GERMANA STEFANINI, CONDANNATA A MORTE NEL 1983
Roma, 11 maggio 1983. Al civico 3 di via Torreglia, gli agenti della Digos scopronoun covo terroristicodeiNuclei per il potere proletario armato, un movimento di estrema sinistra composto da giovani fiancheggiatori delleBrigate Rosse.All’interno dell’abitazione le forze dell’ordine rinvengono il drappo rosso dell’organizzazione, alcuni bossoli e una fotografia che ritrae il “processo proletario” subito alcuni mesi prima daGermana Stefanini, 57 anni, invalida civile e vigilatrice del reparto femminile del carcere romano di Rebibbia, uccisa con un colpo di pistola alla nuca. La polizia arresta l’affittuario dell’appartamento, uno studente di architettura:Valerio Ruffo Albanese, venticinque anni, figlio di un generale dell’esercito e della preside di un rinomato liceo romano. Risultano invece autori dell’omicidio Stefanini il ventisettenneCarlo Garavagliae i ventitreenniFrancesco DonatieBarbara Fabrizi. Saranno arrestati qualche giorno dopo durante un tentativo di rapina a un ufficio postale. Nel pomeriggio del 28 gennaio 1983, Germana Stefanini viene bloccata nella propria abitazione al ritorno dalla giornata lavorativa presso il carcere di Rebibbia. Dopo aver messo a soqquadro l’appartamento e prima di eseguire la condanna a morte, i terroristi sottopongono la donna a un interrogatorio. Tra i materiali sequestrati dagli agenti all’interno del covo di via Torreglia vi è anche un’audiocassetta che custodisce l’audio dell’intero “processo”. Ne riportiamo di seguito alcuni momenti. D.«Quanti anni hai?» R.«Cinquantasette.» D.«Sei sposata?» R.«No.» D.«Hai la licenza media?» R.«No.» D.«Che c’hai?» R.«La quinta elementare.» D. «Perché hai scelto questo mestiere?» R.«Perché non sapevo come poter vivere, è morto mio padre… Mio padre è morto nel ’74 e nel ’75 sono entrata a Rebibbia perché non sapevo come poter vivere.» D.«Che funzione hai?» R.«Come che funzione ho?» D.«Che fai a Rebibbia?» R.«Io faccio i pacchi.» D.«Solo i pacchi?» R.«Sì.» D.«I controlli ai pacchi non li fate?» R.«No, io è poco che ci sto ai pacchi.» D.«Ah, è poco? Sono sei anni.» R.«Prima lavoravo all’orto. Reparto orto di Rebibbia.» D.«Controllavi il lavoro delle detenute?» R.«No, lavoravo pure io. Se parli con le politiche nessuna mi dice male, a me tutte me portano così. Io le ho sempre trattate bene. Loro c’hanno l’idea loro e io la rispetto.» D.«La rispetti chiudendole nelle celle? Facendo la vigilatrice?» R.«Non ci sono mai andata giù[alle celle, ndr.]non mi ci mandano, come faccio a dire che succede?» Germana Stefanini D.«Senti un po’ le trimestrali[vigilatrici assunte con contratto a termine, ndr]… dagli una sigaretta[rivolta a un altro terrorista, ndr], tu che fumi, la pipa? No, le Nazionali. Questa che è? Una Merit… Andiamo avanti. Le trimestrali per rimanere che devono fa’?» R.«Un concorso.» D.«Tu che hai fatto? un concorso?» R.«Io sono entrata come invalida.» D.«Perché ci sono posti riservati come ai ministeri?» R.«Siccome mio padre era invalido di guerra…» D.«Tuo padre era agente di custodia?» R.«No, era idraulico.» D.«Ma tu questo mestiere perché lo fai?» R.«Perché, morto mio padre dove andavo a lavorare? Dovevo andare a fare la donna di servizio ma non glie la faccio.» D.«Spiegaci come sei entrata a Rebibbia.» R.«Ho una cugina suora e lei me l’ha detto, perché lì non dovevo fare grosse fatiche e non dovevo tenere le mani a bagno. Io risposi: “proviamo”» R.«Io sono sempre stata appresso a mio padre e a mia madre. Ho avuto due sorelle malate, che poi sono morte, sono sempre stata a combattere con gli ospedali.» D.«Ma è il primo lavoro che facevi, questo?» R.«Sì, perché avevo papà invalido di guerra.» D. «Tuo marito che stava…» R.«Non sono sposata. Se avessi avuto marito, mi contentavo di quello che portava lui.» D.«Tu prendi la pensione?»