Categories: Enogastronomia

ALBERTO GRANDI, LA CUCINA ITALIANA È UN’INVENZIONE

Nel 2018 è uscito per la collana Gaia di Mondadori il volumetto: “Denominazione di origine inventata” di Alberto Grandi, con il sottotitolo: “Le bugie del marketing sui prodotti tipici italiani”. Alberto Grandi è uno storico che insegna Storia delle imprese e Storia dell’integrazione europea. È un professore associato all’Università di Parma, nato a Mantova nel 1967. Geppi Cucciari intervista Alberto Grandi Il professore sostiene di  non aver scritto nulla di nuovo e di rivoluzionario. Le sue tesi sono note da tempo e condivise dagli storici dell’alimentazione. Ciononostante le polemiche sui social sono infuocate. Il professor Grandi è accusato di aver leso l’onore della cucina italiana. Nel primo capitolo di “Denominazione di origine inventata” Alberto Grandi sostiene che la cucina italiana non deriverebbe dall’antica cucina romana o dalla cucina dei barbari, come si illudono gli italiani. Si sarebbe formata negli anni settanta del Novecento e avrebbe acquistato la fama che la circonda con un’abile operazione di marketing degli addetti alla nascente industria del food italiano. La cucina rinascimentale e quella barocca erano cucine signorili, internazionali completamente diverse da come intendiamo noi la cucina. Il popolo era poverissimo, aveva problemi di sopravvivenza e, secondo lui, mangiava tutto quello che gli capitava a tiro. Per questi motivi, dice Grandi, sicuramente i poveri contadini italiani non potevano permettersi di fare i sofisticati. Personalmente, ho un ricordo molto diverso da quello che afferma Grandi. Mia nonna e i miei familiari erano molto sofisticati, molto di più di quanto lo siamo noi adesso. La verdura doveva essere freschissima per cui mia nonna spediva mio nonno a raccoglierla nell’orto avanti e indietro più e più volte, mentre preparava il minestrone di verdure. Il coniglio doveva essere allevato con erba non bagnata perché l’erba bagnata lo avrebbe fatto gonfiare, fermentando. La salsa veniva prodotta in proprio in modo casalingo con pomodori perini San Marzano, coltivati da mio nonno, a perfetta maturazione. Tutti erano terrorizzati dal timore di beccarsi il botulino (tossina che si sviluppa in alimenti non conservati perfettamente), il tifo e qualche infezione da cibo avariato. La cultura  della ricerca e della raccolta era ancora viva: i boschi erano intatti. Raccoglievamo funghi porcini, funghi reali, cicoria, asparagi selvatici, lumache. I miei zii erano cacciatori di lepri, fagiani e i piccoli cinghiali autoctoni Negli anni della mia infanzia e della mia fanciullezza (diciamo fino al 1960) non ho mai  mangiato il vitello tonnato conservato all’antica (l’antenato di quello odierno) di cui si favoleggia, cioè nel barile con aceto, olio, acciughe e capperi. Da questo modo di conservarlo deriverebbe il termine vitello tanné, non tonné, cioè conciato. Purtroppo all’epoca non era di uso comune il frigorifero, che cominciò a essere commercializzato negli anni cinquanta per merito della Ignis. I cibi deperibili si conservavano in un cestino in fondo al pozzo per i fortunati che avevano un pozzo. La carne di vitello compariva a tavola, ma solo la domenica. Se il nonno aveva venduto una bovina al macellaio allora faceva un contratto per cui andava a ritirare un chilo di bistecche da cucinare alla milanese o un pezzo di bollito la domenica, quando usciva da messa. E così, una volta la settimana mangiavamo la carne. Effettivamente, se devo essere sincera, il vitello tonnato come lo conosciamo oggi comparve negli anni settanta, quando cominciammo ad andare al ristorante ai pranzi di nozze. Fino a quel momento, complice la povertà e la guerra, la gente comune si sposava in sordina. Mia zia, mio padre e mia madre impararono a fare la maionese, chiedendo in giro ai cuochi dei signori, e