10 IMMAGINI ICONICHE DEL FUMETTO

10 IMMAGINI ICONICHE DEL FUMETTO

Quando un’immagine è iconica? L’etimologia non ci aiuta, poiché il termine icona deriva dal greco classico eikon che significa immagine. Un’immagine iconica è dunque una tautologia? O forse questa ripetizione va intesa come una elevazione al quadrato del termine immagine. Una specie di superimmagine capace di esprimere alla massima potenza tutti i significati dell’immagine originale?
Per lo Zanichelli l’icona è un’immagine sacra dipinta su tavola. Per il pittore realizzare un’icona equivaleva a pregare e a far pregare davanti a essa i credenti. Le moderne immagini iconiche sono forse l’ultimo rimasuglio di sacralità in una società completamente laica?
10 IMMAGINI ICONICHE DEL FUMETTO
Forse ci stiamo complicando la vita. Conviene andare a vedere cosa succede nella pratica.
Una immagine viene definita iconica quando la sua forza espressiva le permette di acquisire una sostanziale autonomia rispetto al testo scritto. Una tale immagine si basta da sola. Questa autonomia viene raggiunta dalle illustrazioni che riescono a rappresentare completamente un evento o una situazione, contenendo in origine o acquisendo con il tempo dati informativi autosufficienti per chi la guarda.

Una immagine iconica comunica immediatamente, senza ulteriori spiegazioni. Il fumetto è diventato, nel corso del Novecento, una forma d’arte in grado di dare vita a immagini fortemente iconiche, per l’estrema sintesi grafica e la forza espressiva che lo caratterizza. Analizziamo allora dieci immagini iconiche del fumetto.

 

Matt Baker

Negli anni quaranta Matt Baker era un fumettista afroamericano di successo, specializzato nel disegnare belle donne. Nel 1947 iniziò a lavorare sul personaggio di Phantom Lady, albo pubblicato dalla casa editrice Fox. Baker immediatamente apportò modifiche alla sensuale eroina e al suo costume. Le fece indossare un paio di cortissimi pantaloncini con spacchi sui lati e un top coordinato. Le piazzò una strettissima cintura a fasciarle la vita e un’ampia scollatura a incorniciarle il seno. Raggiunge l’apoteosi con la copertina di Phantom Lady numero 17. Un’immagine sicuramente iconica.

10 IMMAGINI ICONICHE DEL FUMETTO

Vediamo ritratta una ragazza al massimo della sua prorompente fisicità, una vera e propria esplosione di curve, contenute a fatica da un costume che più succinto non si può. Ti guarda dritto negli occhi, mentre cerca di liberarsi dalle corde che la legano. Un’immagine indimenticabile. Non solo per i lettori. Lo psichiatra Fredrick Wertham, nel controverso saggio “Seduction of the innocent”, la prese come esempio degli effetti nefasti che, secondo lui, i fumetti avevano sullo sviluppo psichico della gioventù americana. L’immagine di una donna tutte curve con le corde addosso avrebbe stimolato una sessualità “malata” che allude alla pratica sadomasochistica del bondage.

 

Jack Kirby

Jack Kirby è stato un genio dell’illustrazione. Lo era già nel 1954, quando uscì il primo numero di Foxhole, un albo di fumetti bellico per la quale disegnò anche le copertine. Le storie di Foxhole venivano realizzate da uomini che avevano effettivamente prestato servizio durante la guerra. Kirby era uno di quegli uomini. Era stato arruolato nel 1943 nell’esercito degli Stati Uniti e fatto sbarcare nella Francia occupata dai tedeschi, agli ordini del generale Patton. Nel novembre del 1944, durante l’assedio di Metz, rimase ferito e venne ricoverato nell’ospedale da campo.

10 IMMAGINI ICONICHE DEL FUMETTO

Tutto questo si vede e soprattutto si percepisce guardando la copertina del n. 1 di Foxhole.
L’immagine è assolutamente iconica. Kirby, contrariamente alle sue abitudini, prende spunto da un dipinto: “High Visibility Wrap”, realizzato dal pittore statunitense Joesph Hirsch nel 1945 (a meno che abbia rielaborato uno sketch del suo socio Joe Simon, ignorando l’origine dell’immagine – NdR).

10 IMMAGINI ICONICHE DEL FUMETTO

Il soldato ferito scrive una lettera sulla spiaggia dello sbarco con i medici che assistono una vittima sullo sfondo, tra soldati distesi a faccia in giù ormai non più bisognosi di cure. Non c’è nessuna retorica, nessuna enfasi eroica in questa immagine. Il volto completamente fasciato del soldato conclude il quadro. La sigaretta e il mitra ci parlano di un uomo indurito dagli eventi. Il fatto che scriva una lettera alla madre ci racconta di una persona che non ha perso la sua umanità. Le fiamme dei combattimenti, l’orrore, rimangono alle spalle, mentre l’occhio spaurito guarda verso il futuro.

