old Vic, doppiato ancora da Cervi nell’edizione italiana) che uscirà in Usa solo nel 1956 tagliato di quasi mezz’ora, ma otterrà un enorme richiamo nella riedizione completa (161’) di dieci anni dopo, nel 1966? È Edwin Booth o Richard Burton a svolgere il ruolo che, si sa, è tanto più affascinante quanto Riccardo appare ambiguo e contorto nella sua ambizione, nel suo conflitto cardiaco tra bene e male ?La soluzione al quesito è il senso di questo film, diIl principe degli attori. Infatti, sul palcoscenico ricostruito nella pellicola, noi vediamo e ascoltiamo Richard Burton che recita Edwin Booth, il quale recita secondo la lezione di Junius Brutus Booth e la cui discendenza manterrà intatta una tradizione di realismo, scioltezza, passione recitativa che i Booth portarono in America nell’Ottocento, quanto Burton la porterà nell’America degli anni cinquanta, prima dell’Actor’s Studio e delle tortuosità di Marlon Brando ed Elia Kazan. È impossibile rispondere alla domanda. Il senso del film è che non sapremo mai quanto Burton sia Ed Booth e quanto Ed Booth sia stato Burton. Del resto, come consulente scespiriana, venne chiamata, con un posto di eccezione nei titoli di testa del film (in cui anche vi recita nel ruolo di Gertrude in un brano diAmleto) Eva La Gallienne, famosa attrice di origine inglese ma statunitense d’adozione, conosciuta anche per gli scandali suscitati dalle sue relazioni, allora cinquantaseienne ma con alle spalle e dinanzi una carriera durata ottantun’anni tra premi, affermazioni e temporanee emarginazioni. Questo personaggio curioso, dalla competenza più estrosa che rigorosa, fu la prima, già durante la ricostruzione delle rappresentazioni scespiriane, a porre l’interrogativo a Dunne e a Moss Hart.Rese così costoro ancor più sereni nella convinzione che Burton fosse l’unico a poter rappresentare Edwin Booth. Del resto il copione di Hart, per mantenere nella lunghezza canonica l’opera pur composta per il sessanta per cento di scene in cui Edwin Booth-Richard Burton recita, taglia completamente le figure di Junius Brutus Jr e Joseph Adrian (nonché il nonno Richard Belair Booth – attore anche lui, ovvio ribadirlo – che raggiunse Junius senjor negli Usa dal 1823), che furono non solo fratelli maggiori ma anche sostenitori e produttori di Edwin nella sua lunga carriera. Mentre le figure dei diversi impresari è sintetizzata da Prescott, il quale, con la figura amica e paterna di Charles Bickford, concentra su di sè anche queste figure. Edwin si vede quindi quasi sempre solo di fronte al pubblico.Gli attori di contorno (quasi tutti interpreti scespiriani presi dalla compagnia di Eva Le Gallienne) contano pochissimo come quello che, dovendo concludere decantando fatti e misfatti di Riccardo III, lascia perdere e getta via la spada di fronte agli applausi e alle esclamazioni di consenso di cui è coperto il protagonista. Il film raggiunge una sua delicata poesia sia nell’incontro tra Mary Devlin (Maggie McNamara) recatasi a cercare Edwin, ospite in un bordello e in ritardo sulle prove di unRomeo e Giulietta. Il principe degli attori (Prince of Players, 1955), Richard Burton e Maggie McNamara (1928-1978) Di fronte all’atteggiamento stralunato dell’attore, Mary lo richiama al dovere recitando Giulietta e qui pronuncia il brano:“Oh Romeo, Romeo, perché sei tu Romeo?(…)Cos’è un nome? Ciò che chiamiamo rosa, con qualsiasi altro nome avrebbe lo stesso profumo, così Romeo, se non si chiamasse più Romeo, conserverebbe quella cara perfezione che possiede anche senza quel nome. Romeo, getta via il tuo nome, e al suo posto, che non è parte di te, prendi tutta me stessa(…).Buona notte. Buona notte. Buona notte. Dolce riposo e pace scendano sul tuo cuore, come quelli che stringo nel petto. Buona notte. Buona notte. Buona notte. Separarci è così dolce pena che dirò buona notte sino a domani”. Quest’ultima frase è quella che risuona nella mente di Edwin quando, rimasto solo dopo la morte di lei, raccoglie il suo primo successo dopo i fatti che l’avevano coinvolto ingiustamente nell’assassinio di Lincoln compiuto dal fratello, mentre gli spettatori, smettendo di inveire di fronte alla sua tacita fermezza, lo accolgono con un applauso iniziale. Pur essendo raccontata con tutte le censure e le cesure di una biografia cinematografica di quel tempo, la storia d’amore (il matrimonio quasi immediato; la luna di miele vissuta tra i due con passione profonda e dolcissima sebbene tra i continui ripassi delle battute; la tournée in Inghilterra con la consacrazione europea di Edwin Booth; la malattia di lei e la nascita della figlia Edwina, futura attrice anch’ella) è narrata con una tenerezza che lasciò il pubblico americano esterrefatto e commosso fin dall’anteprima.