quindi a fare il vitello tonnato. Per quanto riguarda questo piatto potrebbe essere vero quello che dice Grandi. Non sarebbe un piatto antico e, comunque il piatto antico, con quel nome, era molto diverso. Mi piace pensare che qualche addetto al marketing del tonno in scatola abbia creato il racconto della nascita di questo piatto geniale partendo dal vitello tannè per favorire la vendita del tonno. Infatti la vendita del tonno in scatola è esplosa fra i settanta e gli ottanta. Negli anni settanta la crisi dell’industria italiana (“l’autunno caldo” del 1969) ha spinto le industrie legate al cibo italiano a modificare il racconto del passato e a creare il mito della cucina italiana. Certo, gli italiani si ricordavano la fame, la grande fame e la guerra. Più mio padre forse che mia nonna. Mi raccontava che un giorno, una domenica del 1943, vide mia nonna che piangeva con la faccia nel grembiule. Mio padre le chiese che cosa fosse successo e lei, singhiozzando, gli disse che erano tredici e lei non aveva nulla da mettere in tavola. I miei nonni ospitavano i figli, i nipoti, cugini e conoscenti sfollati ai quali avevano bombardato la casa. Allora mio padre, disperato, andò a cavare da sotto terra un campo di patatine novelle. Mia nonna fece gli gnocchi. Mio padre giurò a se stesso che non si sarebbe mai più trovato in una situazione simile. Notate che cavare le patatine novelle per fare gli gnocchi è un delitto e uno spreco sia perché occorrerebbero vecchie patate di montagna asciutte sia perché le patatine novelle sono piccole. Quando al lavoro offrirono a mio padre un sacchetto di semi di rapa accettò. Arrivò a casa e, poiché nessuno voleva aiutarlo, perché tutti schifavano le rape, si fece aiutare da mia madre che trascinò il bue per arare. Quando le rape furono a maturazione andarono a ruba perché non c’era niente di meglio da mangiare. Ricordo molto bene gli anni cinquanta e sessanta, e ricordo che cosa mangiavamo. Cucinava mia nonna, che era considerata una gran cuoca non solo da noi familiari. Certo, eravamo poveri, ma eravamo tutti poveri. Non esistevano tanti oggetti, tanti cibi, tanti vestiti. I borghesi, i professionisti potevano avere un cappotto di pura lana confezionato da una sarta migliore di quella che aveva confezionato il nostro, ma ne avevano solo uno come noi. Mia nonna metteva nella pentola di coccio sul fuoco della stufa la verdura fresca appena raccolta nell’orto da mio nonno, che andava avanti e indietro, cristonando. La cucinava tutti i giorni, tranne la domenica. Per insaporirla usava una fetta del trancio di lardo che conservava appeso al soffitto della freddissima camera da letto. Il maiale era allevato da mio nonno che lo curava come fosse uno di famiglia. In inverno, quando faceva molto freddo arrivava il norcino di fiducia, il macellaio specializzato che girava per le case, il quale lo macellava e faceva i salami e il lardo. Io sono nata l’otto febbraio perché a mia madre si sono rotte le acque in quanto aveva alzato una pesante tavola sulla quale il norcino aveva fatto i salami e le salcicce. Il norcino lavorava con l’aiuto di tutta la famiglia, naturalmente. Benché l’invenzione del dado da brodo risalga al 1850 (barone Von Liebig), nella cucina di mia nonna non esisteva. L’insaporitore per eccellenza era il soffritto che rosolava con il lardo. Fu un chimico sardo immigrato in Brianza, Giovanni Nughes di Santu Lussurgiu, che nel 1948 creò, presso la Star (Stabilimenti Alimentari Riuniti s.r.l.), la ricetta del dado da cucina. Il prodotto ebbe talmente successo che, immediatamente, il dado Star fu il più usato in Italia. Lo slogan recitava “Doppio brodo Star” e il dado fu venduto in milioni di confezioni: nel video appare in unCarosello(1957-1977), la trasmissione pubblicitaria preserale. L’olio d’oliva

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