 

Magnus

Che Kriminal non sia Diabolik ce lo siamo raccontati tante volte. Profonde differenze risultano al di là delle somiglianze superficiali. L’universo erotico che occupa tante vignette nelle avventure di Anthony Logan, per esempio, è assente nelle pagine delle sorelle Giussani. Quell’universo fatto di rigogliosi reggiseni a balconcino, di maliziose mutandine di pizzo, di morbidi collant in seta e di seducenti reggicalze appartiene soltanto a Kriminal, forse si dovrebbe dire soltanto a Magnus. L’autore bolognese ha sempre guardato alla sensualità femminile compiacendosi di disegnare belle donne in biancheria intima o nude, conferendo una incontenibile carica erotica persino alle ombre.

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Per Max Bunker, che scriveva i testi, il mondo è un posto sgradevole, brutto, sporco, cattivo e corrotto, dove non si salvano certo le donne, quasi sempre avide e traditrici. Se belle, sono  prostitute senza scrupoli che si vendono a chi paga di più. Questo atteggiamento diversificato verso il mondo femminile da parte dei due autori dà vita a un mix esplosivo che farà la fortuna del personaggio, almeno per i primi 50 numeri. A pag. 42 del n. 6 di Kriminal c’è una immagine iconica che ben riassume questa situazione. In uno scatto d’ira Kriminal solleva una donna sopra la propria testa senza sforzo apparente. La donna è bellissima, le sue forme sono seducenti e il suo (scarno) abbigliamento provocante. Tanto che quasi non pensiamo al fatto che sta per essere scagliata dalla finestra: ci spinge più a guardarla il desiderio. Difficilmente si era vista un’immagine così complessa nel fumetto italiano.

 

Hugo Pratt

Con Corto Maltese il suo autore Hugo Pratt inizia a costruire un mito. Lo comincia a fare dopo che per venti anni si è costruito una fama di disegnatore creativo e originale, anche se professionalmente senza molta fortuna. Con “La ballata nel mare salato”, dove forse per la prima volta può fare quello che vuole, Pratt raggiunge il massimo livello di complessità del suo disegno. Il segno è sottile, secco, nervoso, veloce, con l’uso massiccio di tratteggio per ombreggiare. Questo tratto si mantiene invariato nei successivi primi cicli di storie brevi, tra le quali spicca la prima: “Il segreto di Tristam Bentam”, del 1970.

La storia inizia con una didascalia posta in alto a sinistra, che inquadra in modo definitivo il principale personaggio prattiano e il suo mondo, soprattutto là dove lo definisce un “uomo del destino”. Tutto quello che non raccontano queste poche parole introduttive lo dice il disegno magistrale della prima vignetta. Un’immagine iconica che non trova riscontri nella precedente storia grafica del fumetto. Il protagonista è colto in una posa insieme rilassata e ieratica, naturalissima e non convenzionale, che lo racconta e lo definisce una volta per sempre. La sua figura giace incastonata in una complessa rete di linee prospettiche che la esaltano e la immergono in una dimensione senza tempo.

 

Neal Adams

A volte gli autori sono i peggiori giudici del proprio lavoro. Il critico Dan Greenfield racconta: “Ero seduto nello studio a Manhattan di Neal Adams, quando sua figlia Kris è entrata con addosso una maglietta decorata con la famosa immagine di Superman che spezza le catene di kryptonite. L’ho fatto notare e lei ha fatto un cenno verso il padre chiedendomi di domandare cosa ne pensasse. Gliel’ho chiesto e mi rispose: Odio quella copertina!, lasciandomi di stucco. Dopotutto quell’immagine è stata messa sopra a qualsiasi cosa cui puoi pensare, inclusi, più recentemente, i francobolli canadesi. Continuò dicendo: Mi ci sono volute solo due ore e mezza per farla. È solo spazzatura“.

“Piuttosto incredulo, ribattei che era iconica. E lui: Ho passato ore e ore su copertine che sono state ignorate. Questa l’ho fatta in sole due ore e mezzo e tutti la adorano. È incredibile.
La copertina di Superman n. 233 di Neal Adams è una immagine iconica perché celebra lo spirito di Superman quanto la sua forza: è un esempio per ciascuno di noi a non lasciarsi distogliere da qualsiasi ostacolo che si frapponga tra i nostri obiettivi. Una esortazione a spezzare le catene che ci imprigionano. Un purissimo inno alla libertà. In realtà Neal Adams non digerisce il fatto di essersi accorto troppo tardi che la posizione delle gambe di Superman non era perfetta…

 

Gil Kane

Gil Kane è un disegnatore di origini lettoni che lavorò a lungo per la Dc Comics durante gli anni sessanta sul personaggio di Lanterna Verde. Il suo era un disegno lineare attentamente costruito per esprimere tridimensionalità, ma inizialmente non si distingueva più di tanto dai molti eccellenti colleghi attivi nel periodo. Giunto alla Marvel nel 1970, probabilmente stimolato dalla forte energia creativa che a quei tempi sprigionava dalla Casa delle idee, il suo stile compie un salto di qualità. Kane inizia a estremizzare l’uso della prospettiva, con molte figure inquadrate di scorcio o da punti di vista anomali. Accentua ed esaspera le posture plastiche, sempre diverse e originali, e sottolinea le separazioni tra i muscoli a rimarcare la tensione dei corpi.

Raggiunge l’apice disegnando il personaggio di Warlock, il messia d’oro, contribuendo a realizzare uno dei momenti più alti degli anni settanta. Con la prima vignetta del n. 1 di Marvel Premiere ci regala un’immagine iconica.
Warlock è sospeso a mezz’aria in una posa che deriva da un attento studio della iconografia della crocifissione attraverso i secoli. Si tratta però di una crocifissione sui generis. Il soggetto è visto di tre quarti e non, come al solito, in una posa frontale. Anche se rilassato, il corpo di Warlock ha tutti i muscoli tesi ed esprime una profonda inquietudine.

 

Frank Miller

Frank Miller è un rivoluzionario. Con lui termina l’età dell’innocenza nei fumetti. Non nel 1986 con l’acclamato “Batman, the Dark Knight return”, ma qualche anno prima sulle pagine di Devil n. 181. Quando Bullseye lancia un affilato asso di picche nella gola di un tassista, quel piccolo lampo di sangue nero ci fa capire che qualcosa è finito per sempre. Lo shock è totale, è come se Miller avesse imbrattato la pagina di sangue vero. Certo, anche prima di Miller i supereroi venivano feriti, massacrati di botte, persino uccisi, ma non era mai successo con questo cinismo, con questo senso di ineluttabilità.


Frank Miller trasforma i pugni e gli spari quasi incruenti dei fumetti di supereroi in atti dalle conseguenze permanenti. A pagina 24 dello stesso numero di Devil, una potente immagine iconica suggella per sempre questa rivoluzione: Bullseye uccide Elektra. Non una semplice morte, ma un punto di non ritorno. E allora ecco che le trafigge il plesso solare con un colpo dal basso verso l’alto, impugnando il tiechi con due mani. La violenza del colpo è tale che il corpo stesso di Elektra viene sollevato. Con un ultimo rigurgito di pudore l’autore evita di mostrarci la punta dell’arma che fuoriesce dalla schiena, anche se le pieghe del costume della vittima stirate con forza all’indietro non risultano meno drammatiche.

 

Moebius

Nella sua essenza L’Incal di Moebius e Jodorowsky è la certificazione di un trapasso. Di un cambio di registro. Di uno scarto temporale. L’avventura si apre con un salto da un ponte, archetipo per eccellenza dell’inizio di una trasformazione, mentre il nome del protagonista, John the Fool, richiama una delle più note figure dei tarocchi, grande passione dello sceneggiatore. Jodorowsky sembra dirci: solo i pazzi sopravvivono.

Il vecchio mondo è finito e bisogna reinventarsi. Difool cade dal ponte non per suicidarsi ma perché vi viene buttato. Qualcosa lo strappa con forza dalla sua consueta realtà e lo scaraventa altrove. Sopravvivrà. Certo è che questa sensazione sconcertante di trovarsi all’improvviso catapultati in una realtà diversa dovette far parte dell’esperienza di vita di entrambi gli autori. Moebius la riassume da par suo nella iconica splash page di pagina 2, dove il protagonista si trova capovolto in caduta libera, costretto a fissare il fondo dell’abisso. Lontano dagli estetismi fini a se stessi di Arzack e del Garage eremitico, qui il grande disegnatore francese ritorna con successo al grande storytelling.

 

Andrea Pazienza

Per fare un fumetto bisogna partire dal segno, amava ripetere Andrea Pazienza. Ogni oggetto è depositario di un segno, o di una serie di segni, da cui nasce la matematica del segno, cioè il disegno. La ricerca di un’estetica in grado di raccontare il presente fu un’ossessione incessante per l’autore di San Benedetto del Tronto, che all’inizio degli anni ottanta si recò negli Stati Uniti a cercare il segno di quegli anni. Non lo trovò. E si trovò a dover testimoniare la fine delle utopie degli anni settanta e gli anni del riflusso utilizzando lo stesso vocabolario di segni.

In “Notte di carnevale”, la quarta storia di Zanardi pubblicata nel 1982, c’è una vignetta iconica che racconta in tutta la sua vaghezza, ma anche in tutta la sua drammaticità, la sconfitta di un’intera generazione. È la vignetta iniziale. È una vignetta capovolta. Racconta del sentirsi sottosopra. Un corpo nudo giace sopraffatto dalla vita, tra le lenzuola in una complicata inquadratura che Pazienza gestisce con invidiabile naturalezza. La stanza è assolutamente anonima, tranne che per un manifesto di Schifano. L’ultimo appiglio. Il salvagente dell’arte. O quello che ne rimane. La frase nel balloon dice tutto: “Non cosi solo”.

 

Rob Liefeld

A molti apparirà strano ritrovare in questa rassegna un autore che, se lo si cerca su Google, il primo risultato è una pagina intitolata “I peggiori 40 disegni di Rob Liefeld”. Tanti lo considerano il simbolo di tutto ciò che è andato storto nel fumetto americano degli anni novanta. Non dobbiamo dimenticare, però, che fu il suo disegno frenetico e pieno di tensioni muscolari a proiettare verso l’alto le vendite di New Mutants nel 1990 e a far raggiungere al n. 1 di X-Force l’invidiabile record di 5 milioni di copie vendute nel 1991. Il suo stile era davvero molto amato in quegli anni. E lo era per i suoi energumeni dai corpi gonfiati oltre le possibilità dell’anatomia umana, e le sue sexy culturiste dal girovita d’ape. Le stesse ragioni che oggi gli attirano fiumi di critiche, del resto. Dopo la sbornia comunitaria della Image Comics, Liefeld torna alla Marvel nel 1996 per lavorare su una serie della Heroes Reborn. Si dedica a Capitan America, dando vita alla sua immagine iconica definitiva che riassume in sè le caratteristiche di questo controverso autore.

Si tratta di una delle immagini più sbeffeggiate della storia del fumetto. Ma persino chi la critica non può fare a meno di sottrarsi alla sua stupefacente potenza grafica. Si tratta di una illustrazione antirealistica dove tutto è deformato ai fini espressivi. Balzano agli occhi immediatamente i pettorali, troppo grossi e sparati troppo in fuori, quasi disumani. Anche il torso appare alterato, per non parlare della testa troppo piccola e del resto. Liefeld, tuttavia, era pienamente conscio di ciò che stava disegnando: come in Jack Kirby, ogni deformazione è pensata e voluta. Robert Kirkman, sceneggiatore di The Walking Dead, lo difende: “Tutto quello che disegna ha un certo grado di energia in sé. E tutto quel che disegna è interessante, che sia accurato o meno. Molta gente guarda ai disegni di Liefeld e pensa: ai miei occhi questo disegno è sbagliato. Ecco, direi che questa gente non ha gioia nell’anima”.
Questa opera ha una potenza che sembra pulsare di un battito animale. Quella che può sembrare una bruttissima figura piena di imperfezioni è, in realtà, un’immagine iconica capace di parlare al nostro cuore svelandoci il senso di un personaggio.

 

 

3 commenti

  1. Aggiungerei John Byrne per il suo spettacolare lavoro sugli X-man fine anni 70 inizio anni 80, in particolare le immagini di Jean Gray che si trasforma in fenice nera. Sono scene da inconscio collettivo..

  2. “Con un ultimo rigurgito di pudore l’autore evita di mostrarci la punta dell’arma che fuoriesce dalla schiena, anche se le pieghe del costume della vittima stirate con forza all’indietro non risultano meno drammatiche.” Secondo me forse non è stato il senso del pudore a non far vedere la punta dell’arma. Si potrebbe trattare invece di una scelta precisa di Miller per rendere più drammatica la sequenza. Far vedere il costume che si tende e solo nella vignetta successiva il sangue che esce aggiunge dramma e ritmo. Magari Miller l’ha fatto anche per aggirare la censura, ma potrebbe essere stata piuttosto una scelta consapevole. E Neal Adams aveva ragione: ha fatto disegni decisamente migliori (penso al suo Batman o ai Vendicatori). Comunque questo è davvero un ottimo articolo. Complimenti.

  3. E Manara?
    Strano che non se ne parla!!

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